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Sagarana LIMONOV INCONTRA ARSENIJ TARKOVSKIJ


Emmanuel Carrière


LIMONOV INCONTRA ARSENIJ TARKOVSKIJ



(…) Questo accadeva nel 1968 e io avevo dieci anni. Quanto a Eduard e Anna, si erano da poco stabiliti a Mosca. In Unione Sovietica trasferirsi di propria iniziativa in un’altra città non era una cosa semplice. Dopo la rivoluzione di Ottobre, e ancora oggi, bisogna essere forniti di un’autorizzazione di residenza, la propiska, difficile da ottenere. Loro non l’avevano ottenuta, e pertanto erano condannati a una vita da clandestini, sempre a rischio di un controllo sulla metropolitana. Abitavano in stanzette di periferia, e traslocavano spesso per non richiamare l’attenzione. Le loro proprietà si riducevano a una valigia con un po’ di vestiti, una macchina per scrivere le poesie e una macchina per cucire i pantaloni. Con un po’ di tela indiana acquistata a buon mercato, Eduard e Anna avevano iniziato a fabbricare anche borsette a due manici, imitazioni di un modello visto su uno dei vecchi numeri di «Paris Match» di Bach. Costo di produzione: un rublo. Prezzo di vendita: tre rubli. Il loro primo inverno a Mosca era stato il più rigido del decennio: anche mettendosi l’uno sopra l’altro tutti i vestiti che possedevano, avevano sempre freddo, e anche sempre fame. Andavano a mangiare in una mensa, dove recuperavano dai piatti sporchi residui di purè e pelle di salame.

Nei primi tempi, il pittore Brusilovskij, il concittadino che aveva fatto fortuna a Mosca, era stato il loro protettore e il centro della loro vita sociale. Per questi quasi poveri, il suo grande atelier con pelli di animali stese sui divani, carte geografiche trasformate in abat-jour e alcolici d’importazione era un’oasi di lusso e di calore, e bastava essere disposti ad ammirarne il successo perché Brusilovskij si rivelasse un brav’uomo. Era stato lui a consigliare a Eduard di muovere alla conquista di Mosca partendo dal seminario di poesia di Arsenij Tarkovskij – allo stesso modo in cui, in quegli stessi anni, un Brusilovskij francese avrebbe mandato un giovane provinciale ambizioso ad ascoltare Gilles Deleuze a Vincennes. «Bada, però,» lo aveva avvisato «che c’è un mare di gente. Mica ci si entra così, bisogna far parte della cerchia dei discepoli. Chiedi di Rita».

Un lunedì sera Eduard infila dunque il quaderno di poesie nella tasca interna del cappotto troppo corto e troppo leggero – «in pelliccia di pesce», dicono i russi – e prende il metrò fino alla sede dell’Unione degli scrittori, un’ex residenza nobiliare che Tolstoj aveva preso a modello per quella della famiglia Rostov in Guerra e pace. È in anticipo di un’ora, ma c’è già molta gente che come lui batte i piedi per riscaldarsi (il termometro segna meno venti). Eduard chiede di Rita; gli rispondono che non si è ancora vista, che arriverà, ma Rita non arriva. Una Volga nera accosta silenziosamente al marciapiede coperto di neve. Ne scende il maestro, i lisci capelli bianchi pettinati all’indietro, imbacuccato in un’elegante pelliccia, fra le labbra una pipa inglese da cui escono volute di tabacco aromatico. Zoppica leggermente, e anche questo in lui diventa un tratto di distinzione. È in compagnia di un’altera bellezza che potrebbe essere sua figlia. Le porte si aprono davanti a loro, si richiudono dietro di loro, ma insieme a loro entra solo un esiguo drappello di eletti. Eduard afferma di essere rimasto fuori, con la plebaglia, per sei lunedì consecutivi: mi sembrano tanti, ma Eduard non ha l’abitudine di esagerare, e quindi gli credo. Il settimo lunedì compare Rita, e Eduard accede al sancta sanctorum.

Oggigiorno Arsenij Tarkovskij è molto meno famoso del figlio Andrej, che allora era appena agli inizi della sua carriera di genio della cinematografia mondiale. Per quanto ne so, Eduard – la cui opinione su Nikita Michalkov non tarderemo a scoprire – di Tarkovskij figlio non ha mai parlato, e mi pare strano, perché non fatico a immaginare le cattiverie che il nostro ragazzaccio avrebbe potuto scrivere su questo mostro sacro della cultura, che io come tutti ammiro: la sua seriosità impermeabile a ogni umorismo, la sua spiritualità austera, le sue inquadrature contemplative immancabilmente accompagnate da cantate di Bach... Il padre, comunque, all’epoca poeta molto stimato ed ex amante di Marina Cvetaeva, sin dal primo istante non gli piace: non perché lo trovi mediocre, tutt’altro, ma perché l’unico ruolo possibile accanto a lui è evidentemente quello del discepolo devoto, e questo a Eduard, anche se è giovane, grazie tante ma non interessa.

 

A ogni incontro un partecipante legge le proprie poesie. Quella settimana tocca a una certa Mašenka, che indossa, cito Eduard, una palandrana color merda e ha la tipica espressione appassionata e malinconica di tutte le poetesse che frequentano le Case della cultura in Unione Sovietica. I suoi versi sono in linea con l’aspetto fisico: scopiazzati da Pasternak, delicatamente lirici, assolutamente prevedibili. Se fosse al posto di Tarkovskij, Eduard le consiglierebbe di buttarsi sotto un treno, ma il maestro si accontenta di metterla in guardia, con fare paternalistico, dalle rime troppo perfette, e di raccontare in merito un aneddoto il cui protagonista è il suo defunto amico Osip Emil’eviè. Osip Emil’eviè è Mandel’štam, e di aneddoti su Osip Emil’eviè e Marina Ivanovna (Cvetaeva) ce ne saranno ogni settimana. Eduard ribolle di delusione e rabbia. Vorrebbe leggere i propri versi e lasciare tutti a bocca aperta. Il lunedì successivo è uguale al precedente, e così pure quello dopo. Eduard si rende conto di non essere l’unico frustrato dall’eterna attesa del proprio turno, così, dopo un seminario, e benché un paio di birre al prezzo di quarantadue copechi significhino, considerate le sue finanze, saltare i pasti il giorno dopo, va a bere qualcosa con gli altri e cerca di fomentare una rivolta, come ha visto fare a uno dei suoi eroi, il marinaio della Corazzata Potëmkin che d’improvviso esclama: «Ehi, ragazzi, che storia è questa? Ci danno da mangiare carne avariata!». Sulle prime i poeti non prendono sul serio quel ragazzo di provincia con il naso all’insù e la voce acuta, ma Eduard estrae il suo quaderno, comincia a leggere e presto tutto il gruppo lo ascolta in un silenzio sempre più attonito. Allo stesso modo, narra la leggenda, i parnassiani ascoltarono un adolescente arrogante, maleducato, con grosse mani arrossate, che veniva dalle Ardenne e si chiamava Arthur Rimbaud. Fra i testimoni della scena c’era Vadim Delaunay. (...)







Brano tratto dalla biografia Limonov, Adelphi editori, Milano, 2011.




Emmanuel Carrière

Emmanuel Carrère (Parigi, 9 dicembre 1957) è uno scrittore e sceneggiatore francese. È laureato presso l'istituto di studi politici di Parigi. La maggior parte delle sue opere sono incentrate sulla riflessione su se stesso e sul nesso fra illusioni e realtà. Molti suoi libri sono poi stati trasposti in sceneggiature cinematografiche. È autore anche di numerose sceneggiature per telefilm, basate su testi di Georges Simenon e altri. Nel 2011 la sua opera biografica Limonov ha ottenuto il Prix Renaudot. Il libro descrive la vita controcorrente del poeta ed attivista politico ucraino Eduard Limonov. Nel 2006 ha vinto l'Efebo d'oro per il film L'amore sospetto, tratto dal suo stesso romanzo.





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