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Sagarana DANIEL MUNDURUKU


Intervistato per la Casa Editrice Global


Fernanda Faustino


DANIEL MUNDURUKU



Nota introduttiva della traduttrice Loretta Emiri

Quando arrivai in Brasile, alla fine del 1977, circolavano pochissimi testi di autori indigeni, e assai complicato era prenderne visione. Ho partecipato al processo politico-pedagogico che ha visto le “scuole per gli indios” trasformarsi in “scuole degli indios”. Rivelando un abbordaggio e uno stile sorprendentemente differenti da quelli cui eravamo abituati, negli anni ottanta iniziarono a essere pubblicati abbecedari e libri di lettura prodotti dagli stessi indios. Attività economiche, organizzazione sociale, cerimonie, mitologia cominciarono ad essere raccontate dal di dentro, in modo così appropriato e originale da far invidia al più illustre degli etnologi. Disegni e testi fecero emergere una vasta gamma d’informazioni e, soprattutto, aprirono squarci sul modo di vedere e sentire indigeno.

Sono di nuovo in Italia. Attraverso Internet, che apro come fosse una finestra da cui far uscire il tanfo di decomposizione che dal Primo Mondo esala, sono venuta a conoscenza dell’esistenza e dell’operato di Daniel Munduruku. Daniel è uno scrittore indigeno brasiliano, di etnia Munduruku. Ha pubblicato più di quaranta titoli, la maggior parte dei quali rivolti all’infanzia. È laureato in filosofia, è educatore sociale, ha partecipato a conferenze e realizzato laboratori culturali in vari Paesi dell’Europa. Leggendo l’intervista da lui rilasciata per la Casa Editrice Global, ho reputato fosse interessante  tradurre le sue cristalline riflessioni e proporne la pubblicazione alla redazione di Sagarana. Contribuire ad aprire spazi attraverso cui gli indios potessero esprimersi direttamente, cioè senza bisogno d’intermediari, è ciò che ho sempre fatto durante gli anni brasiliani. Se continuo a farlo è perché sono molto egoista: ascoltare gli indigeni è prassi più gratificante e arricchente che parlare o sentir parlare di loro.

 
 
A partire da quale momento ha deciso che voleva essere uno scrittore?

La scrittura è andata impossessandosi di me. Non ho mai scelto di essere scrittore, ma mi sono lasciato contagiare dalla malattia dello scrivere. Pian piano, ho preso atto che la mia scrittura ha qualcosa da dire, ho preso atto di essere depositario di uno stile di narrativa trasmessomi dai miei antenati. A loro sono riconoscente.

 
Nei suoi libri, quali aspetti della cultura indigena si preoccupa di ritrarre?

Il mio interesse nello scrivere un libro è dialogare con bambini e giovani. Cerco di trovare un angoletto nella loro testa. So che molti sono i preconcetti in relazione alle popolazioni indigene, ma cerco di occupare quello spazio con argomenti che possano modificare lo sguardo equivocato. Forse è per questo che creo e racconto storie, racconto storie tradizionali e traghetto informazioni. Molto deve essere ancora detto sulla cultura indigena. Ed è pensando ciò che stimolo i giovani indigeni a scrivere le loro storie, dato che non ho la sensibilità sufficiente per occuparmi, io da solo, di tutta la magia che avvolge la nostra gente.

 
Come vede la riproduzione della cultura indigena nella società?

Purtroppo la cultura indigena è ancora vista come folclorica. Ciò è frutto di una politica che ha sempre trattato gli indigeni come esseri del passato, fermi nel tempo, senza storia. La società brasiliana ha finito per incorporare questo equivoco e accettarlo come verità assoluta. Il risultato è stato disastroso per la società stessa, che ha finito per negare la partecipazione effettiva della nostra gente nella formazione della società nazionale; società nazionale che oltretutto nasconde, non senza cinismo, la componente indigena del suo DNA.

 
Da dove sorge l’ispirazione per i suoi libri?

I miei testi sono frutto della mia osservazione della realtà. Cerco di non dimenticare la bellezza che c’è in ogni momento, anche quando non è molto favorevole. In un mondo dove regna solo l’apparenza, io cerco l’invisibile. Cerco di non giudicare, ma comprendere. È da questo atteggiamento che nasce la mia ispirazione. Essa nasce nel momento in cui chiudo gli occhi per vedere meglio.

 

Come educatore, quale ritiene sia la maggior barriera quando si tratta di disseminare la cultura indigena?

La barriera maggiore sta dentro gli educatori. Educare è professare un atto di fede nell’essere umano. Per farlo, bisogna saper chiudere gli occhi e buttarsi nell’abisso dell’improbabile. Il problema maggiore è che grande parte degli educatori non crede in sé stesso. Ossia, non è capace di chiudere gli occhi per scrutare dentro di sé e prendere atto che proprio lì c’è un universo intero che anela alla vera umanità. Non credendo in sé stessi, come si può credere negli altri? Come educare alla diversità? Come vedere la bellezza che è nell’altro? Educare è uscire da sé stessi e andare incontro all’altro. È un atto di generosità, di rinuncia. Chiedere questo a qualcuno, in una società dove ciò che conta è l’egoismo, può apparire come una totale mancanza di buonsenso. Eppure, è proprio lì che risiede la grande difficoltà dell’educazione nazionale.

 

Nonostante ciò che viene fatto per propagare la cultura indigena, in che modo crede che la società possa contribuire affinché questa cultura sia sempre più diffusa?

La cultura indigena non ha bisogno d’essere diffusa. Non credo che i popoli nativi desiderino essere più compresi o conosciuti. La loro lotta è in funzione del sentirsi parte della società. Ciò che si è verificato è un’invisibilità patrocinata dal sistema capitalista, che brilla nella distruzione delle differenze, che cerca di omogenizzarle attraverso il processo educativo. Penso che il miglior cammino è quello della tolleranza. Ciò passa attraverso l’educazione famigliare e non attraverso la scuola. Si apprende a rispettare l’altro osservando l’esempio degli adulti; la scuola è divenuta il luogo del disapprendere, perché insegna la separazione, la divisione, la moltiplicazione, il controllo dell’altro, il dominio e il potere. Tollerare significa lasciare che l’altro sia chi desidera essere e non chi desideriamo che sia. Quando l’altro può pienamente essere ciò che è, la bellezza si manifesta. Ognuno percependo ciò che è bello nell’altro, senza enfatizzare ciò che ha di brutto, di triste. Ingrandire il poco, ridurre il molto. Abbiamo bisogno di costruire la tolleranza, il rispetto verso l’altro, l’incontro con la diversità.

 

Con tante influenze esterne, quali sono le maggiori difficoltà dei popoli indigeni per mantenere le proprie tradizioni?

Voglio chiarire che c’è un equivoco nell’associare la tradizione a qualcosa del passato remoto. Tradizione è un metodo di manutenzione della cultura. Metodo è cammino, e cammino è movimento. Se c’è cammino, c’è sicurezza, continuità. Mantenere la tradizione non è percorrere sempre lo stesso cammino, ma non permettere che ci si dimentichi del cammino già intrapreso. Questa è la sfida dei popoli indigeni oggi: come percorrere i sentieri che abbiamo davanti senza uscire dal sentiero aperto dai nostri padri. Mantenere la tradizione significa, dunque, essere fedeli a ciò che ci è stato insegnato. E cosa ci è stato insegnato? Che dobbiamo vivere l’attimo presente con l’intensità che esso ci propone. Proprio perché rispettiamo la tradizione, dobbiamo fare l’esercizio continuo di attualizzare la memoria ancestrale utilizzando gli strumenti che oggi abbiamo a disposizione. Pertanto, dominare le nuove tecnologie dell’informazione e di esse servirci per diffondere il cammino degli antenati, e costruire nuove relazioni con la società nazionale, è il modo migliore per sentirci partecipi dell’universo sognato dagli spiriti creatori.

 
 

Segnaliamo alcuni dei titoli pubblicati dalla Global Editora: A primeira estrela que vejo è a estrela do meu desejo e outras histórias indígenas de amor (La prima stella che vedo è la stella del mio desiderio e altre storie indigene d’amore); Contos indígenas brasileiros (Racconti indigeni brasiliani); Sabedoria das águas (Sapienza delle acque); Você lembra, pai? (Ti ricordi, papà?).






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