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Sagarana ORIGINE, NASCITA E BATTESIMO


Questo brano, tratto dal romanzo Memorie di un sergente delle milizie, è il primo capitolo della prima parte del libro


Manuel Antônio de Almeida


ORIGINE, NASCITA E BATTESIMO



Era l’epoca del Re.

Uno dei quattro angoli all’incrocio tra Rua do Ouvidor e Rua da Quitanda era chiamato, a quel tempo, “l’angolo degli uscieri”, un nome perfetto, visto che si trattava del luogo d’incontro preferito da tutti gli individui di questa categoria (allora tenuta in grande stima). Gli ufficiali giudiziari di oggi non sono che una pallida caricatura di quelli dell’epoca del Re; questi, erano persone temibili e temute, rispettabili e rispettate, e costituivano uno degli estremi del formidabile circuito giudiziario di Rio de Janeiro, in un’epoca in cui le controversie erano per noi un elemento vitale; all’estremo opposto c’erano i giudici della Corte d’Appello. Gli estremi, si sa, si toccano, e quelli di cui parliamo, toccandosi, chiudevano il cerchio dentro il quale si svolgevano battaglie spaventose a colpi di citazioni, atti d’accusa, arringhe d’apertura e di chiusura, insomma, tutto l’insieme delle pantomime giudiziarie detto “il processo”.

Di qui, l’influenza morale degli ufficiali giudiziari. Ma un altro tipo di influenza – che manca agli ufficiali di oggi – derivava dal loro aspetto fisico. Quelli di oggi sono uomini come tanti: non hanno nulla di sacrale, né nell’aspetto, né nell’abbigliamento e possono essere confusi con un qualsiasi procuratore, assistente notarile o impiegato d’ufficio. Gli ufficiali giudiziari di quella bella epoca, invece, non si confondevano con nessuno; erano originali, erano tipi che emanavano, dal loro aspetto, un senso di sovranità processuale, e i loro sguardi, calcolati e sagaci, significavano cavilli. Portavano una giacca sobria e nera, pantaloni corti e calze dello stesso colore, scarpe con la fibbia e un aristocratico spadino sul fianco sinistro, mentre sul destro pendeva un cerchio bianco il cui significato ci è ignoto. Completava il tutto un’austera feluca. Protetto dall’imponenza vantaggiosa della sua immagine, l’ufficiale giudiziario usava e abusava della sua posizione. Era terribile quando un cittadino, nel girare l’angolo o uscendo di casa al mattino, si trovava davanti una di queste figure solenni a srotolargli un documento sotto il naso, leggendolo in tono confidenziale! Alla fine, l’unico rimedio in tali circostanze era articolare la terribile frase “Mi considero citato”.

Nessuno sa quale significato fatale e spietato avessero queste poche parole! Erano una condanna, pronunciata contro se stessi, a un pellegrinaggio eterno perché volevano dire che stava per iniziare un lungo e faticoso tragitto la cui meta, ben lontana, era la tesoreria del Tribunale; un viaggio durante il quale si doveva pagare un numero infinito di pedaggi: avvocati, procuratori, inquirenti, scrivani e giudici, come inesorabili Caronte, stavano all’ingresso con la mano tesa, e nessuno passava senza lasciargli non un’offerta, ma tutto quanto avesse in tasca e fino all’ultimo briciolo di pazienza.

Ma torniamo al nostro angolo stradale. Passando di là in un qualsiasi giorno feriale di quella benedetta epoca, chiunque avrebbe visto, seduto su basse sedie di cuoio allora in uso, dette “sedie di campagna”, un gruppo più o meno folto di questa nobile gente, che chiacchierava in tutta calma su qualunque cosa fosse lecito chiacchierare: la vita dei nobili, le notizie del Regno e le astuzie poliziesche di Vidigal. Tra i termini che formavano questa equazione giudiziaria inchiodata a quell’angolo, c’era un elemento costante, ed era Leonardo-Patacca. Era chiamato così un personaggio rotondo e assai grasso, dai capelli bianchi e dal viso enorme e paonazzo, considerato il decano della corporazione, l’ufficiale giudiziario più anziano allora vivente. La vecchiaia lo aveva reso pigro e flemmatico, infatti, con la sua lentezza, ritardava gli accordi tra le parti. Nessuno lo cercava, e quindi non si allontanava mai da quell’angolo, dove trascorreva le giornate seduto su una sedia, le gambe stese e il mento appoggiato su un grosso bastone che, dopo i cinquanta, era diventato il suo immancabile compagno. Il soprannome derivava dalle sue costanti lamentele per il fatto che ogni citazione gli fruttava soltanto la modesta cifra di 320 reis.

La sua storia è ben poco degna di nota. Leonardo faceva il rigattiere a Lisbona, la sua città d’origine, ma stanco di questa attività, era venuto in Brasile. Qui, non si sa grazie a chi, aveva ottenuto l’incarico di cui lo abbiamo visto investito, che esercitava, come abbiamo detto, da tempi remoti. Sulla stessa nave era venuta con lui, non si sa a fare che cosa, una certa Maria da Hortaliça, venditrice ambulante nelle piazze di Lisbona, paesanotta rotonda e attraente. Leonardo, a dirla tutta, all’epoca della sua gioventù non aveva un brutto aspetto e, soprattutto, era un simpaticone. All’uscita dal Tago, mentre Maria era appoggiata a un parapetto, Leonardo, nel passarle davanti con finta distrazione, le aveva mollato con lo scarpone dalla punta in ferro una bella pestata sul piede destro. Maria, come se già se lo aspettasse, aveva sorriso fingendo imbarazzo per quello scherzo, e gli aveva dato, con fare distratto, un tremendo pizzicotto sul dorso della mano sinistra. Si trattava, secondo gli usi del posto, di una vera e propria dichiarazione formale, per cui trascorsero il resto della giornata in un corteggiamento serrato e, al tramonto, la scena si ripeté con una sola differenza: questa volta la pedata e il pizzicotto erano stati più forti, e il giorno dopo i due erano affettuosi e intimi al punto da sembrare amanti da molti anni.

Una volta scesi a terra, Maria cominciò con certe nausee, e allora andarono a vivere insieme e, dopo un mese, gli effetti della pestata e del pizzicotto furono evidenti: sette mesi più tardi Maria ebbe un figlio, un bambino straordinario, lungo quasi tre palmi, grasso e rosso, capelluto, sgambettante e piagnucolone, che succhiò latte per due ore di seguito senza mai staccarsi dal seno. Di tutto quanto abbiamo detto, questa nascita è senza dubbio la cosa più importante perché il bambino in questione è proprio l’eroe della nostra storia.

Quando arrivò il momento di battezzare il ragazzo, per madrina fu scelta la levatrice, mentre ci fu qualche dubbio sul padrino. Leonardo avrebbe voluto il giudice, ma dovette cedere alle richieste di Maria e della madrina, che invece vollero e scelsero il barbiere del negozio di fronte. Si sa che quel giorno ci fu una festa. Gli invitati del padrone di casa, tutte persone d’oltremare, si sfidavano nel canto, secondo le loro usanze, mentre quelli della madrina, tutte persone del posto, ballavano il fado. Il padrino aveva portato un violino, lo strumento preferito, come tutti sanno, dalla gente del mestiere. All’inizio Leonardo, per dare alla festa un tono aristocratico, propose di danzare il minuetto di corte. L’idea fu bene accetta, ma ci fu qualche problema per la formazione delle coppie. Alla fine si alzarono una matrona bassa e grassa, moglie di un invitato; una sua amica, dall’aspetto completamente opposto al suo; un collega di Leonardo, magrolino, piccoletto e con modi maliziosi; il sacrestano della cattedrale, un tipo alto, magro, con manie di eleganza. Fu il padrino a suonare il minuetto al violino, e il figlioccio, in braccio a Maria, accompagnava ogni staccata con un grido e uno sgambettio, facendo perdere continuamente il ritmo al padrino, costretto quindi a ricominciare ogni volta.

Finito il minuetto, la cerimonia cominciava a svanire, mentre la festa si riscaldava, come si diceva all’epoca. Arrivarono alcuni ragazzi muniti di chitarre e chitarrine, e Leonardo, esortato dalle signore, si decise ad aprire la parte lirica dell’intrattenimento. Si sedette su uno sgabello, in un punto appartato del salotto, e prese una chitarra. Faceva un effetto alquanto comico vederlo con gli abiti del lavoro – cappotto, pantaloni corti e spadino – mentre accompagnava con il monotono zum zum delle corde dello strumento il gorgheggio di una modinha[1] del suo paese. Fu proprio nella nostalgia della sua terra che Leonardo trovò l’ispirazione per cantare, una cosa perfettamente naturale per un vero portoghese quale era. La modinha1 diceva così:

 

Quando ero nella mia terra,

Da solo o in compagnia,

Cantavo di notte e di giorno

Accanto a un bicchiere di vino!

 

Fu eseguita con attenzione e applaudita con entusiasmo, e l’unico che non parve apprezzare fu il bambino, che omaggiò suo padre proprio come aveva omaggiato il padrino, segnando il ritmo con lamenti e sgambettii. Maria fece gli occhi rossi e un sospiro.

Il canto di Leonardo fu l’ultimo rintocco per far sì che la festa si scaldasse, una sorta di addio alle cerimonie. Tutto, da quel momento in poi, fu un brusio, che presto si trasformò in schiamazzo e ancora più in fretta in baraonda, senza andare oltre solo perché, ogni tanto, dalle grate a gelosia di porta e finestre si vedevano passare alcune sagome che annunciavano la presenza di Vidigal nei dintorni.

La festa finì tardi, e la madrina fu l’ultima ad andare via, dopo aver benedetto il figlioccio e avergli infilato un rametto di ruta nella fascia che copriva l’ombelico.

 
Nota:

1 - Genere musicale di origini probabilmente portoghesi, molto popolare in Brasile fin dal Settecento. Come nella scena descritta da Almeida, la modinha diventa una pratica musicale domestica di carattere urbano, destinata a momenti di intrattenimento. Tutte le note sono della curatrice.



 







Titolo originale: Memórias de um sargento de milícias, Salerno, Edizioni Arcoiris, 2013. A cura di Jessica Falconi.




Manuel Antônio de Almeida

Nato a Rio de Janeiro nel 1831, Manuel Antônio de Almeida si dedicò attivamente al giornalismo in qualità di redattore del supplemento domenicale del quotidiano carioca Correio Mercantil, dove pubblicò tra il 1852 e il 1853 Memórias de um sargento de milícias. Traduttore di romanzi di appendice, si allontanò poi dal giornalismo per ricoprire diversi incarichi amministrativi: direttore della Tipografia Nacional nel 1858, poi ispettore scolastico e ancora funzionario del ministero dell’agricoltura. A soli trent’anni trovò la morte nel naufragio della nave Hermes, nel 1861. Oltre alle Memórias, la sua produzione annovera articoli sulla società brasiliana, saggi di critica letteraria, componimenti in versi e un dramma lirico, riuniti nel volume curato da Bernando Mendonça Obra dispersa (1991).





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