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Sagarana DONNE EGIZIANE AL BAGNO PUBBLICO


Suzanne Monnier


DONNE EGIZIANE AL BAGNO PUBBLICO



Nel periodo di calma precedente i grandi movimenti della natura, quando la peste del quartiere ebreo cominciava a diffondersi in quelli più vicini e preoccupava le nostre menti ma senza ancora interrompere ogni relazione, Clara e io decidemmo di visitare i bagni pubblici. E’ il luogo più completo e il più indicato per osservare le donne del Cairo. Volevamo verificare se l’attrazione che esercitano giustifica al loro ansia di frequentarli.

Comprendemmo che queste lunghe sedute nell’acqua rappresentavano per loro l’equivalente di Longchamps, ovvero un luogo dove le più fortunate esibiscono i loro splendidi abiti e le belle acconciature di fronte alla rapita e curiosa ammirazione delle amiche. Per queste povere prigioniere andare ai bagni significa una giornata di vacanza; senza sorveglianti e padroni non devono subire nessuna costrizione o rivalità.

Stretto e basso, l’ingresso ai bagni non è certo sontuoso. Sono tutti disposti al pianoterra e le stanze, alte e ampie, si susseguono con un calore progressivo fino all’ultima che è una vera stufa e contiene al centro una grande piscina in marmo. L’acqua, rinnovata di continuo, viene mantenuta a una temperatura tra i venti e i trenta gradi, ciò che non impedisce alle donne di immergervisi con piacere per qualche minuto.

Appena pronte per la doccia, le fellah che lavoravano nello stabilimento ci fecero passare successivamente attraverso i vari gradi di calore, senza lesinare né il sapone né i potenti getti d’acqua sempre più bollenti con cui cospargevano tutto il corpo, per poi ricominciare nella stanza seguente. Per conto mio ritenni queste reiterate aspersioni ampiamente sufficienti e rifiutai di tuffarmi nella piscina sentendomi abbastanza accaldata. La mia amica Clara invece acconsentì a immergersi per alcuni minuti, ansiosa di mostrarsi sotto l’attraente forma di un gamberone arrostito. Da lì tornammo nella stanza centrale dove, stese su divani ricoperti da spesse stuoie di giunco, ci affidammo alle massaggiatrici a cui l’esperienza dà una particolare abilità nell’esercitare una specie di magnetismo. A forza di delicate frizioni, esse sciolgono le membra, le comprimono, le piegano, fanno scricchiolare le articolazioni, senza procurare alcun dolore alle pazienti.

Le fellah esercitano volentieri queste funzioni, direi quasi con un piacere che deriva da una naturale sensualità. Rivolgono alle clienti dei complimenti con voce dolce e modi carezzevoli e chiedono di poter abbracciare le spalle delle donne dalla pelle bianchissima, mentre queste sorridono e le respingono mollemente, come si fa con un bambino inopportuno.

Dopo esserci vestite, andammo a riposare nella prima sala, dove ci sentimmo invadere da un delizioso benessere. In questo posto le setti respirano con piacere l’aria fresca dell’immensa sala, discutono briosamente tra loro e fanno la fantasia. Tutte mostrano di gradire le gustose merende offerte dalle inservienti: pasticcini di ogni tipo, frutta, sorbetti. Inoltre, per mantenere il proprio peso, la formosità delle linee molto apprezzata dagli uomini turchi, passano poi a cibi preparati con sostanze farinose e mucillaginose.

Dopo questo bagno il riposo diventa un’assoluta necessità. Restammo lì parecchie ore divertendoci a guardare quelle scolarette in vacanza e accettammo per educazione e per forza un po’ di caffè, ambedue compiaciute di iniziarci ai segreti della toilette orientale.

Le addette ai bagni offrono alle signore una crema depilatoria che tutte sanno preparare. E’ composta da un minerale scuro chiamato rusma, fatto leggermente scaldare sul fuoco, poi schiacciato e impastato con acqua e calce spenta, in parti uguali. Spalmata sull’intero corpo, questa crema di colore grigiastro elimina ogni minima peluria. L’applicazione del rusma, usato da tutte le orientali, rende i loro corpi simili a quelli delle bambine. Le mie domande su questo argomento non sono riuscite a farmi scoprire se quest’uso incoraggiato dagli uomini viene considerato una misura d’igiene o un misterioso motivo di fascino in più della bellezza femminile.

In seguito si dipingono le palpebre, si allungano l’angolo delle sopracciglia con il kohl, si colorano le unghie delle mani e dei piedi con l’henné e si pettinano facendosi centinaia di treccioline e inserendovi un numero imprecisato di monete d’oro. Così intrecciata, la capigliatura ondeggia sulle spalle e produce un tintinnio gradevole all’udito. Poi si ricostruiscono tutta l’impalcatura dell’acconciatura. Sul tarbush posato sulla testa sistemano fiori, piume e perle che costituiscono un pesante fardello senza alcuna grazia.

Le pietre preziose che ornano i tarbush o l’oro che ondeggia nei capelli appartengono alle donne. Il padrone può ripudiarle ma non può togliere loro nemmeno un solo kirie (moneta d’oro del valore di due franchi e venticinque) dei doni effettuati in passato.

Tutta questa eleganza, i larghi pantaloni di cachemire rosso, gli ialak o vestiti “alla castellana”, le babbucce ornate di perle, è destinata a conquistare l’amore e la preferenza del padrone, mai a essere mostrata all’esterno.

Lo straniero vede queste donne sempre avvolte da ampi vestiti senza forma, da veli, dal borgal davanti al viso e dal rhabra, un grande quadrato di seta nera. Così conciate offrono di sé un’immagine bizzarra, strana, che richiama ben poco […] quella dell’odalisca.







A cura di Milva Cappellini.




Suzanne Monnier

Suzanne Monnier nasce nel 1801 a Parigi, in una famiglia operaia. Il padre è un operaio fabbricante di cappelli dai trascorsi rivoluzionari, la madre è una cattolica di stretta osservanza che educa le figlie secondo rigidi dettami religiosi. Dopo un’adolescenza segnata dal lavoro e da delusioni sentimentali, Suzanne si sposa con il muratore Eugène Voilquin e con lui aderisce, nel 1830, al sansimonismo. Seguace di Barthélemy Prosper Enfantin - figura carismatica ma anche spregiudicata che determinerà, con l’interpretazione “immorale” dell’eredità di Saint-Simon, la fine della scuola - Suzanne abbraccia con entusiasmo la nuova religione e, nonostante disillusioni e sofferenze, le rimane fedele per tutta la vita. Nel 1832, dopo il processo ai sansimoniani, Suzanne collabora al giornale “La Femme Libre”, fondato da Marie-Reine Guindorf e Désirée Gay, che avevano lasciato la famiglia sansimoniana. Diventa la direttrice del giornale quando le due fondatrici si allontanano per aderire al fourierismo e lo rinomina prima «La Femme nouvelle» e poi «La Tribune des femmes». Nel 1833, Eugène emigra con una nuova compagna in Louisiana per fondarvi una comune ispirata al sansimonismo: Suzanne gli restituisce la libertà e adotta per sé un nuovo motto: “Pensare, amare, agire liberamente”. Nel 1834 la donna raggiunge Enfantin - che ha scontato un anno di carcere - in Egitto, dove lavora come infermiera (anche durante un’epidemia di peste), ma si propone anche di “Studiare le donne di questo paese”. Segue corsi di arabo, prende lezioni di medicina e ostetricia, si interessa delle prime fasi della medicina omeopatica. Le sue memorie egiziane - Souvenirs d’une fille du peuple, ou La saint-simonienne en Égypte – verranno pubblicate nel 1866. Dopo due anni in Egitto, Suzanne torna a Parigi, poi si trasferisce dal 1839 al 1846 in Russia, poi è di nuovo a Parigi dove, durante la rivoluzione del 1848, collabora a «La voix des femmes» e fonda un’associazione di levatrici. Con il ritorno all’ordine post-rivoluzionario, viaggia a più riprese, con il padre e la sorella, in America. Ritornata in Francia, malata e povera, muore in una casa di cura tra il 1876 e il 1877. Concludendo le proprie memorie, nel 1865 aveva scritto: “Costretta a vendere tutto il mio tempo, le mie parole, tutta la mai vita esteriore, ho dovuto sacrificare il mio cuore e la mia volontà, ma ho conservato la mia libertà di pensiero!”





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