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Sagarana IL DENARO SCOMPARSO


Giorgio Bocca


 

Un giovane che lavora nella pubblicità mi dice più stupefatto che impaurito: “Sembra che nessuno dei miei clienti, commercianti, imprenditori, sarti, impresari teatrali abbia più una lira. Non spendono, non investono, non ti chiedono più nulla. Io per campare sono pronto a vendere per cinquemila euro un lavoro che a me ne costa diecimila. Tutti quelli che conosco navigano come me in un mare senza più acqua, respirano un’aria senza più ossigeno, bussano a porte che si aprono solo per dirti che non hanno bisogno di te”. Il mondo si è diviso improvvisamente tra quelli che i soldi ce li hanno ancora, li fanno ancora girare, e quelli che non sanno più bene che cosa li aspetti domani, che attendono che la siccità un bel giorno finisca così come è arrivata. Ma in questo mondo spaccato in due dove la circolazione del denaro, che per gli uomini di oggi è come la circolazione sanguigna, che per alcuni funziona e per altri si è fermata, restano ancora dei beni, dei consumi, degli usi, delle abitudini comuni a tutti e per ora insostituibili: le vacanze, le automobili, come la voglia di staccare dal lavoro – ma staccare come, se sei tu che sei stato staccato? -, la televisione, il tempo che fa; e allora in questo paese rimasto per metà a secco avvengono incredibili migrazioni vacanziere, sulla circolare di Mestre si formano delle code di sei sette ore, la Protezione civile distribuisce in un’ora diecimila bottigliette di minerale agli automobilisti assetati, i telegiornali fanno vedere spiagge e montagne gremite di gente, anche di stranieri venuti chi sa perché come sempre a questi patimenti estivi. Sarà così la fine del mondo? Un progressivo consumo di risorse, di macchine, di valute pregiate, di case, di tutto fino al vuoto finale, fino alla parificazione di tutti nella fame e nella sete. E’ singolare che proprio nella modernità superliberista della Thatcher e di Reagan, dell’ossessione anticomunista, dei dominanti miti del più feroce individualismo tutti, ma proprio tutti siano costretti da questa grande crisi che nessuno sa bene cosa sia e da dove sia arrivata a provare sulla propria pelle che non siamo padroni della nostra vita, dei nostri destini, dei nostri comodi, che siamo ancora come nel tempo antico, come sempre, in balia delle tempeste e delle dieci piaghe che un dio crudele può mandare quando vuole sulla Terra. Stupefatti e come paralizzati dalle recenti sanguinose delusioni di tutti gli ismi provati nel secolo scorso: i nazismi, fascismi, comunismi che hanno seminato guerre e lager e torture, cui ora si aggiunge più che il dubbio la certezza che anche il capitalismo fabbrica di abbondanza non riesca a liberarsi dalle sue malattie congenite e misteriose come questa per cui improvvisamente metà della gente non ha più una lira da spendere, da investire, o il coraggio di farlo, sicché, non avendo consolazioni migliori, partiamo tutti negli stessi giorni verso le infernali code di auto, verso le puzzolenti resse estive. Per gli uomini di lunga vita come il sottoscritto c’è un altro motivo di stupore: la grande delusione dell’ economicismo, la fiducia non solo marxista che il dominio dell’economia avrebbe risolto tutti i nostri problemi. Ma di fronte al giovane pubblicitario che mi racconta più stupito che impaurito che il denaro è sparito dalle sue sorgenti, dai suoi fiumi, che la circolazione sanguigna di cui viviamo si è per metà fermata, come non ricordare che negli anni della fame e del terrore eravamo aperti alle più meravigliose speranze, che c’erano giovani che sacrificavano la vita per tenerle in vita? Ogni giorno i bollettini di guerra della grande crisi pubblicano il numero dei senza lavoro. Ma fra essi non ci sono gli speculatori più irresponsabili. Un’inchiesta fra i finanzieri di Wall Street ha rivelato che quasi tutti sono rimasti al loro posto, al massimo hanno cambiato scrivania.
 
La caduta di Wall Street
 
La caduta di Wall Street equivale per il liberismo alla caduta del Muro di Berlino per il comunismo. Dice che questo tipo di organizzazione economica è insostenibile, la “mano invisibile” che guida il mercato non si è vista perché non esiste. Con la fine del liberismo economico la funzione delle banche cambia da investitori a salvatori. Il capitalismo finanziario, considerato la massima espressione del capitalismo occidentale, si ritrova di fatto nazionalizzato con i liberisti che invocano l’intervento dello stato. Il capitalismo liberista doveva gestire il rischio e investire bene i capitali. Ha fatto il contrario. Pare avesse ragione T. S. Kuhn quando diceva che la scienza, anche quella economica, procede a salti: quando il suo vecchio paradigma entra in crisi lo si sostituisce con uno nuovo, magari contrario.
Il liberista Reagan poteva dire: E’ mattino nell’economia americana, lo stato non è la soluzione ma il problema”. Sono passati pochi anni e lo stato non è più il problema ma il salvatore. D’improvviso la vecchia fiducia nel risparmio delle famiglie, base sicura della tenuta economica, si rovescia nell’indebitamento senza fine. Uno come me che segue a stento le vicende economiche elementari, del tipo chi scende e chi sale, chi è più ricco e chi è più povero, si è accorto che qualcosa stava cambiando quando la sua banca ha improvvisamente trasformato gli impiegati in procuratori di affari, e i direttori di filiale d’improvviso hanno dato nuove direttive: non state in ufficio a poltrire, andate nelle case e negli uffici, trovate nuovi clienti, offrite nuove opportunità di rischio e di guadagno. I bravi dipendenti sono usciti, hanno moltiplicato per mille gli acquisti senza copertura necessaria, i titoli spazzatura.
 
Il colpo di stato dei manager
 
Due rivoluzioni hanno cambiato il mondo. La rivoluzione plutocratica, che ha fatto del denaro l’unica indiscutibile unità di misura della nostra vita, accettata e rispettata anche da coloro che il denaro non ce l’hanno; e il colpo di stato dei manager, quelli che manovrano il denaro e le tecniche. Con il colpo di stato dei manager il fine dell’impresa non è più la crescita dell’occupazione e la qualità dei prodotti e dei servizi: più i dividendi, più valore delle azioni e i manager al potere al posto dei vecchi proprietari, i CEO, gli onnipotenti manager padroni dei consigli di amministrazione il cui scopo, quasi divino, è l’aumento del valore. I manager che non decidono gl’investimenti a lungo periodo per la crescita generale di ricchezza, ma che perseguono i profitti a breve termine trasferendo all’esterno dell’azienda funzioni che prima rientravano nelle spese generali. Con il ricorso sistematico ai consulenti, che badano unicamente a far sottoscrivere nuovi imbrogli, anche se si è certi che non verranno onorati dai sottoscrittori. Vendere e continuare a vendere, anche i titoli spazzatura, pur di assicurare ai manager nuove stock option, cioè nuovi premi per l’aumento del valore, stock option che i manager si assegnano con il consenso dei consiglieri di amministrazione, comprati, come al tempo dei padroni, con qualche gettone di presenza, i consigli di amministrazione, distratti o corrotti con le briciole che gli vengono dal grande banchetto. Il tutto, ha scritto in un suo saggio Giulio Sapelli, sorretto dal mito del lusso, dell’ostentazione della ricchezza. Con la rivoluzione plutocratica i ricchi hanno perso anche l’ansia e i rimorsi della ricchezza immeritata. La ricchezza come dato di fatto, come nuova gerarchia, vince ogni ostacolo, si stende, come un tappeto morbido e spesso, sopra ogni dubbio e opposizione. I grandi manager hanno come unica etica quella del denaro, del valore, da mettere assieme a tutti i costi. In tutti i giornali in cui ho lavorato a ogni cambio di manager il nuovo arrivato provvedeva al suo personale aumento del valore cambiando tutti i fornitori: della carta, degli inchiostri, delle macchine per comporre, da tutti ottenendo profitto. E quando ebbi per editore un ente di stato il manager di turno, appena insediato, ordinò una nuova rotativa a colori, costosissima, assecondato dai tipografi, tutti per una politica di sviluppo. Un tempo i grandi manager venivano venerati come i signori dei destini aziendali, gl’infaticabili, geniali costruttori di aziende giganti. Di quel mitico tempo è rimasta una retorica militaresca. Ci sono manager che si addestrano in campi militari per imparare le tecniche di sopravvivenza. Sono quelli che dicono ai dipendenti che “Le idee migliori sono quelle che vengono quando si è pieni di adrenalina”. Il capo della Bmw Usa correva con i colleghi su un asfalto bagnato e scivoloso, molti frequentano i corsi di tuffi nel vuoto, legati a un elastico che li risolleva dal baratro. Il CEO Nardelli, il manager che ha accompagnato la Chrysler “fin sulla porta dell’obitorio”, aveva ordinato uno studio su trecento dirigenti, arrivando alla scoperta non sbalorditiva, che “la capacità dirigenziale dipende da due cose: la rapidità delle decisioni, e la presenza in azienda”. Ai grandi manager piace, naturalmente, muoversi nel mercato globale, senza confini, ma purtroppo anche senza regole. Questo mercato globale, descritto come la panacea di tutti i mali economici, purtroppo si adatta benissimo alla corruzione globale, alla crescita delle alleanze criminali e parentali. La grande crisi ha moltiplicato le paure e alimentato desideri: è il cane che si morde la coda.
In questo mondo delle informazioni e delle macchine intelligenti non si sa mai niente di sicuro. La crisi economica c’è? E’ recessione o depressione? Meglio o peggio di quella del ’29? Non si è ancora capito bene. Vado in Valle d’Aosta per uno dei ponti vacanzieri. Tutto pieno. I prezzi sono calati? Ma no, raddoppiati o quasi. Nel ristorante di Verrès, dove si pranzava per venti euro, oggi il minimo è quaranta, tutti gli attrezzi dello sci carissimi, un paio di scarpette da fondo sui duecento euro. Ai miei tempi erano scarpe di cuoio normali, solo con gli orli della punta allargati, per premerci la leva degli attacchi. Adesso in plastica, a forma di sommergibili atomici, modellate sul piede con il poliuretano espanso. I miei figli, i figli dei miei amici, tutti, hanno imparato a sciare da noi genitori, come noi dai nostri. Oggi i nostri nipoti vanno tutti a scuola di sci, che noi delle città alpine ci saremmo vergognati, come di rubare il pane a tradimento, si diceva. I tempi sono cambiati: ai nostri si andava in salita a piedi sulle piste degli slittoni del fieno, ma era meno divertente che con gli skilift? Siamo dentro una crisi economica che per trovarne una simile bisognerebbe tornare ai tempi di Augusto. Ricorre sui giornali la ferale notizia: il quaranta per cento degli italiani non arriva alla quarta settimana del mese, quasi la metà della popolazione è vicina alle soglie della povertà. Purché si aggiunga che la povertà di oggi è la nostra ricchezza di ieri, che, a dir le cose come stanno, il livello medio di vita delle società consumistiche è troppo alto per essere conservato. Quando ero ragazzo in casa nostra, la casa di una famiglia borghese media, non c’era il telefono, non c’era il bagno, non c’erano né automobili né motociclette, non si cambiavano gli abiti a ogni stagione, e il corredo che durava una vita era normale per la ragazza da marito. Non si mangiava carne tutti i giorni, non si andava a ballare tutte le sere e la canzone più in voga era Se potessi avere mille lire al mese. Non eravamo soddisfatti neppure allora del nostro stato sociale ed economico, ma pensavamo di essere finalmente usciti da un passato di sacrifici e di miseria. Quello che ci spaventa nel presente tecnocratico e consumistico non è solo la povertà, ma le crescenti complicazioni della vita. Ciò che mi spaventa nel presente tecnocratico e consumistico è la progressiva riduzione, fino alla scomparsa, di un minimo di autonomia individuale. Sugli schermi di una televisione che ha milioni di abbonati appare un annuncio:
“I seguenti canali saranno interrotti. Per riaverli ri-sintonizzate il vostro decoder”. Mi chiedo: come si fa a ri-sintonizzare il decoder? Non resta che chiamare l’omino della televisione, quello che vende e aggiusta le televisioni. C’è l’omino della televisione, come l’omino dei computer, dell’elettricità, dell’automobile, della lavastoviglie. Di tutto ciò che ti è indispensabile, senza il quale non sai più vivere. E allora capisci il colossale ricatto dell’economia consumistica moderna. Non solo si moltiplicano i consumi non necessari, ma diventano un vizio di cui non ti puoi più liberare, per cui ti devi indebitare. La manutenzione come una rete nuova e senza fine, di cui non puoi più liberarti, una divisione della società in tante isole specializzate e incomunicanti. E anche la crescita universale dei desideri, gli omini indispensabili per questo o quel consumo, si pensano come classe dirigente, tutti vogliono la ricchezza subito e con ogni mezzo. L’idea che il denaro, e solo il denaro, è lo scopo della vita si diffonde. Dicono che la cultura dei manager, dirigenti del consumismo universale, sia militare, che essi abbiano ereditato e continuato la cultura militare del riarmo continuo, del nemico onnipresente, della conquista indispensabile per la sopravvivenza. Dei militari, i manager continuano anche i privilegi e la solidarietà di casta. E anche le ipocrisie.
I banchieri e la finanza hanno esagerato, dice il ministro dell’Economia Tremonti, perché non c’erano regole. I banchieri come il re Mida trasformavano in oro tutto ciò che toccavano. Ma a chi gli chiede di dettare le nuove regole risponde: “Non si può fare in otto ore ciò che non è stato fatto in otto anni; non si può guarire di colpo una comunità finanziaria profondamente scossa dalla crisi”. I derivati, ammette il finanziere Warren Buffet, sono l’equivalente delle armi di distruzione di massa. Tutti improvvisamente sono rinsaviti, ammettono la fine del laissez-faire, la necessità di nuovi controlli delle aziende e delle loro azioni. Secondo alcuni siamo al capitalismo tecno-nichilista, le società avanzate hanno creato un soggetto sociale sempre più adolescente, che esce da casa, vive l’ebbrezza di essere lontano dallo sguardo dei genitori e crede che la libertà consista nel fare quello che si vuole, ignorando che la libertà consiste nel sapere che ci sono dei limiti.
Oggi tutti vogliono essere liberi, ma la libertà non può essere disgiunta dall’etica, dalla responsabilità, dal rispetto delle libertà altrui. Chi gestisce questa finta libertà, dice il sociologo Mauro Magatti, è irresponsabile. Mi è sempre parso molto significativo che Silvio Berlusconi abbia scelto il termine libertà per contrassegnare i suoi seguaci, il suo popolo. Gestire il discorso sulla libertà significa gestire l’egemonia; la cultura tecno-nichilista ha degli effetti sui suoi seguaci, e così si capisce che Silvio possa dire alle giovani donne ambiziose “Sposatevi un miliardario”, o che abbia gestito in grande il mito del mignottificio delle veline, delle attricette che d’improvviso accedono alla ricchezza.
L’economia attuale è: fare tutto quello che sta in piedi ignorando ogni questione di sostenibilità.




Brano tratto da Annus Horribilis, di Giorgio Bocca, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2010.




Giorgio Bocca
Giorgio Bocca č uno dei pių importanti giornalisti italiani.




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