Torna alla homepage

Sagarana IL POPOLO DEL POPULISMO


Loris Zanatta


IL POPOLO DEL POPULISMO



Per orientarsi nella ricerca del "nucleo" populista è bene partire dall'idea di popolo che vi è contenu­ta. Perché il populismo è anzitutto questo: un appello diretto al popolo quale fonte della sovranità politica al di sopra di ogni rappresentanza. Tanto che è inconcepibile parlarne fuori da un contesto ideale demo­cratico; fuori da un contesto, cioè, in cui sia assodato che la fonte del potere risiede nel popolo. Proprio in ciò sta d'altronde la modernità del populismo, il quale non può vivere in contesti culturali che non ammet­tano la sovranità popolare a fondamento dell'ordine politico. Non può cioè esistere laddove è comunemente accettato che l'autorità discende direttamente da Dio.

Poiché però l'idea di "popolo" è in sé assai astratta e deve essere di volta in volta definita, va da sé che anche il populismo si "inventi" il suo popolo e pretenda di identificarlo con "il" popolo tout court. «La vera democrazia», diceva Perón parlando ai suoi seguaci, «è quella in cui il governo fa ciò che vuole il popolo», dove il popolo era il suo popolo, trasfigurato in tutto il popolo. Non è forse lo stesso per Beppe Grillo quando annuncia che gli italiani manderanno a casa tutta la vecchia clas­se politica, elevando così la sua piazza a tutto il popolo, ossia all'unico che ha il diritto di essere definito tale in quanto puro e onesto? «Io sono Chávez», amava dire il caudillo venezuelano, «io sono un popolo». E Berlusconi non segue le stesse. orme nell'annunciare nel 2007 la fonda­zione del "grande partito del popolo italiano", quasi gli altri lo fossero di popoli stranieri? E così via, all'infinito o quasi. «Il fascismo è tutto il popolo italiano», diceva d'altronde Mussolini nel 1925, con parole che senza sfumature esibiscono il repertorio dei populismi assurti a regime in quegli anni, da quello stalinista a quello hitleriano.

Com'è, dunque, il popolo invocato dal populismo? A prima vista parrebbe così multiforme da non avere caratteristiche precise: a volte è il popolo sovrano privato dei suoi diritti da una classe politica che ha assunto le forme di un'oligarchia autoreferenziale; altre volte è il popolo inteso come classe, e allora prevale l'idea che a formarlo siano le fasce più deboli e senza voce, che vivono della propria fatica e che reclamano sovranità e diritti al cospetto dei potenti che si nutrono dei loro sforzi; quasi sempre è il popolo della nazione, o di una data comunità territoria­le e culturale, evocato come custode della sua identità, dei suoi caratteri linguistici, religiosi, etnici o culturali.

Tutte queste idee di popolo sono sovrapponibili e possono coesistere. Di costante, in tutte, c'è che il popolo, visto in quest'ottica, è inteso come il depositario esclusivo della "virtù", come lo scrigno nel quale si conserva un senso comune del quale il populismo si eleva a naturale interprete e di cui possiede il monopolio. "Dignitoso" è il popolo chavista, "felice e buono" quello peronista, "onesto" quello grillino, "forte e virile" quello padano, intriso di pura etica rivoluzionaria quello cubano. Puro e mi­gliore del ceto politico, d'altronde, integerrimo e perspicace suole essere per definizione il popolo di ogni populismo.

Per cogliere però l'essenza del populismo, ossia la sua idea di "popo­lo", occorre spingersi oltre questa soglia, per trovare a monte quale sia la fonte di questi modi di rappresentarlo. Infatti, se la si oltrepassa, si vedrà come sopra di essi vi siano lo stesso immaginario, la medesima visione del mondo. L'elemento chiave che salta agli occhi è che il popolo dei po­pulisti appare indifferenziato, omogeneo, privo di dissonanze o dissensi.

Esso è una comunità dove l'insieme supera la somma delle parti di cui composto, dove l'individuo si confonde col tutto: una comunità olistica, sarebbe il miglior modo per definirla. Non a caso i populisti sono soliti rappresentare il loro "popolo" come un organismo vivente, dove ogni organo contribuisce in base alle sue funzioni e capacità all'armonia complessiva, alla salute del corpo. La comunità politica non è perciò intesa dai populisti come un'associazione volontaria di individui uguali che preso atto delle rispettive individualità, discutono e negoziano le leggi e le istituzioni che ne regolino la vita in comune. No, essi presuppongono un popolo che già esiste in natura, una comunità formata dalla storia e dall'identità scolpita nella pietra, perché formata da legami storici o linguistici, morali, spirituali o territoriali.

Proprio la rivendicazione di tale unità e delle sue radici affondate in un passato poco importa quanto reale e quanto idealizzato dà al populi­smo un ricco potenziale evocativo, in opposizione ai processi di trasfor­mazione cui esso imputa la crisi e la frammentazione sociale. Per diversi che siano, sosteneva José Antonio, leader del falangismo, gli spagnoli si sentono in armonia tra loro perché uniti da un destino comune. Il richiamo all'unità di storia e destino del popolo cubano è sempre stato ossessivo in Castro, e altrettanto si può dire per Perón riguardo al popolo argentino. Per ironico che appaia, Berlusconi ha più volte invo­cato i "valori morali degli italiani"; intesi come un popolo omogeneo e "naturale" che i suoi nemici minacciavano di disgregare. Inutile dire che proprio tale presunta origine naturale sta alla base dell'autonomismo o addirittura dell'indipendentismo padano.

Tale natura indivisa del popolo è il cuore, l'essenza più intima del populismo. In quest'ottica il popolo s'impone infatti per il suo profi­lo monolitico, come una comunità naturale radicata nel passato che affronta una minaccia dalla quale il populismo promette di difenderla rigenerandola, ridandole cioè la purezza e l'identità che sono a rischio. In quanto tale, il popolo si presenta come espressione di un humus sto­rico remoto e profondo che lo lega per sempre a un destino comune e gli conferisce un'identità esclusiva che lo differenzia in modo netto da tutti gli altri popoli: perché quelli parlano altre lingue, pregano un altro Dio, appartengono a una diversa classe sociale, professano una diversa ideologia, e così via. In tal senso, il popolo del populismo ha una sua patria, intesa sia come luogo fisico, la "patria" in senso tradizionale, sia come luogo astratto, dove quell'identità e quel destino trovano riparo e conferma dinanzi ai mutamenti in corso: un luogo intriso di simboli ed emozioni, dove si preservano idealmente e attraverso precise ritualità l'armonia e l'omogeneità delle origini. Si può dire perciò che il populismo "essenzializzi" il suo popolo, inventandone una storia e un destino comuni che precedono la sua trasformazione in comunità politica e che da essa prescindono; è lecito anche notare che tale popolo è un'entità mitica che si esprime attraverso una democrazia basata sulla "rassomiglianza" tra i suoi membri, in particolare tra il leader e i suoi seguaci: un popolo quanto più separato possibile da chi non è simile a lui e chiuso in un mondo incontaminato dalla differenza. Urge difendere il sentimento

della cubanità, sostenne Castro fin dagli albori della sua rivoluzione, facendosi così eco degli inni all'identità nazionale che ogni populismo ha sempre intonato: dall'ispanità falangista all'argentinità peronista, dalla brasilianità varguista all' italianità su cui il fascismo italiano edificò un impero. Italianità che sotto nuove spoglie è tornata a risuonare con toni esasperati nel linguaggio odierno, ora in Berlusconi, ora in Grillo, pronti ad evocarla contro l'eventualità che il capitale estero acquisisca talune imprese nazionali fallite o come antidoto agli effetti sul tessuto nazionale della ferrea austerità tedesca.

Nel populismo la nozione di popolo sfocia, dunque, in quella di comunità organica. Una comunità la cui vita rifletterebbe un ordine natu­rale, invece di dipendere da un contratto esplicito, volontario e razionale tra i suoi membri. Come tale, lo stato "naturale" della comunità populista sarebbe quello d'armonia e unità, di coesione e omogeneità. Vicever­sa, e per lo stesso motivo, quella comunità vive il conflitto e le differenze, i dissensi e le stonature come manifestazioni di debolezza. Di più: come minacce alla sua stessa esistenza.

Poco importa se comunità organiche di tal fatta siano o no esistite in concreto nella storia e quando e in quali condizioni. Importa che tale concezione sia centrale nella visione populista del mondo e che in cer­te congiunture, segnate da brusche trasformazioni, questo immaginario susciti comprensione, simpatia, adesione in strati più o meno vasti della popolazione per i quali ha, a quanto pare, un che di familiare e rassicu­rante; per i quali, in breve, quella visione del mondo è la più adeguata a soddisfare i bisogni di appartenenza a una comunità, la loro domanda di identità.

Detto altrimenti: l'idea di comunità cara ai populisti non è una mera costruzione astratta, bensì la ricorrente riformulazione di un immaginario sociale antico, sempre latente nelle società moderne, occidentali e non, e sempre pronto ad essere richiamato in vita. A tale tipo di comunità alludeva José Antonio invocando una "democrazia sindacale e comunita­ria" e pensava Perón dando i natali a una "comunità organizzata", Salazar teorizzando la superiorità della comunità organica e Chávez elargendo grandi risorse per creare le organizzazioni comunitarie su cui fondare il suo ordine sociale. Tale idea di comunità sta peraltro alla base del "comu­nismo" realizzato a Cuba e fu il veicolo ideale attraverso il quale si strutturò in Messico l'ordine rivoluzionario dagli anni trenta del Novecento in poi. Non è forse questo l'implicito immaginario rievocato da Grillo allorché, chiudendo la campagna elettorale del 2013, ha celebrato la tra­sformazione del suo movimento in una comunità? Strumentalmente o meno, perfino Berlusconi ha alluso mille volte a tale idea di comunità discettando sulle comunità intermedie naturali, famiglia in primis, con il preciso scopo di inseguire il voto cattolico.

Nel populismo tale concezione non sfocia nella negazione del prin­cipio democratico del popolo sovrano, magari in nome di ordini teo­cratici, aristocratici o assolutistici. Tutt'altro. Nel discorso populista quell'immaginario si propone infarti come In "vero populismo solo in una società che recuperi la sua unità olistica il popolo tornerà depositario della sovranità. Il populismo, dunque, si svi­luppa sul terreno della democrazia, su cui accampa una sorta d'ipoteca ideale, anche se la sua visione del mondo lo pone sulla sponda opposta dell'idea liberale di democrazia e lo porta ad accompagnare il sostantivo democrazia con aggettivi che ritiene la elevi a un livello di maggiore ve­rità e compiutezza: democrazia organica nei populismi corporativi tra le due guerre, democrazia popolare nei regimi comunisti durante la guerra fredda e ancora oggi a Cuba, democrazia sindacale nell'Argentina pero­nista, democrazia rivoluzionaria in Messico, democrazia etnica in Bo­livia, democrazia partecipativa, com'è oggi pressoché ovunque in voga chiamarla, democrazia federalista di matrice leghista, e così via. Non a caso si può dire che il populismo si contenda da secoli il popolo con la democrazia liberale; da quando cioè è andato via via affermandosi il principio della sovranità popolare, dapprima nel mondo occidentale europeo e americano e poi anche altrove. Poiché il suo orizzonte ideale è la concezione organica della democrazia, la forza dirompente del populismo risiede nella sua capacità o pretesa di proporsi come veicolo capa­ce di rigenerarla quando essa si è distaccata oltre il limite del tollerabile dalla fonte che la legittima: il popolo. Il che non toglie, come si vedrà, che la "vera democrazia" che i populismi ritengono di incarnare tenda ad evolvere, se libera di sprigionare la propria logica in un contesto politico, culturale o istituzionale incapace di imporle limiti, in una tirannia tota­litaria in nome del "popolo".

Il populismo ambisce così a presentarsi come espressione di una de­mocrazia più pura. Di una democrazia, nelle parole di Berlin, che si espri­me nell'ambito delle relazioni sociali, dove promette di ristabilire ciò che i suoi adepti riterranno un ordine equo e giusto: in certi casi perché percepiranno che l'identità della comunità è stata salvata da ciò che ne minacciava l'integrità; in altri casi perché riterranno conseguita la "giu­stizia sociale"; in altri perché saranno certi che l'etica pubblica è stata finalmente ristabilita; in altri ancora perché crederanno che l'amore e la felicità hanno infine trionfato; e via di seguito. A tal fine, il populismo non ha preferenze riguardo alle procedure politiche: adotterà quelle che riterrà più adatte allo scopo, o più prosaicamente quelle che il contesto gli offre per imporsi. Non è affatto detto, per essere più chiari, che la de­mocrazia populista abbia bisogno per definirsi tale dell'esistenza di più partiti, del pluralismo informativo, della separazione tra i poteri dello Stato e di tutti gli accorgimenti elaborati dal costituzionalismo liberale per impedire la concentrazione del potere.

La democrazia è per il populismo quella in cui il popolo, il suo popo­lo, l'unico a possedere la "virtù", recupera la sovranità "usurpata" da élite politiche o sociali sottrattesi al suo controllo e trasformatesi perciò in oligarchie. Quando i rappresentanti del popolo iniziano a essere perce­piti come "loro"; cioè come gli esponenti di una élite che ha sequestrato la democrazia rappresentativa per riprodursi all'infinito al suo interno, allora molti cittadini diventano più sensibili a un discorso politico in cui il populismo è maestro che li definisce come "noi"; il popolo. Specie se quel "noi" evoca la comunità omogenea vagheggiata dalla visione po­pulista del mondo. Una tale crisi di legittimità della classe politica è un elemento chiave nel creare l'opportunità di affermazione del populismo, benché non sia l'unica possibile. La democrazia che il populismo invoca, infatti, promette di essere espressione "diretta" del popolo, priva delle intermediazioni della classe politica e delle istituzioni rappresentative, che esso suole indicare come trappole o inganni "formali": Libera da vincoli politici, la democrazia dei populisti potrà tornare ad essere ciò che essi pensano debba essere e sia: un fenomeno squisitamente sociale.

Da un lato, quindi, l'idea populista di democrazia parrebbe condi­videre con quella liberale la stessa trama istituzionale, gli stessi principi costituzionali e i medesimi meccanismi di legittimazione, cioè le libe­re elezioni. Almeno attualmente e nel mondo occidentale, poiché non

sempre né ovunque il populismo è venuto a patti con quelle istituzioni, quei principi, quei modi di legittimazione. Né è detto che lo farà in futuro altrove o che continuerà a farlo in Occidente. Ad ogni modo, a tali principi e a tali meccanismi i populismi tendono con sempre maggiore frequenza ad affidarsi da quando, dalla Seconda guerra mondiale in poi, essi si sono pressoché ovunque imposti in Occidente come chiavi della legittimazione politica.

Dall'altro lato, però, la natura del populismo sarebbe incomprensi­bile se non si considerasse che il suo immaginario comporta un'idea di democrazia assai differente, per non dire opposta, a quella rappresenta­tiva derivata dal costituzionalismo liberale. Della quale si può dire che il populismo sia la spina nel fianco, l' alter ego che ne contesta la legittimità e ne mette in rilievo limiti e debolezze. Il fatto è che l'immaginario po­pulista si richiama a una visione del mondo che precede e contrasta la tradizione illuminista di cui il costituzionalismo liberale e lo Stato di diritto sono frutti storici. È cioè agli antipodi della visione illuminista, in cui l'individuo liberato da vincoli d'ogni natura partecipa all'istitu­zione della comunità politica su una base contrattuale stabilita tra citta­dini uguali dinanzi alla legge. Il populismo infatti si basa, come s'è visto, sulla visione contraria, quella dell'uomo subordinato alla sua comunità d'appartenenza. L'idea di comunità naturale su cui poggia l'idea popu­lista di democrazia contrasta dunque con quella di società differenziata e plurale e contrappone il suo principio di omogeneità al cosmopolitismo della società aperta liberale.

Nel "nucleo" del populismo ritroviamo in sintesi un orizzonte ideale che non solo rigetta l'ethos della democrazia di tipo liberale, ma ne fa la più robusta corrente antiliberale dell'era democratica. Poco impor­ta, a tale proposito, che taluni leader o movimenti populisti esibiscano credenziali liberali, come nei casi dei rivoluzionari messicani, orgogliosi eredi di Benito Juàrez, dei presidenti Menem e Fujimori nell'Argentina e nel Perú degli anni novanta del Novecento, autori di politiche neolibe­rali, o del partito fondato nel 1994 da Berlusconi invocando nientemeno che la "rivoluzione liberale": in tutti questi casi, simili professioni ideali non hanno impedito che si imponessero logiche estranee alla democra­zia liberale; ora approdando in Messico a un rigido sistema corporativo, ora riproducendo nei casi di Argentina e Perù i fenomeni patrimoniali­sti e clientelari tipici dei populismi, ora attentando alla separazione dei poteri e introducendo velate forme di governo plebiscitario in nome del popolo nel caso italiano di Berlusconi.







Brano tratto dal saggio Il populismo, Carocci editori, Roma, 2013.




Loris Zanatta

Loris Zanatta insegna Storia dell’America latina all’Università di Bologna.





    Torna alla homepage copertina I Saggi La Narrativa La Poesia Vento Nuovo Nuovi Libri