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Sagarana LA BELLA AZIONE


Brano tratto dal saggio Il bello e il bene


Simone Weil


LA BELLA AZIONE



 

(…) Prendiamo in esame una bella azione. Nessuna è più universalmente ammirata di quella di Alessandro, che si trovò a patire la sete assieme a tut­to il suo esercito, mentre attraversavano un deserto, eppure versò sul suolo un po’ d’acqua recatagli in un elmo da un soldato.

Cosa pensiamo quando diciamo che quest’azione è bella? Infatti qualcuno potrebbe dire di non vederci nulla di bello: Alessandro avrebbe fatto meglio a bere; è meglio per un esercito avere un buon comandante piuttosto che uno che muore di sete; se proprio vole­va fare il generoso, avrebbe potuto offrire l’acqua a uno dei suoi soldati. Un difensore di Alessandro ri­sponderebbe che l’azione di spargere l’acqua fosse più utile all’esercito di quanto non avrebbe potuto esserlo l’acqua, perché capace di infondere coraggio. Bene – direbbe allora l’altro – Alessandro era un abile gene­rale, ma ciò non ha a che fare col bello. E in effetti l’utilità dell’azione di Alessandro è fuori questione. Si potrà provare anche che Alessandro fosse coraggioso, dal momento che aveva sete e che non ha bevuto. Il soldato che aveva trovato l’acqua senza berla non lo è stato di meno, perché era suo dovere di soldato por­tarla al capo e si approva la sua azione, eppure non la si ammira; ciascuno si dice: “io avrei fatto altrettanto”. Non si contempla l’atto del soldato.

Esaminiamo dunque l’azione di Alessandro; im­maginiamola presente, come se si svolgesse dinnanzi a noi. Un soldato porta dell’acqua ad Alessandro. Lo fa come un suo dovere, ma nessuno potrebbe rimpro­verargli di mancare al suo dovere se la desiderasse ar­dentemente. Eppure non lo fa, non ci pensa nemmeno che potrebbe berla. Alessandro, dopo un primo movi­mento puramente meccanico, resta immobile mentre il soldato si avvicina. Neanche l’esercito si precipita verso l’acqua, né, tantomeno, la guarda con bramosia; dirige i suoi sguardi verso i segni umani, ossia osserva il comandante. Durante tutto il tempo in cui il soldato si dirigeva verso di lui, Alessandro non ha fatto un solo gesto in direzione dell’acqua; quando il soldato gli si trova vicino prende infine l’elmo e resta un momento immobile. Anche l’esercito fissa gli occhi su Alessan­dro; l’universo si colma del silenzio e dell’attesa di tutti quegli uomini. Improvvisamente, nell’istante oppor­tuno, né troppo presto né troppo tardi, Alessandro sparge l’acqua e l’attesa ne è come liberata. Nessuno, men che meno Alessandro, avrebbe osato prevedere quella stupefacente azione; ma una volta compiuta, ognuno ha la sensazione che doveva essere così.

Poco importa che l’azione di Alessandro si sia svol­ta precisamente in questo modo: per noi essa è un mito. Prendendo ora in considerazione la descrizione dell’atto di Alessandro, si penserà inevitabilmente alla musica, alla danza e alla cerimonia; vi è la stessa attesa e la stessa liberazione per mezzo di un atto li­bero e necessario. Tutto ciò è già utile a chiarire il ter­mine di bella azione. Ma, per comprendere dove è la bellezza dell’azione, vediamo con quali cambiamenti essa si dissolverebbe. Se Alessandro non avesse avuto sete, o fosse stato a conoscenza dell’avvelenamento

 

dell’acqua, l’atto non sarebbe più bello, così come se si fosse trattato di infondere coraggio ai suoi soldati; così anche se una legge, sia pure senza sanzione, in­terdicesse al capo di bere quando l’esercito soffre la sete. Così il bello, nell’atto come nell’opera d’arte, ha fine solamente in sé.

Ma tutto ciò non spiega ancora e qualcuno potreb­be nuovamente domandare: “Che cosa ciò ha di bel­lo?”. Va tuttavia sottolineato come nessuno lo chieda. Così nel caso in cui un soldato, nel momento in cui Alessandro versava l’acqua, avesse esclamato: “Dà a noi quell’acqua, se non la vuoi tu”, il suo atto sarebbe sembrato ridicolo. Ancor più l’atto non sarebbe stato bello se un soldato avesse comunicato quel pensiero a un suo vicino o se lo fosse tenuto senza dirlo a nes­suno. La cosa può sorprendere, perché Alessandro non è responsabile dei pensieri dei suoi uomini e questi pensieri non modificano in niente l’atto di Alessan­dro, in quanto compiuto da Alessandro. La bellezza dell’atto non è, quindi, solo in Alessandro. E in real­tà anche il soldato che porta l’acqua e l’esercito che osserva rinunciano a quell’acqua. Ci rinunciano per Alessandro; Alessandro rinuncia per loro: ogni uomo è come le pietre del tempio, al contempo fine. È suffi­ciente che uno solo di loro aneli all’acqua e l’azione di gettarla non sarà più possibile. Che cosa sarà cambia­to, tuttavia? Nulla, se non l’accordo tra gli uomini. La bellezza dell’azione di Alessandro è, dunque, la stessa di quella di una cerimonia – si può dire che l’azione di Alessandro è cerimonia. È cerimonia. Ma la cerimonia non è tale se non in quanto fissa e ripetuta sempre in maniera identica a se stessa; l’azione è invece invenzione. Un’azione, dunque, non è mai bella. Mai, quando agisco, mi contemplo nell’agire, ma contemplo Alessandro: la sua azione mi appare come immutabile e fuori dal tempo; fuori dall’esistenza, perfetta, fine a se stessa e capace di per sé di rispondere a ogni domanda. L’azione è di­venuta Sfinge. Eppure l’azione è l’esatto opposto della Sfinge: sempre presente, sempre cangiante, sempre si rifà ad altra cosa e interroga l’oggetto. Ammiro l’azio­ne di Alessandro, allora, non in quanto azione, ma in quanto spettacolo. In realtà non mi immedesimo in Alessandro, lo osservo dallo stesso piano dei soldati. Non penso ad Alessandro come spirito, ma come cor­po: corpo umano, vale a dire materia che ha ricevuto la forma dello spirito umano, proprio come il tempio.

Dunque, in quanto contemplata e raccontata, non in quanto azione, la bella azione è cerimonia. Poco importa della sua esistenza. Che cos’è un’azione che non esiste? Si ama celebrare e interpretare la bella azione; di ciò è esempio il teatro, dal momento che in origine celebrava le azioni degli dei e degli eroi. Ma se la bella azione è spettacolo e non azione, occorre ancora sapere quali siano i suoi rapporti con l’azione e, se è mito, di quale verità sia il mito.

Contempliamo di nuovo Alessandro, questa volta solo, nel deserto, senza esercito e senza uniforme. Bisogna osservare come, nel mito, Alessandro, dopo il primo movimento, si ricomponga, assieme ai suoi soldati; questi perché si trovavano dinnanzi ad Ales­sandro – in questo secondo movimento c’entra sia un po’ di timore sia un po’ di rispetto. In Alessandro nes­sun timore, nessun rispetto, tranne ciò che il senso comune definisce “il rispetto umano”. La costrizione che egli esercita su se stesso non è per nulla politica; ed è per questo che egli è al centro dell’azione, benché il ruolo dei soldati non sia meno bello. Alessandro, tuttavia, è sostenuto dall’orgoglio del comandante che deve possedere più virtù dei suoi soldati, e dagli sguardi dei suoi subordinati, capaci di ispirare terro­re molto più dello sguardo dei superiori, perché è il nudo giudizio, privo di potenza.

A nessuno può sfuggire che sia questo momento di immobilità, di cerimonia, il momento decisivo dell’azione. La vera azione non è il gesto di versare, meccanico e privo di pensiero, come dimostrato dal­la sua stessa eleganza. L’azione è quel rifiuto di ogni movimento animale, l’immobilità scultorea e la me­ditazione senza parole, attraverso il solo governo dei muscoli.

Adesso Alessandro è solo e non c’è nessun sguardo su di lui a sostenerlo. È solo e ha sete, sa che altri uo­mini in quel deserto hanno sete, ma non li vede. In­travede dell’acqua, si precipita su di essa e la beve. È un movimento privo di coscienza, fatto dormendo. È esattamente questo il peccato. È il sonno il peccato e il peccatore ne prende coscienza solo nel momento in cui si riprende – questo esprime la dottrina cattolica quando dice che il pentimento salva. No, nella realtà Alessandro non beve, altrimenti non sarebbe Alessan­dro. Alessandro vede l’acqua e compie un movimento in direzione, poi si blocca e riflette. La riflessione non è incertezza, ma dubbio, dubbio sul valore del primo movimento. Se avesse bevuto quando era di fronte al suo esercito, la sua felicità l’avrebbe separato dai suoi soldati e i soldati, da parte loro, avrebbero provato in­vidia per Alessandro: l’unità si sarebbe infranta, e non ci sarebbe stata bellezza. Sicché l’atto di spargere l’ac­qua appare come un brindare alla società.

Adesso, però, Alessandro è solo, il suo esercito non è che un mito – il mito dell’umanità in lui. Egli deve scegliere tra essere animale ed essere uomo. È poca cosa avere sete, ma è molto rifiutare di soddisfare la propria sete per non separarsi dagli uomini. “Poten­te è la sofferenza – afferma Violaine – se è volontaria quanto il peccato”1.

Poco fa abbiamo evidenziato come basti che un soldato desideri ardentemente l’acqua perché l’azio­ne di Alessandro non sia più bella. Era apparsa una cosa sorprendente, perché la buona volontà di Ales­sandro non è cambiata, ma anche questo è mito. In­fatti, tutto avviene nell’anima di Alessandro, per lui si tratta di porsi in quanto uomo. Gli altri esseri umani sono oggetto per lui e l’oggetto ci restituisce quanto gli doniamo. (…)

 
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L'EPISODIO DI ALESSANDRO DALLE VITE PARALLELE DI PLUTARCO
 

In quel tempo dunque [Alessandro] moveva contro Dario per attaccarlo di nuovo; ma non appena seppe che era stato catturato da Besso, rimandò a casa i Tessali, assegnando loro, oltre la paga, un donativo di duemila talenti. Durante l'inseguimento, che fu lungo e difficile (in undici giorni percorse a cavallo tremila e trecento stadi), la maggior parte dei soldati cedette, soprattutto per la mancanza d'acqua. Fu in quell'occasione che si incrociarono con lui alcuni Macedoni che portavano a dorso di mulo, in otri, dell'acqua, ed essi: “Ai nostri figli – dissero –, ma se tu vivi ne avremo degli altri, nel caso perdiamo questi”. A queste parole, prese tra le sue mani l'elmo, ma guardandosi attorno vide tutti i suoi cava­lieri che piegavano il capo a guardare sull'acqua; allo­ra non bevve, ridiede l'elmo e, lodati i donatori, disse: “Se bevo io solo, questi si perderanno d'animo”. Perciò i cavalieri, vista la sua temperanza e la sua grandezza d'animo, gridarono che li guidasse innanzi con fiducia, e sferzarono i cavalli: fino a quando avevano un tale re non sentivano la stanchezza, non avevano sete, in una parola non si consideravano neppure mortali.*1

* Plutarco, Vite, a cura di D. Magnino, vol. IV, 42, Utet, Tori­no 1996, pp. 411-413.

 
 
Nota:

1 - Paul Claudel, L’Annonce faite à Marie, atto III, scena 3 (L’An­nuncio a Maria, trad. it. di F. Casnati, BUR, Milano 20053).27

 







Brano tratto dal saggio Il bello e il bene, Mimesis edizioni, Sesto San Giovanni, 2013. A cura di Roberto Revello.




Simone Weil

Simone Weil (1909 − 1943), filosofa, mistica, attivista e scrittrice francese.





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