Torna alla homepage

Sagarana LILY


Brano tratto dal saggio autobiografico L’ultima vacanza – A memoir


Gil Scott-Heron


LILY



(…) Alla nascita mia nonna era Lily Hamilton, di Russellville, Alabama. Era un nome appropriato per una donna delicata e dalla pelle chiara, con capelli nero corvino che quasi toccavano il pavimento quando li scioglieva per pettinarli. Sfiorava a malapena il metro e cinquantasette e non aveva mai pesato più di cinquanta chili. Era una lavandaia. Il primo lavoro lo aveva svolto per la ferrovia: lavava e preparava le tovaglie e i coperti per chi cenava nel vagone ristorante e le divise dei facchini e dei controllori che lavoravano sulla ferrovia a bordo dei due treni passeggeri che facevano la spola tra Miami e Chicago. Per facilitarsi il compito si era trasferita a Jackson, in Tennessee, a circa metà strada tra le due città. Una volta arrivato a Jackson, ogni estate viaggiavo avanti e dietro da Chicago, o sul Seminole o sul City Of Miami, per andare a trovare mia madre.

Quando andai a vivere con Lily nel 1950, lei “prendeva” bucato a do­micilio per vivere. Lavorava nella casa di Cumberland Street per singoli individui, clienti privati che portavano a casa i panni sporchi e venivano a riprenderseli qualche giorno dopo. Non so come aveva cominciato a fare quel lavoro o come si era procurata i clienti, ma tra le persone a cui forniva quel servizio c’erano il sindaco (anche se aveva cominciato a portare i suoi vestiti prima di fare il sindaco), il capo della polizia (anche se venivano molte più volte la moglie e il figlio che lui), e il proprietario degli enormi grandi magazzini in centro.

Ascoltando quello che diceva loro, scoprivo le sue impressioni su a un bel po’ di cose, e sul rispetto che nutrivano nei suoi confronti dal modo in cui la ascoltavano. La sentivo rivolgersi al capo della polizia parlando del “problema”, di ciò che non andava, di ciò che infastidiva le persone, di ciò che era necessario fare. Lui annuiva con il suo testone pelato e con un mezzo brontolio che pronunciava strascicandolo, “Oh, Lily, lo sai che ’ste cose richiedono tempo”.

Diceva sempre quello che pensava, e le ci voleva la giusta quantità di tempo per finire le sue considerazioni e raccogliere le loro camicie e quant’altro apparteneva loro. Ma diceva quello che pensava ovunque si trovasse. Come la sua valutazione dell’area d’attesa riservata ai Neri a Corinth, in Mississippi, una stanza sul retro sudicia e buia come una ca­verna in cui dovevamo aspettare per cambiare autobus quando andavamo a trovare la famiglia a Russellville, in Alabama. Lei si assicurava sempre che i bianchi addetti alla biglietteria la ascoltassero esprimere una lista di lamentele. Sembrava rendere nervosi gli altri Neri che si trovavano in quel posto. E io avevo l’impressione che a lei non importasse. Non c’era­no razzisti buoni e non c’erano posti in cui avresti preferito essere discri­minato. Non c’era alcun miglior stato razzista; ma potevano esserci degli Stati in cui il razzismo era peggiore – dalle mie brevi esperienze, quel disonore spettava al Mississippi. Qualunque fosse la ragione, mi sentivo male in Mississippi. Mi sentivo Nero e maltrattato. Forse era a causa di quanto avevo sentito dire sul Mississippi, sugli omicidi che vi avveniva­no, su Mack Parker ed Emmett Till e Medgar Evers, tutti ammazzati in Mississippi mentre io vivevo a Jackson. Forse erano le dimensioni dei cartelli con su scritto DI COLORE alla stazione degli autobus a Corinth. Forse era il tanfo assoluto del bagno di quella stazione degli autobus, mai eguagliato da alcuna mia esperienza, prima o dopo quel viaggio.

Mia madre e mio zio erano soliti dirmi che odiavano andare per nego­zi a Jackson con Lily, perché li metteva sempre in imbarazzo. I cassieri bianchi dei negozi della parte alta della città aspettavano sempre prima i bianchi, non chiedevano mai “chi è il prossimo?”. Se entrava qualche bianco andavano direttamente al bancone come se i Neri fossero invisibi­li. Ma non con mia nonna. Lei non era in sintonia con certi dati di fatto. C’erano dei cartelli che indicavano alcune delle regole, come quelli nella stazione degli autobus del Mississippi con la sua sala d’attesa per gente “DI COLORE”. Se non c’era un cartello, la nonna non la considerava una regola valida per lei. E i bianchi avevano i loro limiti su quanto oltre potevano o volevano spingere la stronzata del “prima noi”. Così in fila al registratore di cassa mia nonna diceva ad alta voce: “Io ero qui prima di loro” e allungava le banconote. Non era la sua statura che teneva le persone a distanza; in qualche modo il suo atteggiamento e portamento le facevano ottenere rispetto.

Sentivo i sussurri dei bianchi nei negozi della parte alta di Jackson quando mia nonna era davanti ai loro banconi e diceva, in maniera abba­stanza caratteristica, che voleva comprare qualcosa a credito. Di norma la gente di colore non poteva neanche chiedere credito ma nonna non segui­va regole del genere. Se parlava con un nuovo commesso, c’era di solito una pausa che rimaneva sospesa in aria tra di noi come un condor che non aveva bisogno di scuotere le ali e agitare l’aria. I commessi la guardavano – naturalmente lei non aveva paura di guardarli negli occhi – e sentivano la gola stringersi. Si scusavano e andavano a chiamare i loro capi per farle dire di no. Ma il capo approvava il credito, e i commessi ritornavano con sorrisi stupidi che gli tagliavano il viso mentre annotavano qualsiasi cosa lei volesse comprare. Potevo immaginarmi i capi che dicevano “è Lily, la moglie di Bob Scott”.

Sul portico anteriore di casa si tenevano riunioni abituali quando fa­ceva caldo. Poteva accogliere qualsiasi numero di persone del quartiere, ma c’erano sempre la signora Cox, la moglie del bidello della scuola che abitava dall’altra parte della strada, e qualcuno della famiglia Cole della casa accanto, così come il cugino Lessie o lo zio Robert. E non importa da che punto era partita la conversazione, si finiva sempre per parlare di razza. Di ciò che accadeva qua e là. Di ciò che avevano let­to sui giornali. Di quale informazione era trapelata dagli uomini e le donne che lavoravano sui treni e sapevano cosa succedeva da Miami a Chicago. Ricordo di aver sentito parlare di Emmett Till e Mack Parker sul portico davanti casa. Un dodicenne e un camionista, entrambi ammazzati dai bianchi. Mack Parker fu linciato ed Emmett Till ammaz­zato di botte. Inevitabilmente qualcuno proponeva possibili soluzioni, qualcosa che potesse impedire alla gente di venire ammazzata a quel modo. La conclusione più frequente era che c’era bisogno di un qual­che intervento da parte di una certa organizzazione, forse la NAACP. In quelle occasioni la nonna non era quasi mai troppo loquace. Parlava quando aveva qualcosa da dire e rideva per molte delle cose che diceva l’eccitabile signora Cox.

Ciò che aveva condotto i Neri a Jackson era la loro fede nella chiesa battista. Noi andavamo alla chiesa Berean Baptist ogni domenica. A mia nonna molta gente non piaceva. Non era una persona che avrebbe riso tanto per qualcosa con degli estranei. Era cordiale con le persone della chiesa e partecipava a tutte le loro varie cose-da-fare. Quando viveva a Russellville con lo zio Counsel o quando i suoi figli tornavano a casa per un po’ di giorni, era visibilmente felice. Ma non c’era un motivo per cui a Lily Scott non piaceva la gente. Non era piena di sé, o altezzosa o snob. Non era di vedute ristrette, naif, nevrotica, impicciona o negativa. Non era combattiva, lamentosa, compulsiva o compiacente. Potevi con­tare su di lei. Era prevedibile, paziente, perspicace, tenace, orgogliosa, riservata e pratica. Aveva un rispetto salutare per il duro lavoro e non aveva paura di dedicarvi il tempo necessario. Era una sopravvissuta sensata, sensibile, stabile, seria, solida e decisa. Ed era una donna reli­giosa e timorata di Dio con alti ideali, principi forti e, soprattutto, fede nel potere dell’istruzione. Anche se lei non aveva una grande cultura scolastica ufficiale, aveva preteso che i suoi figli avessero un’istruzione. E aveva smantellato, stretto la cinghia, strapazzato, schiacciato, stro­finato, scorticato, strascicato i piedi, sgobbato e serbato fino a che, in qualche modo, tutti e quattro i suoi figli non si erano laureati con lode.







Brano tratto dal saggio autobiografico L’ultima vacanza – A memoir, LiberAria editrice, Bari, 2013. Traduzione di Daniela Liucci.




Gil Scott-Heron

Gil Scott-Heron (1949 -2011) riconosciuto da innumerevoli artisti come il “nonno” del rap e dell’hip hop, si definiva “bluesologist” e nell’arco di 30 anni ha contribuito a fondere in maniera originale la musica con la poesia, attraverso la sua interpretazione di performance poetry accompagnate da jazz. In una recensione del suo ultimo CD “I am new here” uscito nel 2010, il Fairfax New Zealand che sembra quasi presagire la sua morte prematura, descrive così il suo contributo: Gil Scott-Heron ha lanciato poesie come canzoni, ha registrato canzoni basate su poesie e testi scritti anni prima, ha scritto romanzi ed è diventato un eroe per molti attraverso la sua musica il suo attivismo e la sua rabbia. C’è sempre la rabbia – una rabbia spesso appassionata e bella. Una rabbia spesso goffa. Una rabbia piena di anima. E spesso è una rabbia molto triste. Ma la rabbia è l’umore dilagante , il tema e il sentimento all’interno della sua opera - e attorno ad essa, che volteggia, la trafigge e che ogni tanto l’appesantisce, spesso invece la solleva e riesce a piazzartela proprio in faccia. E nonostante tutte le prediche e gli avvertimenti della sua opera, gli ultimo due decenni della vita di Gil Scott Heron lo hanno visto soccombere alle pressioni e ai demoni contro i quail aveva avvisato gli altri.





    Torna alla homepage copertina I Saggi La Narrativa La Poesia Vento Nuovo Nuovi Libri