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Sagarana PANE E COLPA


Baret Magarian


PANE E COLPA



Quando lei guardò fuori dalla vetrina del caffè mentre il pezzo di Astrud Gilberto si avviava alla conclusione, pareva stesse per piovere. Non lo avevano previsto, pensò continuando a tirarsi su gli occhiali col dito, ma quelli riprendevano a scivolarle lungo il naso. Stavano fermi un po’, per poi cedere di nuovo alla gravità. A quel punto, una lama di luce colpì i contorni nebbiosi e velati e qualcosa di esotico le s’insinuò nelle narici, un aroma ormai quasi dimenticato. Con quella rassicurazione in tasca, o sotto la pelle, nelle narici o fluttuante intorno al cervello, si fiondò in strada, eseguendo felice la camminata che aveva provato come fosse un samba. Era pronta per la sua danza col mondo, era splendente e radiosa, come una moneta nuova di zecca. Gli alberi le facevano strada, i passanti l’ammiravano da vicino e da lontano. Sorridevano alla sua disinvoltura, provavano a indovinarne l’età, se avesse qualche voglia interessante sulla pelle, se nascondesse i segni del parto o del lutto, se avesse un marito o un fidanzato, se fosse un’amante focosa o senza passione.

 

    Ora è il mio momento, pensò, ho aspettato abbastanza, adesso son pronta. Lavata, pulita, profumata, ho i capelli immacolati, la pelle porosa e gli occhi luminescenti. Vediamo se mi prendete!

    All’angolo della strada la vita le balzò addosso come un gatto appena liberato, con gli artigli scoperti. I ragazzini giocavano, le auto suonavano il clacson, i bancari compilavano piani di investimento, mutui e prestiti, le madri si preoccupavano, i padri fornicavano, i cittadini sognavano la campagna, gli artisti mettevano da parte gli scontrini, i preti meditavano sull’epistola di San Paolo ai Romani.

    Per me la vita ha senso solo se brucio la candela da ambo i lati, non sopporto la piattezza, le cose stantie, non sopporto l’area grigia. Ho bisogno di lustrini, uvetta, spezie del Marocco, vini francesi. Cosa direbbero se mi vedessero precipitare senza controllo, aghi di flebo che mi penzolano addosso, se fossi come l’astronauta di 2001 Odissea nello spazio mentre entra nello stargate, con gli occhi perpetuamente vitrei? Ho fatto colazione e son morta di fame, ho servito a tavola, ho insegnato a bambini, ho posato nuda, ho cantato ai provini, fatto soufflé, risposto al telefono, guidato turisti. Quando mai son stata me stessa? E cosa ci vuole per farmi perdere? Forse se mi capitasse un incidente veramente brutto, se fossi pugnalata da uno sconosciuto, se bevessi una bottiglia di brandy liscio...

     Reine de joie par Victor Joze... chez tous les libraires. Quel pezzo in francese attirò la sua attenzione. Si fermò di colpo davanti a una vetrina dietro a cui c’era un altro pannello di vetro, incorniciato da un telaio di legno, e sotto c’era un poster. Aveva colori meravigliosi, un tramonto bronzeo e arancio che immaginò uscito dalla Tunisia anche se non c’era mai stata, le scritte marroni ingiallite secondo il vecchio stile. Grazia e squallore si mescolavano mentre la donna un po’ emaciata con un braccio scheletrico stampava un bacio a suo modo tenero sul naso di un grassone vecchio, calvo, e mezzo addormentato con la pancia gonfia. Aveva l’aria ingenua, lei, malgrado tutto, con quel fiocco marrone intorno al collo e l’abito rosso. Fu quello, forse, che l’attirò al poster, quella ingenuità, o forse quella singola ciocca di capelli sulla fronte della donna: era bellissima, speciale.

    Aveva mai guardato prima un poster o un dipinto? pensò. Aveva mai fatto veramente caso al suo contenuto? E chi era quell’altro tipo sulla sinistra della donna, un generale di brigata inglese, un burlone, un moralista, con quei baffi rosso-arancio lievemente ridicoli?

 
 

Più tardi quella sera, nel suo appartamento all’esterno del quale salivano i rampicanti e all’interno del quale si spandevano gli odori di gatto, stava in cucina a mescolare spaghetti e una salsa che aveva preparato senza cura. Nella mano appariva e scompariva un calice di vino rosso. Nella bocca appariva e scompariva una sigaretta autoprodotta. Aveva uno sguardo assente negli occhi. Pensava a quella stampa di Toulouse-Lautrec e a come sarebbe stata bene accanto alla libreria che non era per nulla piena di libri, ma di riviste. Riviste di computer, di arredamento, di motociclismo, di cartoni animati, di grafica, di giardinaggio, di arte topiaria, di biancheria intima, di pacchetti vacanze, di alpinismo. Aveva usato i videoprocessori, montato uno scaffale e smembrato un tavolo, ridipinto la camera della sorella, guidato un’Harley Davidson in California, tentato di progettare una pagina web, usato una volta, a una festa, una tavola per le sedute spiritiche, piantato un melo, ammirato i giardini giapponesi, indossato un negligé nero per un vecchio fidanzato, evitato i pacchetti vacanze e odiato l’idea di fare alpinismo, soffrendo di vertigini.

In sogno, quella notte, entrò nel poster di Toulouse-Lautrec, o piuttosto, la sua essenza si trasformò in uno sfondo di cui entrò a far parte.

     Si trovava in un caffè che nel sogno sapeva trovarsi a Parigi. La clientela era elegante, portava abiti di velluto, mantelline e abiti da sera, era vestita proprio come le tre figure nel dipinto. Riconobbe il ciccione grasso e il brigadiere rosso, ma non riusciva a vedere la signora e nel sogno provava la vaga sensazione che se non la trovava era perché quella signora era lei. Dalla parte opposta del caffè, la cui forma sembrava fluttuare a intermittenza così che a momenti sembrava vasto e in altri piccolo, notò una lunga fila di donne vistose – cortigiane, le parve di capire. Le osservava da uno sgabello al bar mentre sorseggiava un bicchiere di assenzio. Scrutando le persone della calca, notò che alcune di esse avevano assunto con chiarezza l’aspetto di figure di quadri famosi, l’autoritratto di Van Gogh, il teschio urlante di Munch. Rivolgendo l’attenzione di nuovo al bar si rese conto che il vecchio ciccione si aspettava un bacio da lei, proprio lo stesso tipo di bacio che aveva visto stampare sul naso. Ma non riusciva a farlo, e sentiva crescere l’irritazione di lui. Un uomo alto col cappello a cilindro cominciò a colpirla sulle mani con un paio di guanti neri da dandy finché non le rimase che cedere. Mentre lo baciava, tutto cambiò. Percepì i rumori dell’oceano. Un mare azzurro che si alzava e pulsava di vita virile.

    Quando la mattina seguente si risvegliò intontita aveva dimenticato il sogno, che le tornò in mente sorseggiando una tazza di tè leggero al bergamotto. Sulla strada verso l’ambulatorio dentistico dove lavorava come assistente si domandò se sarebbe stata capace di rubare il poster. Avrebbe potuto permettersi di comprarlo, non era quello il punto; stava cominciando a pensare che rubarlo avrebbe rappresentato una sorta di vittoria sulla vita, un atto di sfida necessaria.

 
 

Quella sera stava leggendo, e gli occhiali le scivolavano lentamente sul naso.

Maya racconta questa storia:
 

Un uomo sta andando al forno per comprare del pane. Nel tragitto, s’imbatte in uno sfilatino fresco, ancora nella sua confezione, caduto sulla strada. Per un istante esita. Deve raccogliere il pane per risparmiarsi la visita al forno? O deve continuare a perseguire il suo proposito originale? Alla fine decide di raccogliere lo sfilatino in mezzo alla strada. Mentre si china per raccoglierlo viene investito da un autobus. Per puro miracolo la pagnotta rimane intatta. Mentre arriva l’ambulanza si fa avanti un tizio che, vedendo lo sfilatino, lo prende e se lo porta a casa per mangiarlo.

 

Un po’ di tempo dopo ci stava ancora pensando.

Telefonò a un amico di nome Gilbert, uno estremamente miope che teneva un serpente come animale domestico.

Gli lesse la storia e chiese, ‘Secondo te, quale potrebbe essere il significato?’

Gilbert rispose che doveva pensarci.

‘Be’, io penso questo: potrebbe voler dire che in un certo senso quell’uomo stava rubando lo sfilatino che aveva trovato per strada o piuttosto che non avrebbe dovuto prendere ciò che non gli apparteneva, o ciò per cui non aveva pagato... e nel momento in cui lo ha fatto, per punizione è stato investito. Tutto lì. Ma poi arriva un altro, ‘ruba’ la stessa pagnotta e la fa franca, il che suggerirebbe la casualità e l’imprecisione cosmica di delitto e castigo... si potrebbe pure obiettare, in questo quadro interpretativo, che la punizione ricevuta dal primo individuo sia stata eccessivamente severa. O forse che il secondo soggetto prende la pagnotta impunito perché, a differenza del primo uomo, non ha mai avuto l’intenzione di andare dal fornaio, il che mi porta a una seconda interpretazione possibile: il primo uomo ha tradito il suo impulso originario e, nel farlo, si è creato un nuovo problema. Lungi dall’essere punito, egli subisce semplicemente le conseguenze non essere stato fedele a se stesso. Il secondo uomo è fedele a se stesso, non esita e non si fa sviare. Ma ciò significa che commettere quella che potrebbe essere considerata un’azione priva di scrupoli, o piuttosto priva di compassione umana (dopotutto il primo uomo era stato appena messo sotto da un autobus) è lecito purché non ci si ponga domande a riguardo o purché si agisca in conformità con l’istinto originale che stava alla base di quell’azione? Che ne pensi tu, Gilbert?’

Gilbert disse che doveva pensarci.

Dopo un calice di vino rosso lei concluse che avrebbe dovuto rubare il poster.

 

Rimase sveglia fino alle 4 del mattino, a leggere e bere vino. Era così ubriaca che se qualcuno l’avesse punta con un ago da cucire non avrebbe sentito nulla. I suoi arti erano rilassati e inerti e suoi occhi vitrei e iniettati di sangue. Frugò in giro alla ricerca di una bottiglia vuota di Glenmorangie, una bottiglia piuttosto pesante che aveva sempre conservato per ragioni sentimentali. La ficcò dentro il cappotto e, ubriaca, si diresse verso il negozio. All’angolo un uomo si mosse furtivo verso di lei. La guardò con interesse, pensando che fosse una passeggiatrice.

   Si fermò a pochi metri di distanza dal negozio e si guardò intorno. La strada era deserta e silenziosa. La luna bruciava feroce nel cielo color inchiostro. Qualche nuvola s’affrettava oltre il suo brillante disco bianco. Piano piano tirò fuori la bottiglia dal cappotto e strisciò verso il negozio. Stringendo forte la boccia guardò il manifesto, ammirandolo più che mai, la sua eleganza, la sua finezza. Esaminò il pannello di vetro, giudicandolo piuttosto fragile, non avrebbe potuto resistere alla bottiglia del Glenmorangie. L’allarme che si sarebbe attivato sarebbe probabilmente stato ignorato come un malfunzionamento da chi si fosse svegliato al suo vile piagnucolio. Lei si raddrizzò , prese la mira e scagliò la bottiglia, che divenne un missile. Il vetro si frantumò con un’intensità sconvolgente. Un po’ stordita, si arrampicò verso la vetrina, evitando le schegge di vetro che si erano riversate sul marciapiede. Solo allora si accorse che non suonava alcun allarme. Un secondo dopo, un cane cominciò ad abbaiare follemente. Lei lo maledì sottovoce e afferrò il poster, che era abbastanza piccolo da stare sotto il suo cappotto aperto. Si era aspettata persone assonnate che uscivano in massa, si era aspettata urla di sirene e auto della polizia, si era aspettava che qualche cittadino, mosso da senso civico, l’arrestasse. Ma niente, nessuno. Tornò all’appartamento in una manciata di minuti e per la sua strada non incontrò nessuno.

Era fatta.
 

La mattina dopo, di nuovo sobria, si aspettò che il campanello suonasse, ma non fu così. Si aspettò che qualcuno la fermasse mentre andava al lavoro, ma nessuno lo fece. Il mondo non aveva quasi battuto ciglio.

Quando rincasò dall’ambulatorio tirò un sospiro di sollievo e fissò il poster. Non riusciva a credere di averlo fatto.

 

Dopo una settimana si fece coraggio e passò davanti al negozio. C’era un nuovo pannello di vetro, più robusto. Al posto del Toulouse-Lautrec, adesso c’era un vigoroso paesaggio marino di Emile Goüter.

 

Ma ora, anziché darle piacere, ogni volta che guardava il manifesto, sentiva i morsi del senso di colpa. Il sollievo, o il benessere, o l’energia che aveva sperato non erano venuti e pensò di confessare il suo reato al proprietario del negozio, ma poi optò per non farlo. Alla fine incartò il poster, lo impacchettò, e lo rispedì al negozio con tanto di scuse anonime.

 

Stava leggendo un articolo sui giardini giapponesi, la moussaka vegetale cuoceva in forno, sul tavolino c’era il suo calice di vino rosso. Era tornata alla normalità, aveva praticamente dimenticato tutto. Poi il telefono squillò. Era Gilbert.

‘Ripensavo a quella storia, ricordi... ?’
Dopo un momento di perplessità si ricordò.

‘Com’era? Il primo tizio vuole uno sfilatino, ne vede uno per strada, viene messo sotto; il secondo tizio vede lo sfilatino, lo prende e lo mangia, giusto?’

‘Sì, mi pare di sì.’

‘Be’, mi sono chiesto prima di tutto come ci fosse arrivato quello sfilatino in mezzo alla strada.’

‘La storia non lo dice.’

‘Ma è ovvio, qualcuno deve avere rubato quel pane e poi, dopo un ripensamento, lo ha abbandonato.’

‘Ma perché proprio in mezzo alla strada? Perché non in un cestino?’

‘Forse pensava che fosse uno spreco. Voleva dare a qualcuno, forse a un vagabondo, o qualcuno in fila per il pane – se mi consenti la battuta – a uno molto povero, insomma, l’opportunità di considerarlo proprio senza sapere che fosse rubato.’

 ‘È un’ipotesi molto lambiccata,’ insisté lei.

 ‘Ma certo. E allora, che spiegazione dai al fatto che la pagnotta era finita là?’

 ‘Qualcuno l’ha fatta cadere per sbaglio.’
 'Allora perché non l’ha raccolta?’
 ‘Perché non avrà voluto del pane sporco.’
 ‘Ma era ancora nella sua confezione.’
 ‘Ok, hai vinto, Gilbert.’

 ‘O forse il secondo uomo che arriva e la raccoglie è lo stesso che l’aveva fatta cadere in precedenza, prima dell’inizio della storia. Ed era semplicemnte tornato a riprendersi quello che era legittimamante suo?’

Lei disse che ci avrebbe pensato su.
 
 

Alla fine tornò al negozio e fu molto sollevata di vedere il poster incorniciato nella sua posizione originale all’interno della vetrina. Senza un attimo di esitazione decise di acquistarlo insistendo perfino di pagarlo un po’ di più del dovuto, per lo stupore del commesso, che rispose alla sua generosità mettendo particolare attenzione alla confezione, decorandolo con un unico nastro marrone arricciato. Una volta diventata la legittima proprietaria, stringendolo con orgoglio, la nebbia nel cervello finalmente sollevata, la sua vita assunse una nuova chiarezza. Camminando sentì i primi accenni di primavera. Si fermò in mezzo a una strada tranquilla, dove non passava quasi nessuna macchina. Guardandosi intorno furtiva, come se fosse sul punto di commettere un altro reato, posò il poster con cura in mezzo alla strada. Poi si diresse verso casa.







Traduzione di Andrea Sirotti.





Baret Magarian è anglo-armeno e vive a Firenze. Ha scritto articoli e recensioni per The Times, The Guardian, The Independent, The Observer, The New Statesman, e The Times Literary Supplement. Ha pubblicato racconti in due antologie di nuovi scrittori: Panurge e Darker Times, e poesie sulla rivista fiorentina Collettivo R. Un altro racconto, Watery Gowns, sarà pubblicato in italiano dalla rivista online El Ghibli. Attualmente insegna scrittura creativa alle università americane Gonzaga e Syracuse a Firenze. Ha registrato un CD di sue canzoni originali. Il suo indirizzo è baretbmagarian@hotmail.com





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