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Sagarana RUBARE FORMAGGIO


Brano tratto dal romanzo I piccoli Maestri


Luigi Meneghello


RUBARE FORMAGGIO



 

(…) Volevamo agire, e avendo visto la povertà e la penuria in cui viveva la popolazione delle valli, una notte andammo in otto o dieci con un camion a rubare formaggio in una grossa latteria, per darlo al popolo. In queste spedizioni in luoghi che non si conoscono, ti guida un altro che li conosce, e tu ti lasci guidare, e a un certo momento perdi il filo, non sai più quanto sono lontani tra loro i luoghi dove vai, dove aspetti, dove devi ritornare. Tutto diventa una specie di cabala, una sciarada di pezzi staccati. Credo che fossero così le situazioni in cui si cacciava Bakunin: lui probabilmente si divertiva.
Entrammo in quattro per un finestrino, spinti da sotto, capottando nello spazio buio, odoroso di latte. Io ero il secondo, e quando arrivai giù trovai a tastoni i piedi e i polpacci del primo; con la pila da latrocini vidi che si era rovesciato dentro a un calderone di panna e la stava mangiando. Degli altri due in arrivo, uno si calò anche lui spontaneamente nel calderone della panna allo stesso modo del primo; l’altro, studente di farmacia, non si calò. L’ambiente era spazioso, pulito, ordinato. Inducemmo i nostri compagni a decapovolgersi ed esplorammo il regno lattescente. Un bel pavimento di mattonelle rosse, grandi tavoli di legno dolce, calderoni, pignattoni; era un meraviglioso paese del latte; l’avevamo sorpreso nel sonno. Una porta dava nella immensa provincia dei formaggi. Dormivano tutti nei lettini a strati sovrapposti, come cristiani. I corridoi erano stretti e bui, i formaggi stipati come in un gran dormitorio, nelle catacombe. Mi viene in mente che se i primi cristiani avessero avuto questa grazia di Dio nelle loro catacombe, forse non avrebbero mai sentito il bisogno di emergere alla luce del sole, e quassù saremmo ancora pagani, e diremmo vigliacco Marte, puttana Minerva, mentre loro là sotto sarebbero certamente restati più santi – e avrebbero gradualmente perduta la vista.
Andammo ad aprire agli altri, che intanto avevano spinto il camion davanti alla porta, e cominciò il saturnale. Mi parve giusto lasciarlo avviare, poi mi misi a tentare di frenarlo coi calci, alla fine si modificò da sé, si evolse in un trasporto dei formaggi: ma con un gran senso di eccesso e di sperpero.
L’abbondanza ci travolse; d’improvviso non solo c’era materia di azione, ce n’era troppa. Mi sentivo quasi affondato in un grande mare dei Sargassi; mi pareva che i grossi formaggi trasportati con forza, branditi sopra le teste, palleggiati, mi ondeggiassero attorno ora più alti dei miei occhi, ora più bassi, come relitti di un naufragio in un mare mosso.
Agimmo forse per mezz’ora.
Alla fine avevamo caricato una quindicina di quintali di belle forme tonde, sode, odorose; ripartimmo nella notte, guidati dal nostro commissario che sapeva la strada. Io ero di dietro, tra i formaggi: vedevo passare, a rovescio, rettifili, curve, siepi, incroci, paesi deserti; non riconoscevo nulla. Era una strana sciarada.
Avevamo rilasciato puntigliose ricevute in busta chiusa per questa requisizione, con una serie di buoni da noi inventati, e onorevolmente firmati. Invece il Comitato della provincia, quando seppe della cosa, espresse, anziché viva gioia, viva indignazione, e deliberò di pagare il formaggio da noi catturato. Prima ci contro indignammo poi dicemmo: fate vobis.
Intendevamo, come ho detto, non di tenercelo noi, il formaggio, solo di assaggiarlo, e poi distribuirlo. Questa parte del piano la mettemmo ugualmente in atto. Andammo in giro a regalare formaggi al popolo dell’Agordino, in nome del popolo italiano. Come quest’ultimo apprezzasse il gesto, non saprei; ma anche il popolo dell’Agordino aveva un po’ il dente levato, no per l’origine dei formaggi, ma per le possibili conseguenze. Non dicevano di no ai nostri doni, ma non parevano disposti a mangiarli. La denutrizione è una strana consigliera. Noi pretendevamo che li inaugurassero subito, e in qualche casa glieli tagliammo noi stessi, un po’ teatralmente, con le baionette, porgendo cordialmente le fette. Con le baionette in pugno, spettinati e stravolti, non sembravamo gente da prendere sottogamba; gli adulti si mettevano a staccare bocconi, mentre i bambini approfittavano per ingozzarsi in fretta, e presto s’intasavano, e diventavano paonazzi.
Insomma questa nostra operazione non andò bene; quando poi una bella mattina le truppe del terzo Reich in assetto di rastrellamento si presentarono agli sbocchi delle valli e cominciarono ordinatamente a visitare le case, poi a bruciarle per ricordo (ma non cercavano i formaggi, cercavano noi), i montanari per prudenza scacciarono di casa i formaggi (bastava una spintarella), con un po’ di rimpianto spero. In quella parte d’Italia le valli hanno lunghi pendii erbosi, molto inclinati. Mi è stato detto che si vedevano i formaggi rotolare verso il fondovalle, saltando le masiere, a un certo punto pareva che da ogni casa venissero giù formaggi, forse i tedeschi credettero a una nuova forma di resistenza popolare, e il loro cuore di guerrieri vacillò per un attimo.
 
Rastrellamento: la cosa, la parola stessa erano nuove. La notte che ci fu annunciato per la prima volta l’arrivo di un rastrellamento tutto per noi, ci mettemmo a fare i sacchi nel buio, tra una confusione molto interessante; era come un formicaio, tutti si giravano attorno reciprocamente; c’era un forte vento e pareva di essere su una nave che affonda. Dovevo spiegare la situazione agli inglesi, e feci accendere una candela; un partigiano teneva le mani attorno alla fiamma gettandomi una spera di luce sul viso; ero montato su una cassetta. Gli inglesi fecero un’isola attorno a me; si distinguevano le teste maremotate, e ogni tanto uno spruzzo di luce portato dal vento sbatteva su una faccia. Erano attenti e incuriositi. Quando ebbi finito dissero solo: “All right”.
Passammo il giorno vagando tra i monti a nord del campo, su acrocori a me sconosciuti, senza andare in alcun luogo particolare , in mezzo al vento. Per certi versi mi sentivo come un piccolo Mosè; c’era il deserto, il gregge riottoso, e vagamente impaurito. La direzione generale era verso nord.
Da una parte, a ovest, c’era il solco lungo e strano del Canal del Mis; dalle altre parti, chi lo sa che cosa c’era? Vedevamo a sud uno schieramento di cime oltre le quali io credo che ci fosse la pianura; verso nord, c’era uno scalino nudo e gli acrocori informi; a est un vespaio di monti anonimi, vuoti. Dal Canale risalivano spacchi obliqui che incidevano il fianco degli acrocori. Su uno di questi spacchi era aggrappato un paese. E’ un paese vero, ma è anche un paese della mia immaginazione, io non ne ho colpa, è cascato lì dentro e vi ha attecchito; il suo stesso nome mi turba, come le cose viste in sogno, che non sono veramente di questo mondo.
Gena. C’era Gena Bassa e Gena Alta, per me sono attributi della stessa sostanza, un paese fortemente obliquo, quasi in piedi su un costone. Noi occupammo questo paese obliquo; non avevo letto Kafka allora; era puro Kafka. La gente parlava un dialetto come il nostro, dal più al meno, ma sfasato nelle cadenze. Anche tutto il resto pareva sfasato.
Dove andavano le donzelle con le anfore? Avevano abitini stretti, rosa carico, zuppa stinto, che modellavano i corpi; erano veramente donzelle, ragazze irreali, poetiche. Stavano arditamente in equilibrio, come rizzate nel paese obliquo per la forza stessa della gioventù. Si muovevano tra le case e la fontana, pareva che facessero una processione. Fu la più strana occupazione di un paese che si sia mai vista. Entrando ci spargemmo lentamente tra le case. C’era il sole. Salutavamo coi cenni del capo. C’erano uomini anziani che spaccavano la legna davanti alla porta di casa; donne alle finestre coi bambini in braccio; e queste ragazze con le anfore. Tutti erano solenni e remoti. Forse restammo a Gena Bassa, perché ho impressione di aver sempre guardato all’insù, in quei giorni. Pareva di essere a confronto con le forme delle cose, i muri, la fontana, gli imbusti delle ragazze, e poi un orlo di anfore, e sopra ancora le case pensili, e il cielo.
No, non era un paese, ma una plaga della mente, un aspetto del nostro smarrimento atteggiato in figure. Le figure dicevano: voi credete che la vita appartenga ai traffici, alle guerricciole. Cosa importa quello che fate? Solo le immagini sono, il resto fluttua, diviene.
Saranno stupidaggini, ma a me pareva che la realtà si fosse tirato via il velo, e le sue forme immobili ci fissassero. Tenemmo occupato il paese due o tre giorni, col petto e il viso rivolti a quelle forme. Poi andammo via, e io a Gena non ci ho più rimesso piede.(…)
 




Brano tratto dal romanzo I piccoli Maestri – Luigi Meneghello – Introduzione Maria Corti – Prima edizione Feltrinelli 1964 – Quarta edizione BUR Scrittori Contemporanei Maggio 2009.




Luigi Meneghello
Luigi Meneghello (1922-2007), nato a Malo, si trasferisce per motivi di studio a Reading, in Inghilterra, dove fonda e dirige per molti anni la cattedra di Letteratura Italiana. Nei suoi libri ha registrato in chiave ironica e poetica le “memorie di un italiano” del suo e nostro tempo. Nell’ambito di questo progetto, I piccoli maestri (del 1964, nuova stesura nel 1976) registra l’esperienza personale e collettiva della Resistenza e della guerra civile in chiave pungente anti-retorica e antieroica. Accanto ai grandi testi di Fenoglio, è tra i documenti letterari più intensi e incisivi sui fatti e i sentimenti degli anni 1943-45. Su di lui ha scritto Maria Corti (1915-2002), critica, filologa, teorica della letteratura, narratrice, è stata una delle figure centrali della cultura del Novecento): “Meneghello in ogni opera attinge a quello che Dante chiamava Il libro della memoria e se ne fa in qualche modo lui pure scriba. Oggetto del narrare è un preciso passato e in ogni opera narrativa di Meneghello c’è un finale dove lo scrittore saluta, in un certo senso con addio, questo passato che si allontana.”




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