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Sagarana CENTOCINQUE


Paolo Zardi


CENTOCINQUE



Sembrava fosse arrivato il suo compleanno. La casa si era riempita di persone, e tutti andavano a stringergli la mano, sorridendo. Congratulazioni, dicevano. Alcuni, gli sembrava di averli già visti; altri, specie quelli più giovani, gli erano sconosciuti. Con lo sguardo cercò la sua badante, e gli parve di riconoscerne il profilo davanti alla porta della cucina, ma la luce entrava dalle finestre con una forza abbagliante. Provò anche a chiamarla, ma nessuno lo sentì. Tornò allora a ciucciare una dulcamara, aspettando che venisse sera.

A cena, chiese alla badante, che gli stava soffiando sul brodo, cosa fosse successo, il pomeriggio, a casa sua: perché c’era così tanta gente.

«Parenti» rispose lei, prima di imboccarlo.

«Era di nuovo il mio compleanno?»

«No. Quelli, li festeggiate al ristorante. Questa mattina è nato un bambino. Da oggi, lei è diventato trisavolo».

Trisavolo. Prima o poi, sarebbe dovuto accadere.

«Sa anche di chi sia figlio, questo neonato?»

La donna scosse la testa: non era mai riuscita a capire l’albero genealogico che si estendeva sotto il vecchio che accudiva da più di vent’anni – o forse non le era mai interessato. Lui la guardò mentre soffiava sul cucchiaio. Quando era arrivata a casa sua, presentata da una lontana parente (sorella di qualche cognata di un suo nipote), aveva meno di cinquant’anni, ed era scappata dall’Ucraina dove, diceva, erano rimasti suo marito e due ragazzi: dall’Italia avrebbe mandato soldi per farli studiare, in modo che prima o poi trovassero il modo per andarsene anche loro. D’estate tornava a casa, dalla sua famiglia, e qualche volta faceva un salto anche a Natale; poi smise di partire, e non gli spiegò mai il perché: forse suo marito se n’era trovata un’altra, o era morto, e i ragazzi erano diventati adulti, e probabilmente si erano fatti una famiglia – magari in America, o in Australia – e così era rimasta là, in quella casa, a invecchiare con lui. Lo accudiva come una mamma, o una moglie molto vecchia. Ancora un po’, e anche lei avrebbe avuto bisogno di una badante che l’aiutasse a mangiare, a mettersi a letto, a lavarsi.

Il vecchio, Paolo, aveva avuto tre figli: Francesco, Angelo e Corrado.

Francesco nacque quando lui aveva ventun anni; Angelo due anni dopo; Corrado arrivò tardivo, quando nessuno se l’aspettava.

Il più vecchio aveva passato i suoi ultimi anni in un ospizio.

Da là, ogni tanto gli scriveva delle lettere che la badante leggeva ad alta voce, in salotto, con il suo accento dell’est. Caro papà...

Paolo sospettava che quando lei non riusciva a capire una parola, o una frase, se la inventasse; ma il senso di quelle lettere arrivava comunque, ed era un miscuglio di amarezza, di dolore, di risentimento.

Non appena Francesco era diventato vedovo, i figli l’avevano mollato in ospizio; passava le giornate con vecchi rincoglioniti, e nessuno veniva mai a trovarlo. Probabilmente, se fosse stato un po’ più coraggioso, e se l’avessero lasciato uscire ogni tanto, si sarebbe buttato sotto un treno: ma la vigilanza era ferrea, e in ogni caso non era mai stato tipo da grandi imprese. Un giorno Paolo lo invitò a casa sua; e quel figlio quasi ottantenne, dopo aver mandato lettere piene di tentennamenti per un mese, si fece accompagnare da un nipote che aveva già la patente, e che pretese una piccola mancia per il servizio.

Lo aveva fatto accomodare in salotto. Le pareti avevano ancora i quadri che aveva scelto sua moglie settanta anni prima; la credenza con le tazzine del servizio buono, i bicchieri di cristallo e i piattini omaggio dei ristoranti; alle finestre c’erano tende di pizzo e crinolina, grigie come novembre. Il suo primogenito si era seduto su una poltrona verde di velluto (la stessa sulla quale giocava a dadi con suo fratello Angelo, durante gli anni trenta) e non sapeva che dire: si masticava le labbra con una vecchia dentiera consumata, e guardava suo padre attraverso un paio di occhiali spessi come il fondo di una bottiglia. Quel ragazzo che giocava a dadi, era diventato vecchio, vecchissimo. Gli tremavano le mani.

Faceva odore di borotalco, e di qualcosa in decomposizione.

Aveva la testa piena di macchie nere e i capelli erano caduti. Sotto il collo, la pelle penzolava come la giogaia di un rettile. Quando tornò dal cesso, dove era rimasto mezz’ora, aveva i pantaloni sporchi sul davanti. Si salutarono stringendosi delicatamente le mani, come se avessero paura di rompere qualcosa. Sarebbe stata l’ultima volta che si sarebbero visti, entrambi lo sapevano, ma non si dissero nulla, perché non avevano più nulla da dirsi. Paolo passò tutta la notte a pensare ai figli quando erano piccoli; a sua moglie quando era giovane, e viva – la voce, le mani forti, gli occhi azzurri; e poi, verso mattina, a suo padre che lo faceva saltare sulle gambe, e a sua mamma che lo abbracciava, sorridente, in cucina, con una gonna larga, il grembiule bianco, i capelli raccolti...

Erano nati quasi un secolo e mezzo prima, i suoi genitori: cosa avrebbero detto vedendo il mondo che ora lo circondava?

Un giorno la badante gli disse che Francesco era morto, in ospizio, di notte, nel sonno. Aveva 81 anni. Lui si sentì confuso, gli sembrava impossibile che un padre potesse vedere suo figlio morire di vecchiaia.

Il secondogenito aveva avuto un ictus durante un pranzo pasquale, e ormai da una decina di anni non riusciva a parlare: emetteva dei grugniti, sbattendo sul tavolo il pugno dell’unico braccio che poteva ancora muovere, incazzato perché nessuno lo capiva. Era diventato così grasso che non era più possibile portarlo fuori di casa. Un giorno, Paolo dettò alla badante una lettera con la quale gli chiedeva come stava, ma non ebbe nessuna risposta.

Ogni tanto provava a pensare alla faccia che poteva avere: gli veniva in mente solo quella sorridente di quando aveva dodici, tredici anni, e giocava in giardino con i suoi amici; e non ricordava se ora era ancora sposato, se era diventato vedovo, o se aveva divorziato senza dirgli niente. Angelo aveva dei figli – tre o quattro – che gli pareva di aver riconosciuto quando aveva compiuto cento anni – facce da falliti, da gente che rubava, o che picchiava le mogli; e quei figli falliti a loro volta avevano fatto altri figli, cioè i suoi bisnipoti, che invece sembravano in gamba: e forse, era stato uno di loro a renderlo trisavolo.

Il terzo, invece, stava bene. Gli pagava la badante, e si assicurava che non ci fossero problemi. Ogni tanto passava a trovarlo, abbronzato, ben vestito, profumato, e gli portava dei dolcetti che lui divorava in tre giorni, e poi gli raccontava qualche storia sui figli che aveva avuto, o di quando era piccolo, e suo padre li portava su un cavalluccio che c’era in piazza, e poi comprava caramelle per tutti. Paolo sorrideva, perché gli pareva di ricordare qualcosa di simile – quando lui era ancora giovane, e forte... Man mano che invecchiava, amava sempre di più stare con quel ragazzo: da piccolo, sembrava il meno promettente dei tre – magrolino, timido, impacciato – e invece alla fine era quello che gli era riuscito meglio. Aveva una bella famiglia, e aveva avuto un bel lavoro.

Quando erano ancora giovani, Paolo e sua moglie ricevevano le cartoline che quel ragazzo mandava da ogni parte del mondo...

Ma era a lui che gli era morto un figlio di cancro? Un tumore al cervello se l’era portato via in due o tre mesi, e non aveva ancora sessant’anni... No, era troppo vecchio per essere figlio del terzo: forse, era del primo, uno di quelli che l’avevano mollato all’ospizio. E se continuava a pensarci, gli veniva in mente che alla moglie di un nipote gli avevano tolto una tetta e dopo, forse, era anche morta; e gli pareva che anche il marito di una sua nipote che faceva l’insegnante, fosse morto nel giro di qualche mese, lasciando tre orfanelli. Come si chiamava? Quando era successo?

Le notizie tragiche gli arrivano a frammenti, confuse. A volte gli sembrava che il cancro avrebbe portato via tutti. Tutti tranne lui.

Una volta gli era venuto qualcosa a un rene – una massa scura che sembrava un tumore –, ma non era cambiato niente: come diceva la badante, non c’era trippa per gatti, in quel corpo secco. Cosa avrebbe dovuto fare, allora, per morire? Pareva che Dio avesse deciso di punirlo facendolo assistere alla morte di tutti i suoi discendenti; oppure che si fosse dimenticato di lui. Ma Dio, esisteva davvero? Non ricordava a quale conclusione era arrivato l’ultima volta che ci aveva pensato: c’era, ma non era quello che insegnavano a catechismo, o non c’era, ma era meglio far finta che ci fosse? Il rosario di sua moglie, quello fluorescente, con la medaglietta della Madonna nel mezzo, e il piccolo Cristo brunito che penzolava sotto, continuava a sparire, a ricomparire e a sparire di nuovo: la badante, che era ortodossa, e continuava a baciare un quadretto di San Giorgio, diceva di non saperne niente.

Ma se per caso riusciva a trovarlo in primavera, allora se lo metteva in tasca e aspettava che fosse maggio; e quando finalmente arrivava maggio, provava a recitare il rosario, di sera, dopo cena, ma ogni volta veniva preso da una stanchezza infinita, già dopo la prima decina di Ave Maria, e si addormentava sulla poltrona,con la bocca aperta, la saliva che gli colava sul bavaglio, la testa di Gesù che gli scivolava tra l’indice e il pollice della mano sinistra.

Tutti gli anni, a luglio, il suo albero genealogico si radunava in qualche ristorante per festeggiare il suo compleanno. Lui arrivava sempre più gobbo, sempre più piccolo, sempre più cieco, più sordo, più insensibile al mondo. Sopra il tavolo gli facevano trovare una torta enorme, e sopra c’era scritto qualcosa che lui non riusciva a leggere; e ogni volta gli mettevano un cucchiaio di torta in bocca, e lo fotografavano, per ricordo: ridevano tutti, di fronte a quel vecchio che mangiava. Poi gli auguravano cento di questi giorni, e ancora ridevano, come se fosse qualcosa di divertente: come se lui non capisse. Ma intanto erano gli altri a morire; lui si presentava puntuale a ogni compleanno, e tutti si stupivano di come potesse essere ancora vivo. Pesava meno di quaranta chili, non riusciva più ad alzare le braccia, a mettersi in piedi, a dire una frase intera senza rischiare di perdere il respiro: ma non moriva mai, nonostante fosse l’ultima cosa che gli restava da fare – l’unica che ancora volesse.

E intanto, di compleanno in compleanno, invecchiavano tutti – tutti si ingobbivano, si imbiancavano, si ammalavano, e prendevano pastiglie per la pressione, per la prostata, per il diabete, e quelli che quando lui aveva settant’anni erano all’apice della loro vita, e arrivavano ai compleanni con le camicie aperte sul davanti, i capelli tirati indietro, i sorrisi smaglianti, e presentavano al nonno le nuove fidanzate, la nuova macchina, i bambini appena nati, e sembrava che dovessero raggiungere chissà quali traguardi, ora avevano settant’anni, e non avevano ancora combinato nulla; avevano anche loro dei figli – i piccoli presentavano al bisnonno le nuove fidanzate, la nuova macchina, o bambini appena nati, e quelli più grandi, con le nuore e i nipoti, già iniziavano a festeggiare i compleanni dei loro genitori con un pizzico di apprensione, come se potessero essere gli ultimi. Lui, seduto su una sedia, con un cuscino che qualcuno gli aveva piazzato sotto il culo perché potesse vedere oltre il tavolo, guardava quella gente, e si chiedeva fino a quando sarebbe dovuto durare.

Poi, quando la festa finiva – quando tutti avevano ballato, bevuto, brindato – Corrado dava disposizioni affinché lo riportassero a casa: qualcuno lo aiutava a salire su una macchina gigantesca (lui aveva comprato una Cinquecento a sessant’anni, dopo aver venduto la Lambretta che aveva comprato a quaranta), un altro lo faceva girare per mezza provincia (che ogni anno era più diversa dal ricordo pieno di alberi e piante che aveva), e un altro ancora lo prendeva in braccio, come se fosse un bambino, o un gatto, e lo portava su per le scale per restituirlo alla badante, che lo aspettava sulla porta. Prima di andarsene, i parenti bevevano un bicchiere di aranciata; uscendo gli dicevano sempre Al prossimo anno! Lui muoveva la sua manina tutt’ossa per salutarli, come un burattino di legno.

Quella sera, dopo la festa per i centocinque anni, la badante l’aveva appoggiato su una poltrona piazzata davanti a una finestra aperta, gli aveva messo una coperta sulle gambe e un berretto in testa, gli aveva dato una dulcamara da succhiare e l’aveva lasciato là, in pace, a guardare il cielo che diventava arancione, le rondini che volavano dai fili della luce verso i nidi nascosti sotto i tetti, qualche nuvola che si spostava lentamente da una parte all’altra della città; quando il sole era tramontato, gli aveva portato un brodo caldo, e l’aveva imboccato: con una mano gli puliva la bocca, con l’altra gli carezzava la testa.

Alle dieci, era ora di andare a dormire: il letto con le lenzuola fresche, il bicchiere d’acqua sul comodino, la Madonna sopra la testiera, il pigiama di flanella piegato, e un odore di pulito che veniva da ogni cosa. Con una grazia materna lei lo preparò per la notte; e quando finalmente lui fu sotto le lenzuola – il profilo secco del suo corpo sembrava lo scheletro di un animale preistorico sotto una coltre sottile di polvere: la testolina stava appoggiata sul cuscino come un sasso levigato, e lasciato là, da un fiume – lei gli carezzò il viso con dolcezza, e lo baciò sulla fronte con labbra che sapevano di latte caldo, e gli ripeté sottovoce buon compleanno, Paolo, e continuò così, fino a che non lo vide chiudere gli occhi: lui la sentì uscire dalla camera con un fruscio, come se fosse fatta di stoffa.

Dalla strada arrivavano i rumori sommessi della città – motorini, musica, voci di mamme che chiamano i bambini. Ogni tanto apriva gli occhi, e vedeva la camera immersa nel buio, e allora ricordava quando da bambino dormiva in un lettone con i suoi due fratelli, e sentiva che c’era qualcuno, o qualcosa, sotto il letto – un mostro silenzioso, il cui unico divertimento consisteva nello spaventare i piccoli: solo un pochino, giusto per ridere.

E quando richiuse gli occhi – il brivido della sua infanzia ancora gli correva lungo la schiena –, vide la scena che ogni notte gli scivolava davanti: suo papà lo metteva seduto sulle sue gambe e lo faceva saltare, come fosse su un cavalluccio, e intanto sorrideva, e canticchiava una filastrocca che nessuno conosceva più. Quando era successo? In quale tempo, in quale mondo? Dov’erano finite quelle voci, cosa le aveva inghiottite? Cosa ci faceva lui, ancora qua, sempre più piccolo, e sempre più solo? Ogni sera suo padre gli asciugava le lacrime, e lo stringeva a sé, e gli diceva di non aver paura; allora lui si addormentava, e gli pareva di sentire l’odore della sua camicia, dei suoi capelli, delle sue mani che lo accarezzavano. Ma quella notte, la sera del suo centocinquesimo compleanno, il papà lo fece scendere dalle ginocchia, e con una mano appoggiata sulla schiena lo accompagnò dolcemente verso la cucina, e gli sussurrò vai: e là, nella stanza piena di luce, c’era la mamma, bianca, buona, con i capelli raccolti, che lo aspettava a braccia aperte, e gli diceva, con il sorriso che lui non aveva mai dimenticato, vieni, piccolo mio, vieni: non sei più solo, e lui le corse incontro, fino a che non sentì il suo viso sprofondare nel calore del suo ventre.

 







Racconto tratto dalla raccolta Il giorno che diventammo umani, Neo edizione, Castel di Sangro (AQ), 2013.




Paolo Zardi

Paolo Zardi: Ho 43 anni, sono un ingegnere, e amo scrivere: quindi scrivo, ma comunque meno di quanto vorrei. La mia mail è paolo[punto]zardi[chiocciola]gmail[punto]com (cosa non bisogna fare per sfuggire ai motori che cercano indirizzi da spammare!). Lasciando un commento qui sotto, e inserendo il proprio indirizzo mail, mi arriva una notifica che vedo solo io. Nel passato, ho pubblicato alcuni racconti nella rivista Pagina Uno, altri in Rivista Inutile e su Vicolo Cannery; ho vinto il concorso “Il più vile tra i vili”, il concorso “Controracconto 2007″ della rivista PaginaUno, sono stato tra i finalisti del concorso Caffè Letterario Moak (il racconto è contenuto nella relativa antologia), e finalista al concorso “Oltrecosmo”. Da un po’, ho smesso di partecipare a concorsi. Nel 2008, nella raccolta Giovani cosmetici curata da Giulia Belloni, è uscito il mio primo racconto “ufficiale”, dal titolo “Un silenzio che non è assoluto”. Nell’ottobre del 2010 è uscita la mia prima raccolta di racconti dal titolo “Antropometria”. La casa editrice è la Neo Edizioni, di Francesco Coscioni e Angelo Biasella. Nel gennaio del 2012 è uscito per la Alet, collana Iconoclasti diretta da Giulia Belloni, il romanzo “La felicità esiste”. Nel giugno 2012, nella raccolta Storie di martiri, ruffiani e giocatori, edita da CaratteriMobili, viene inserito il mio racconto inedito “Il decoro”. Alla fine del 2012, poco prima della fine del mondo, è uscita la raccolta “ESC – Quando tutto finisce” a cura di Rossano Astremo e Mauro Maraschi, per la Hacca Edizioni; dentro, c’è il mio racconto inedito “Il dolore visto da Urano”. Vita privata? Sono felicemente sposato con Dunja, e sono padre orgoglioso di due bambini molto curiosi.





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