Torna alla homepage

Sagarana IL CASO MATTEOTTI


Ivo Andrić


IL CASO MATTEOTTI



La crisi del fascismo è iniziata. A causa del caso Matteotti. Un caso che è allo stesso tempo incredibile e terribile, semplice e banale. Incredibile e terribile è che in Europa, nel paese che rivendica la paternità del diritto, nel centro di Roma a mezzogiorno sei mercenari possano rapire un deputato popolare inerme, segretario di un partito, portarlo fuori città e ucciderlo, poi profanare e dilaniare il suo cadavere in modo tanto efferato.

Ma per chi vive in Italia è un fatto semplice e banale che una decina di giovani in camicie nere si ponga davanti a un deputato nazionale che non è podobaet [adeguato, in russo nel testo, n.d.r.] e lo picchi selvaggiamente. E dipende solo dal caso se questo deputato nazionale se la caverà con una perdita dei sensi, sarà ferito gravemente o morirà. Allo stesso modo sono stati uccisi i deputati socialisti Di Vagno e Piccinini, allo stesso modo è stato picchiato il capo dei liberali, Amendola. Ma perché mai enumerare i casi, quando sono pochi gli avversari politici dei fascisti che non abbiano provato sulla propria pelle o sui loro beni i metodi fascisti. La “punizione” fascista si realizza sempre, senza scrupoli, con matematica precisione e incredibile rapidità.

Persino un deputato fascista, il professor Misuri, che in Parlamento si era permesso di criticare le azioni e i metodi di alcuni capi fascisti, solo due ore più tardi è stato bastonato a sangue da “giovani sconosciuti”. Per non parlare della provincia, dove violenze di ogni genere e omicidi frequenti sono divenuti la sostanza del fascismo, un sistema efficace e duraturo.

E mai che accada che i colpevoli dopo vengano trovati e arrestati.

In questo modo si realizza quella particolare psicosi delle giovani camicie nere (ma anche di quelle meno giovani). L’impunità, propria anche dei governi precedenti quando il fascismo era ecclesia militans, è divenuta, dopo la presa del potere da parte di Mussolini, assoluta. E non solo. L’abilità sanguinaria comincia a essere premiata.

Con l’arrivo di Mussolini al potere è arrivato anche uno sciame di giovani provinciali, praticanti avvocati o anche sottotenenti di riserva, che hanno maturato i meriti dell’avvento del fascismo. Hanno occupato le cariche più importanti nei ministeri e hanno cominciato a dividersi tra di loro i frutti del potere, che ben presto gli ha dato alla testa. Sono state distribuite le più alte onorificenze, titoli baronali (con esenzione dalle tasse!). Mussolini stesso ha fatto sposare alcuni di loro con donne aristocratiche.

Dietro a questi giovani, che tempo una notte sono arrivati al potere e alla rispettabilità, c’era un nuovo sciame di satelliti, loro partigiani o parenti poveri della provincia. Molti di loro, che fino a ieri erano stati impiegati comunali o semplici segretari del partito fascista locale, a Cosenza o negli Abruzzi, si sono ritrovati responsabili di interi reparti, si sono messi il monocolo e hanno cominciato a sentire e a mostrare cosa significa avere il potere. Tutto questo mondo di nuovi arrivati appartiene perlopiù alla generazione della guerra, cresciuta nel culto della forza, dell’avventura individuale, del rischio eccezionale, una generazione che ha visto uccidere, scialare, spendere, ma che non ha mai avuto occasione di vedere come sia difficile e faticoso costruire e come costi sacrificio, senza un rapido e arrogante successo. È la generazione delle misure straordinarie, straordinarie nel bene e nel male.

Saliti al potere in nome della legge, della giustizia e dell’ordine, avrebbero dovuto iniziare ad applicare le leggi esistenti e al contempo introdurne con saggezza di nuove. Invece, si è creato un miscuglio infelice e, soprattutto, odioso di metodi rivoluzionari e misure legislative. Laddove per il partito o per l’ideale del partito era utile e vantaggioso, è stata applicata la legge esistente con tutta la forza e le sanzioni del potere statale, laddove non era vantaggioso né possibile, sono stati perpetrati i metodi fascisti di prima della presa del potere: dure percosse dei singoli avversari, distruzione di case, incendi di redazioni.

In questo caos si sono facilmente guadagnati una reputazione i più aggressivi e chiassosi, elementi irresponsabili con istinti criminali e senza una precisa ideologia. Così, in poco tempo è nata quella che la stampa di opposizione ha definito la «banda del Viminale» (il palazzo del Viminale è il ministero degli Interni italiano), o la Ceka fascista.

È ovvio che anche questi giovani, con titoli importanti e poca esperienza, con un grande potere e un senso della responsabilità scarsamente sviluppato, storditi dall’incenso della società e della stampa non potevano, anche se personalmente fossero stati bravi e onesti, tenere al guinzaglio tutti quegli elementi oscuri che si addensavano intorno a loro sempre di più quanto più salivano in alto nella scala sociale, e dei quali avevano sempre più bisogno.

All’ombra della sacra figura di Mussolini, in nome del fascismo-salvatore, sono iniziati la stolta corsa dietro al denaro e alle onorificenze, la speculazione per le cariche ottenute, il ricatto degli industriali, lo squallido can-can di parvenus e di avventurieri.

Tutti questi grandi e piccoli rami del fascismo, una volta assaporato il piacere della vittoria e assaggiati i frutti del potere sono diventati ancora più ostili alle critiche e più sospettosi nei confronti degli avversari. Abituati a eliminare immediatamente i nemici, spogliati del senso di legalità e dello spirito delle leggi hanno cominciato, comprensibilmente, a fare uso sempre più frequente dei mezzi già sperimentati, così incredibilmente semplici ed efficaci. Invece di rispondere alle noiose e banali interpellanze di socialisti, dei liberali e a simili sofisticazioni, che ogni vero fascista doveva disprezzare in quanto tristi resti dei «tempi bastardi», quelli prima del 1922, il ministero degli Interni ha iniziato a organizzare i suoi attacchi contro i deputati che presentavano simili interpellanze – o che avrebbero potuto farlo. I sanguinari metodi fascisti furono trasferiti dalle stanze delle cellule del partito nelle segreterie dello Stato e nei ministeri competenti. Una volta intrapresa questa strada in discesa, non era facile fermarsi. Tanto più che questa cricca di arrivisti non aveva né poteva avere il senso della misura, un freno ai propri appetiti e uno sguardo sano sulle cose, che appartiene solo alla cultura del lavoro e all’esperienza. Questo pugno di desperados aggiungeva violenza a violenza, finché nel suo furore non cominciò a considerare le piazze romane come strade dei paesi natii, dove ci si picchiava senza tribunale né testimoni, e tutta l’Italia un pascialato fascista e l’intera Europa del tutto senza coscienza.

Così è stato possibile arrivare anche all’uccisione dell’onorevole Matteotti. Ed è stata proprio quella goccia a far traboccare il vaso.

Il giorno in cui scomparve Giacomo Matteotti fu chiamato la Caporetto fascista. Di colpo, la crisi del fascismo si era aperta. Le file delle camicie nere mussoliniane, le file dei «gloriosi, mai vinti e invincibili», vacillarono. Vennero fuori gli avversari nascosti e i falsi amici cominciarono a disertare: anche tra i più accaniti sostenitori l’inquietudine era all’ordine del giorno.

L’opposizione unita, dai comunisti ai clericali, uscì dal governo. A Palazzo Madama il senatore Albertini fece un discorso coraggioso, colmo di accuse. A Lungotevere Arnoldo da Brescia, dove avevano prelevato Matteotti, era stata disegnata una croce nera sul muro; l’intero apparato del direttivo fascista, che aveva avuto il coraggio di liquidare l’illustre deputato, non aveva la forza di cancellare quella semplice croce di catrame, fatta da una mano operaia: doveva rimanere come pietrificato a guardare quel luogo che era diventato il simbolo dell’Italia antifascista.

Nello specchio delle tanto disprezzate leggi si riflesse il volto deforme delle camicie nere – tutto il mondo inorridì. I vigliacchi dimenticarono la paura e i cauti la cautela. Per la prima volta il fascismo subì una scossa e si smarrì. Lo stesso Mussolini non poté che abbassare lo sguardo davanti alla vedova di Matteotti, che con una sola frase aveva stritolato “l’imbarazzato Cesare”: «Eccellenza, sono venuta a chiedere a Lei il cadavere di mio marito, per poterlo vestire e seppellire».

Nient’altro. Non una parola sul risarcimento, l’aiuto, la legge, la condanna. Come se queste cose non si potessero né pretendere né chiedere a un governo, a un partito che aveva sottomesso tutti alla propria volontà come legge assoluta e unica possibilità di esistenza.

Il fascismo si era ritrovato di colpo davanti alla legge, sopra la quale aveva voluto innalzarsi e davanti al volto della democrazia, che aveva dichiarato cento volte morta e seppellita, e che ora si vendicava. Era lì, combattiva e vitale e il tuonare delle frasi più ardite non poteva zittirla, come se gli assassini di Matteotti con il suono dei clacson avessero superato il volume solo per un momento delle grida di aiuto della loro vittima.

Alla grande assemblea fascista che in questi giorni si svolge a Roma ci sono segnali che non ingannano. Nel partito, fondato su un rigido sistema gerarchico, dogmatico, con la sottomissione totale a un unico individuo, iniziano a farsi sentire le correnti dei revisionisti, dei “terribilisti”, degli integralisti: si formano a destra, a sinistra, al centro. Tutto secondo le mortali leggi umane, senza le gesta gerarchiche e le formule magiche degli anni 1921 e 1922. Mussolini, che un tempo parlava volentieri della religione, della cavalleria medievale delle sue squadre («davvero c’è come qualcosa di religioso in questo esercito di volontari che non chiede nulla ed è pronto a tutto»), ora riprende un volto umano ed espone al congresso una definizione più critica del fascismo, piena di amarezza e di minacce, ma anche di un’umiltà imparata a forza. («Poiché il fascismo, signori, anche se è quel che è, un insieme – o una pietra di prova – di passioni più o meno nobili, è l’unico movimento forte, vivo e degno del futuro del popolo italiano»), Nel suo ultimo discorso, in cui sotto il calmo e dignitoso frac ministeriale emerge sempre di più la disperata camicia nera, Mussolini dopo molto tempo inizia per la prima volta ad assumere un atteggiamento battagliero.

Va così lontano da paragonare il suo partito a una fortezza assediata che si difenderà fino all’ultimo respiro. Getta nell’aria una nuova frase, che «bisogna vivere la vita pericolosamente». Con questa frase, che mira, e piuttosto male, tra un logoro D’Annunzio e uno stanco Marinetti, finalmente si china verso la destra radicale del suo partito e si identifica totalmente con quelle camicie nere di provincia che alcuni giorni dopo l’assassinio di Matteotti marciavano per le strade di Roma cantando [di seguito, in italiano nel testo, n.d.r.]:

 

Noi siamo fiorentini,

portiamo il coltello in bocca;

guai a chi ci tocca!

 

Il signor Mussolini, almeno fino a ora, è stato un buon competitore, con il talento di intuire e prevedere gli eventi. Sicuramente non sbaglia nemmeno adesso e sta facendo quel che crede sia meglio per gli interessi del suo partito. Ma mostra anche quanto, sia lui che il suo partito, siano lontani dalla normalizzazione della situazione e da un lavoro costruttivo di cui, fino a poco tempo fa, tanto parlava.

La crisi del fascismo è iniziata. La questione è quanto durerà e come finirà. Abbiamo il piacere di annotarne i sintomi e di annoverarli nella serie degli eventi che, lentamente ma inevitabilmente, porteranno a migliori forme della società e a un ordinamento sociale più equo e più giusto.

 

Oss: "Il caso Matteotti" è pubblicato la 1.a volta su "Jugoslovenska njiva", Zagabria 1924

 
___________________________
 
 

IL FASCISMO SECONDO IVO ANDRIĆ


Božidar Stanišić

 

Esce in Italia la raccolta di scritti "Sul fascismo", realizzata dal Premio Nobel jugoslavo durante la sua permanenza come diplomatico nella Roma degli anni '20. La presentazione del curatore dell'opera

Sono passati quattordici anni dal mio primo contatto con un editore italiano per convincerlo a pubblicare gli scritti sul fascismo di Ivo Andrić. Il vero problema non era Andrić, ero io, cioè un nessuno per le grandi case editrici di Milano, Torino, Roma, Bologna… Avevo già pubblicato alcuni libri in italiano ma senza gloria, né il giusto pedigree, così che a volte non meritavo neppure l'onore di una risposta. Ci voleva ben altro, però, per scoraggiare una testa balcanica. Dopo che un editore vicino al tacco della Penisola mi aveva chiesto volontariato “culturale” per trovare gratuitamente un traduttore, proposi infine il progetto Andrić Sul fascismo a Nuova Dimensione di Portogruaro, casa editrice parte di Ediciclo editore. Abbiamo così cominciato a pedalare verso questa edizione, tradotta dal serbo da Manuela Orazi e Dunja Badnjević, convinti che, insieme all’edizione de La donna sulla pietra (Zandonai, Rovereto 2011), questo sarà uno dei più validi e concreti contributi per celebrare il cinquantenario dell'assegnazione a Ivo Andrić del Premio Nobel per la letteratura.

L'eredità del Duce

In realtà, Andrić non mi lasciava in pace né nel periodo del crollo della Jugoslavia, né durante la guerra fratricida in Bosnia, né nel periodo postbellico, da molti definito “di transizione” (talmente lunga che ormai ha dei figli maggiorenni). I suoi legami con la cultura italiana, poi, rappresentavano per me un ulteriore motivo di interesse. All’inizio degli anni novanta mi attiravano di più i suoi scritti su D’Annunzio e Marinetti, scrittori e artisti che volevano servire l’ideologia fascista, esemplari del tradimento degli intellettuali nel Secolo Breve, e quelli su Mussolini. Il concetto, esplorato da Andrić, dell’unità assoluta tra il popolo, il fascismo e il suo duce si rivelava somigliante a quanto intuivo e poi trovavo confermato nell’”opera” dei padri dei nuovi Stati sorti dalle rovine della Jugoslavia di Tito, in primis Milošević e Tudjman. Dico somigliante perché la variante balcanica del populismo nazionalista e sciovinista era, sia nella sostanza che nelle sue sfumature, diversa dal fascismo italiano. Sia il “duce” serbo che quello croato, ormai scomparsi, hanno infatti lasciato in amanet (turchismo: eredità) alle rispettive società, non solo alla politica, soprattutto la voglia di potere.

Miroslav Karaulac

Quando ho chiesto a mia nipote, che a metà degli anni novanta studiava a Belgrado, di procurarmi le fotocopie degli scritti di Andrić pubblicati sulle riviste croate e serbe negli anni venti, non sapevo che Miroslav Karaulac (1932-2011), uno dei migliori conoscitori della vita e dell’opera di Andrić, aveva già pubblicato Radjanje fašisma (La nascita del fascismo, Vreme knjige editore, Belgrado 1995). Con molto coraggio, Karaulac e Vreme knjige avevano pubblicato in piena dominazione miloseviciana questa raccolta degli scritti di Ivo Andrić sul fascismo italiano. Nella sua brillante postfazione, Karaulac ripercorreva l’esperienza italiana di Andrić in un'epoca di cambiamenti caratterizzata dalla violenza, dall'anti-intellettualismo e dalla dittatura. La riflessione di Karaulac è molto chiara: in Italia il fascismo si è presentato nella sua forma originale, ma è possibile ovunque si apra una crisi sociale e politica, con tutte le variabili locali relative a nascita, sviluppo, fallimento e recidive. Quest’anno Karaulac è morto. Un volto onesto in meno a Belgrado e nell’intero mondo ex jugo.

La presentazione 

Il libro Sul fascismo, di Ivo Andrić, verrà presentato lunedì 28 novembre 2011 alle 18.00 presso il Centro E. Balducci, Piazza della Chiesa 1, Zugliano (Udine). Partecipano Boris Pahor, Božidar Stanišić e don Luigi Di Piazza. Letture di Graziella Castellani. Info 0432/560699; segreteria@centrobalducci.org

Le stagioni della Storia

Perché Andrić sul fascismo? Quando assunse l’incarico diplomatico (come terzo segretario) presso l’Ambasciata del Regno di serbi, croati e sloveni presso il Vaticano (1920-1921), Ivo Andrić si trovò di fronte all’apertura di una nuova stagione della Storia.

Ex prigioniero delle carceri austriache, convinto jugoslavo, il giovane poeta cominciò a cercare a Roma gli indizi di quello stesso meccanismo storico che aveva prodotto le opere monumentali lasciate dalle civiltà che qui erano transitate. Roma, i suoi dintorni, le altre località italiane che visitò in seguito, erano per Andrić una grande rivelazione. Sul suo tavolo si trovavano le opere di Croce, De Sanctis, Machiavelli, Buonarroti, Guicciardini… E alla penna dello scrittore non sfuggì un fenomeno politico e sociale come quello della nascita e dello sviluppo del fascismo, che in una sua riflessione segnalerà come peste umana.

Gli ebrei di Sarajevo

L’edizione Nuova Dimensione di Sul fascismo di Andrić, a cura e con la postfazione di chi scrive, è la prima in Europa. Ho tolto dagli scritti di Andrić un saggio sul fascismo in Bulgaria, aggiungendone due sugli ebrei di Sarajevo: Un ricordo di Kalmi Baruh e Al cimitero ebraico di Sarajevo, entrambi del secondo dopoguerra. Il primo è del suo amico Kalmi Baruh, ispanologo, ebreo sefardita di Sarajevo vittima dello sterminio nazista; il secondo è frutto di una dolorosa passeggiata per i sentieri dell’antico cimitero ebraico della capitale bosniaca. Per quanto riguarda questi due scritti, non potevo limitarmi ad una presentazione fredda e accademica. Il destino dei sefarditi e degli ashkenaziti della Sarajevo occupata dallo Stato Indipendente di Croazia (NDH) è indissolubilmente legato all'immensa tragedia da loro patita in tutti i Paesi europei occupati dalle forze nazifasciste. I macabri disegni di eliminazione degli ebrei dall’Europa, le leggi razziali e la soluzione finale rivelano chiaramente l'essenza del nazismo e del fascismo che ne erano alla base. Poi, dal cimitero ebraico di Sarajevo, durante l’assedio, sparavano i cecchini (dei “miei” serbi bosniaci). Da quello stesso luogo attraverso il quale, appena finito l’assedio, cammina sulla neve il protagonista del bellissimo filmato Adios kerida di Vesna Ljubić.

Questi saggi trasmettono intatta l’originalità dello sguardo di Andrić sul fascismo e sulle sue conseguenze, un fenomeno che al tempo suscitò molte perplessità nelle cancellerie e nei parlamenti delle cosiddette vecchie democrazie e che oggi, a volte travestito da varie forme di populismo, conferma la sua preoccupante vitalità ideologica.

 
 





Ivo Andrić
Ivo Andrić




    Torna alla homepage copertina I Saggi La Narrativa La Poesia Vento Nuovo Nuovi Libri