Torna alla homepage

Sagarana DRUMMOND DE ANDRADE


Antonio Tabucchi


DRUMMOND DE ANDRADE



La prima e l'ultima poesia dell'antologia Sentimento del mondo, pubblicata a mia cura dall'editore Einaudi (esigua in sé, addirittura minuscola in confronto alla vastità dell'ope­ra di Carlos Drummond de Andrade), sono rispettivamente un autoritratto che a suo modo è anche una dichiarazione di poetica e una dichiarazione di poetica che a suo modo è anche un autoritratto. Mi è sembrato che incorniciare una manciata di poesie fra due testi come Poesia a sette facce e La musica da quattro soldi mi aiutasse a mettere meglio a fuoco l'obiettivo, a ritenere un'immagine leggibile, o più `ri­conoscibile', di un poeta così vasto, così mosso e così com­plesso come Drummond, che ha toccato i grandi temi della letteratura del nostro tempo e che la critica, unanimemente, riconosce come il maggior poeta contemporaneo di lingua portoghese insieme con Fernando Pessoa.

Con Pessoa, del resto, Drummond presenta più di un'af­finità: e forse qui sarebbe fuori luogo soffermarcisi. Comun­que, anche un'affinità generazionale: entrambi appartengono alla generazione che ha fatto (o fiancheggiato) le avanguar­die storiche; che ha costruito la poesia moderna eppure, allo stesso tempo, ha tenuto in sospetto, con lo sguardo dell'iro­nia, il culto del moderno. Si potrebbe dire che Drummond è un poeta moderno che odia la modernità, o meglio che ne ha paura. Ha paura, per esempio, della disumanizzazione e dell'irrazionalismo travestiti da razionalismo e da efficienza: e si veda quale furia visionaria — anzi, quale dolorosa preveggenza - provochi in lui il progetto architettonico che l'amico Oscar Niemeyer gli traccia frettolosamente sulla sabbia di Copacabana (Edificio Splendor). Siamo nel 1942, e Drummond intuisce i guasti e la solitudine che produrrà negli uomini la modernolatria, o una certa idea della `mo­dernità'. Della modernità Drummond teme anche il germe di violenza che essa porta ineluttabilmente con sé: la Bom­ba, il Grande Scoppio, prima di tutto; ma anche la violenza dell'artificialità e della programmazione, della dolce coazio­ne e di certe forme di intromissione nella sfera privata: insomma, la violenza palese e la violenza subdola e surrettizia. Il Drummond poeta civile (c'è anche un Drummond poeta civile e politicamente assai esplicito, specie in A Rosa do Povo, 1945) nutre questi sospetti e queste paure; e li indaga, li sviscera, li trasfigura poeticamente con l'ironia e col sar­casmo. Ma Drummond ha principalmente paura di avere paura della paura, che sente come la minaccia più subdola della nostra epoca: quella paura il cui unico scopo è quello di produrre paura di se stessa per annichilire le coscienze (La paura). E allora, col coraggio di chi non ha paura della paura, passa ad avere paura della vita, del tempo e di ciò che non è più: e la sua paura, così reale e concreta, acquista una venatura metafisica e una smorfia che già non è più ironica né patetica come la lacrima del Pierrot triste; è una solenne melancolia, o se si vuole l'esperienza del dolore dell'uomo contemporaneo.

Nei suoi autoritratti, dicevo, Drummond delinea la sua poetica: l'inadeguatezza verso la vita, l'autoelezione e l'accet­tazione di se stesso come antieroe. E dichiara anche le sue codardie, la sensazione di avere sbagliato tutto, il comples­so di colpa, l'impressione di avere tradito e rinnegato qualcosa (il mondo della sua infanzia, il suo sangue, i suoi morti), lo struggimento per l'irreversibile. Sopra questo oscuro e stra­ziante complesso di colpa, il sentimento di avere tradito i propri morti (che poi è uno dei temi della grande poesia laica del Novecento), Drummond scrive le sue poesie più alte e più conturbanti. E, nello stesso tempo, dichiara le sue prefe­renze, le sue scelte e l'ispirazione della sua Musa povera: non le sonate sublimi, ma La musica da quattro soldi, la strada, ciò che viene dalla vita quotidiana, da questo nostro dover essere, dal piccolo, dall'insignificante, dal niente. Un niente testardo, quello di Drummond, che non muore, che resiste, che circola nei canali più ingrati della vita, attraverso giuncaie e pantani, risalendoli, come l'anguilla di Montale, per deporre il suo poco. Perché "di tutto resta un poco" (Residuo), ed è con questo poco, che poi è il nostro tutto, che dobbiamo fare i conti.







Brano tratto dalla raccolta di saggi Di tutto resta un poco, Feltrinelli editori, Milano, 2013.




Antonio Tabucchi

Antonio Tabucchi č stato uno dei pių grandi scrittori italiani del Novecento.





    Torna alla homepage copertina I Saggi La Narrativa La Poesia Vento Nuovo Nuovi Libri