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Sagarana LO STUDIO


Brano tratto dal romanzo Il nuovo inquilino


Javier Cercas


LO STUDIO



(…) Alle nove e mezzo arrivò al Foreign Languages Building: con la mano sinistra teneva una cartella di pelle; con la destra, la stampella. Attraversando la hall notò che il piede fasciato e l'andatura precaria suscitavano le attenzioni altrui più di quanto avesse previsto; si sentì a disagio.

Salì in ascensore da solo. Giunto al quarto piano, anziché dirigersi all'ufficio centrale del dipartimento si incamminò verso il suo studio. Fu felice di non incrociare nessuno nel corridoio: anche se sapeva di dover dare spiegazioni riguardo alla caviglia, il solo pensiero gli creava un certo malessere. Dopo aver armeggiato con la chiave per qualche secondo, aprì la porta dell'ufficio; la richiuse istintivamente, prima di averla spalancata, perché c'era la luce accesa e qualcuno dentro.

Mentre richiudeva farfugliò: «Chiedo scusa». "Che strano" disse tra sé. "Non ho mai sbagliato stanza." Ci ragionò per un attimo: la chiave del suo studio poteva aprire solo la porta del suo studio. Guardò il numero della chiave e quello sulla porta; era lo stesso: 4043. Stava per introdurre nuovamente la chiave nella serratura quando la porta si aprì dall'interno: la figura di Berkowickz si stagliò nel vano.

«Ma guarda che coincidenza» esclamò Berkowickz sorridendo. «Sembrerebbe che siamo destinati a incontrarci nei modi più inaspettati.» Poi, indicando la fasciatura bianca che risaltava sul piede di Mario e la stampella sotto l'ascella destra, chiese: «Ma, accidenti, come va con quella caviglia?»

«Dev'esserci un errore» balbettò Mario impacciato, rendendosi conto subito dell'incoerenza della sua osservazione.

«Sono sicuro che non sia nulla di grave» continuò Berkowickz, come se non avesse neanche sentito quello che aveva appena detto Mario. «Anche se con queste cose non si sa mai.»

Mario pensò: "Adesso dirà che a volte sono le cose più banali a complicarci la vita".

Ripetè: «Dev'esserci un errore».

«Ah, sì» disse Berkowickz, che forse aveva finalmente capito: si voltò lasciando libera l'entrata. «Deve esserci per forza un errore. Questo ufficio è un vero porcile; temo che prima del mio arrivo qui fosse occupato da uno di quegli spagnoli che fanno la doccia una volta alla settimana e si lasciano dietro una scia di sporcizia ovunque passano. Qua c'è di tutto» esclamò, indicando la stanza con un gesto delle braccia: «Lattine di birra, vasetti di yogurt, portacenere stracolmi di mozziconi e persino un minifrigo con dentro un pezzo di formaggio molliccio; e cartacce ovunque. Dovrò trovare qualcuno che mi aiuti a ripulire tutto; da solo non posso farcela».

«Ne parlerò con la segretaria» disse Mario.

«Grazie mille, Mario» disse Berkowickz. «Ma mi pare che non valga la pena di prenderti questo disturbo; non credo che la segretaria mi darebbe una mano: l'ho vista fin troppo indaffarata.»

Quando arrivò all'ufficio centrale del dipartimento, Branstyne e Swinczyc stavano confabulando a bassa voce; smisero appena si accorsero della presenza di Mario: si voltarono verso di lui, lo salutarono. Mario si convinse che stavano parlando di lui. Branstyne era più giovane di Mario, di bassa statura e corporatura esile, capelli radi, tratti anonimi; ma aveva occhi vivacissimi, azzurri, che rivelavano un'intelligenza sveglia: nonostante la giovane età, era indubbiamente il membro più brillante del dipartimento. A tutto ciò Branstyne aggiungeva una cordialità schietta e una moglie italiana, Tina, giovane e bella, che cucinava divinamente le fettuccine al pesto. Tina aveva ottenuto che la reciproca simpatia consentisse una certa intimità.

In quanto a Swinczyc, Mario aveva con lui solo rapporti superficiali, al di là di quelli imposti dalla routine del lavoro, ma le occhiate oblique, a un tempo servili e sprezzanti, le risatine nervose e quel suo modo greve di scherzare a cui indulgeva spesso, gli suscitavano uno scarso entusiasmo nei suoi confronti. Sapeva tuttavia che Branstyne era unito a Swinczyc da un legame di cui ignorava la reale profondità, e questo lo induceva a trattare il secondo con una certa deferenza che poteva essere scambiata per affetto.

Branstyne e Swinczyc si interessarono della caviglia di Mario; lui cercò di minimizzare, scherzò sui benefici dell'attività sportiva. Mentre parlava, stranamente, avvertì questa sensazione: un risalto eccessivo del sorriso dei due professori, come se fossero sotto un riflettore.

Pensò: "Questa scena l'ho già vissuta".

Branstyne disse: «Ci vediamo stasera a casa del direttore».

«Certo» disse Mario. «Ci vediamo lì.»

 

«Si può sapere che ci fa il professor Berkowickz nel mio studio?» chiese Mario in tono brusco.

Aveva fatto irruzione senza preavviso nell'ufficio della segretaria, che non chiudeva mai la porta.

«Non sa quanto sono felice di vederla, professor Rota» esclamò Joyce, sorridendo e alzandosi dalla sedia in cui aveva affondato le abbondanti carni, dietro la scrivania; subito dopo chiese, compunta: «Ma cosa le è successo alla caviglia?»

«Non è niente» rispose Mario.

«Come sarebbe a dire niente? Si è rotto qualcosa? Una distorsione? Ah, Dio mio! Bisogna sempre stare così attenti! Questa estate, senza andare tanto lontano» continuò Joyce: le si erano illuminati gli occhi, «un'amica della mia Winnie... be', immagino sappia che Winnie è stata ammessa all'Università dell'Iowa. Sono così orgogliosa di lei: si figuri, va già all'università, e pensare che è ancora una bambina... Insomma, come le dicevo, questa estate un'amica di Winnie...»

Joyce era la segretaria del capo del dipartimento: una donna matura, con i capelli talmente biondi da sembrare ossigenati, occhi senza sopracciglia; era alta almeno un metro e novanta e pesava più di centoventi chili: tutto ciò le conferiva un aspetto da cetaceo; gli indumenti infantili che era solita indossare (vestiti a fiori con volant, nastri di seta nei capelli e alla cintola, gonne a campana, scozzesi, plissettate) e le code di cavallo sbarazzine, nonché l'abitudine di percorrere i corridoi del dipartimento dondolando come un vagone della metropolitana e canticchiando filastrocche per bambini, contrastavano in modo stridente con la sua età e le dimensioni debordanti del suo fisico. Era vedova, e aveva una sola passione: la figlia Winnie, delle cui imprese informava puntualmente, a uno a uno, tutti i membri del dipartimento. Verso la fine dell'anno precedente, tuttavia, aveva fatto un'eccezione: il giorno in cui Winnie le aveva comunicato di essere stata ammessa all'Università dell'Iowa, Joyce si era piazzata davanti alla porta dell'ascensore, al quarto piano, annunciando la notizia a squarciagola, in un tono vagamente radiofonico. Più tardi, quando gli agenti della sicurezza interna, chiamati da qualcuno che aveva denunciato la presenza di una predicatrice fondamentalista che stava mettendo in subbuglio la facoltà, erano venuti ad arrestarla, Scanlan era dovuto intervenire per chiarire il malinteso.

«Mi scusi se la interrompo, Joyce» tagliò corto Mario, bloccando la logorrea della segretaria; poi, con la sensazione di formulare una domanda che sarebbe rimasta senza risposta, aggiunse: «Ho una certa fretta.

Potrebbe farmi il favore di spiegarmi cosa ci fa il professor Berkowickz nel mio studio?»

Joyce parve molto delusa: le si spensero gli occhi. Rispose in tono irritato.

«Ah, quello» disse girandosi per tornare a sedersi alla scrivania. «Il professor Scanlan vuole parlare con lei. Magari glielo chiarirà lui. Io mi limito a obbedire agli ordini» concluse sorridendo in un modo che Mario giudicò stupido e anche inquietante.

Bussò alla porta dello studio di Scanlan.

«Avanti» sentì dire.

Aprì; Scanlan si alzò e andò a stringergli la mano. Si interessò della caviglia, chiese come fosse avvenuto l'incidente. Poi lo invitò a sedersi su una delle poltroncine di pelle scamosciata disposte davanti alla scrivania; disse: «Lasciami finire di firmare queste carte e sono subito da te».

Scanlan dirigeva il dipartimento da diversi anni, con pugno di ferro, unendo una notevole capacità amministrativa al prestigio accademico abilmente costruito, sfruttando mezzi più politici che intellettuali, nel corso degli anni. Era un uomo di una certa età, alto, esageratamente magro, dai modi sofisticati e cortesi, quasi melliflui; i capelli, bianchi e schiacciati alla base del cranio e sulle tempie, si prolungavano in una barbetta grigia da capra; gli occhi, simili a pesci in un acquario, si muovevano inquieti dietro le lenti degli occhiali. Si vestiva con un'eleganza non scevra da una calcolata stravaganza.

«Joyce mi ha detto che voleva parlare con me» dichiarò Mario quando Scanlan mise da parte i fogli che aveva firmato.

«Be', non c'era alcuna fretta» disse Scanlan sorridendo con tutti i denti. «In realtà è una questione di poca importanza. Possiamo parlarne un altro giorno con calma.»

«Comunque sia» disse Mario, «preferirei farlo adesso.»

Scanlan abbassò lo sguardo, si sistemò sulla poltrona, cambiò postura, riordinò con fare pensoso i fogli che aveva appena firmato, si accarezzò la barba; quando rialzò lo sguardo, i pesci si agitavano inquieti dietro le lenti degli occhiali.

«Hai ragione, meglio farlo subito» ammise; il tono di voce si era alterato. «Non si può rimandare a un altro momento. Consentimi di andare dritto al sodo.»

«La prego» disse Mario.

 

«Come suppongo tu sappia» cominciò Scanlan in tono neutro, «il dipartimento sta attraversando un brutto periodo dal punto di vista economico. In realtà non solo il dipartimento: tutta l'università è con l'acqua alla gola. Le sovvenzioni statali all'istruzione sono state ridotte del cinque per cento rispetto all'anno precedente e noi, in quest'ultimo mese, ci siamo visti costretti ad affrontare una serie di spese e a prevederne altre che rendono critica la situazione. Ti risparmio i dettagli: le circostanze non differiscono essenzialmente da quelle che ho descritto nell'ultima riunione tenutasi in giugno; se qualcosa è cambiato, è solo in peggio. Ignoro se le elezioni potranno migliorare il panorama; quello che so, è che l'attuale situazione non induce all'ottimismo. A me, ovviamente, non resta che lottare e, credimi, non è un compito facile: la priorità è salvaguardare gli interessi generali del dipartimento, anche a costo di sacrificare qualche interesse personale. Bene.» Fece una pausa, si

passò la mano destra tra i capelli, si accarezzò la barba, e riprese a parlare con lo stesso tono di voce: «D'altra parte, come indubbiamente saprai, siamo riusciti a ingaggiare un professore del prestigio di Daniel Berkowickz. Devo ammettere che non è stato facile. In tutta confidenza: ho temuto fino all'ultimo di non farcela, perché poneva condizioni a dir poco proibitive. E non ti nascondo nemmeno di non aver risparmiato energie per andare incontro alle sue proposte; come capirai, non esagero se definisco straordinario il fatto di poter contare nel nostro dipartimento sulla presenza di un uomo che non solo possiede un invidiabile curriculum, ma è all'avanguardia nella ricerca linguistica. Oltre ad attirare finanziamenti per il dipartimento, sono anche convinto che Berkowickz rappresenterà uno stimolo inestimabile per tutti, compresi quelli che pubblicano un articolo ogni cinque anni su riviste di terz'ordine».

Avendo previsto quell'allusione, Mario la incassò senza battere ciglio; si limitò a sistemare con un dito gli occhiali che erano scivolati sul naso e, sentendo un formicolio al braccio destro, lo liberò dalla pressione della stampella. Quando riprese a udire la voce di Scanlan si chiese se avesse smesso di parlare mentre lui cambiava posizione.

«E finalmente ce l'abbiamo qui.»

«Che cosa?»

«Non capisco.»

«Cos'è che abbiamo qui?» insistette Mario.

«Il professor Berkowickz, ovviamente» chiarì Scanlan con una certa benevolenza, senza dar segno di aver colto il momentaneo disorientamento di Mario; proseguì: «Per questo abbiamo dovuto fargli un'offerta che non esito a definire attraente. Anche in questo caso ti risparmio i dettagli superflui e riassumo: tra le altre cose, gli abbiamo garantito un minimo di tre corsi semestrali. Come puoi capire, questo avrà ripercussioni dirette su di te; la tua situazione cambierà, ma sono certo che saprai accettare il sacrificio per il bene del dipartimento.»

«Non saprei» si accorse di aver detto Mario. «Vada al sodo.»

Scanlan parve infastidito. Spiegò: «In questo momento siamo in condizioni di offrirti soltanto un corso a semestre. Ciò significa che il tuo stipendio si ridurrà a un terzo di quello che prendevi prima. Ovviamente devi tener conto del fatto che sono aumentate le imposte: questo avrà ripercussioni su tutti. D'altro canto, non va scartata l'ipotesi che, se il numero di studenti ce lo consente, potremmo a un certo punto - non durante questo trimestre, ovvio - aprire un nuovo corso; naturalmente, quel corso sarebbe assegnato a te. Inoltre, potrai sempre fare domanda per una delle borse di ricerca che mette a disposizione l'università, oppure per uno dei posti in amministrazione che l'ufficio del rettore assegna solitamente tramite concorso, anche se temo che per il momento siano tutti occupati. Inutile dirti che puoi contare sull'appoggio del dipartimento e, se ce ne fosse bisogno, anche sul mio aiuto personale».

Mario non badò all'ultima frase del discorso di Scanlan. Batté più volte le palpebre. Cercò di riordinare le idee; imponendosi una fermezza posticcia, cominciò:

«Senta, Scanlan, nel mio contratto ce scritto che il dipartimento. ..»

«Mario» lo interruppe Scanlan in tono gentile, «non rendermi le cose ancora più difficili. Voglio credere che tu sia cosciente di non trovarti nella posizione per poter esigere nulla: se fin qui abbiamo potuto offrirti tre corsi è perché avevamo tre corsi disponibili; ora la situazione è cambiata. In quanto al tuo contratto, non costringermi a dirti che in pratica è carta straccia: mi è costato non poco tenerti qui, sopportando tutte le pressioni che ho ricevuto nel corso del tempo. Ti assicuro che puoi ritenerti fortunato se al ritorno dalle vacanze non hai trovato il contratto annullato.»

Mario batté ancora le palpebre; balbettò qualcosa che Scanlan non sentì, o finse di non sentire.

«Immagino non ci sia bisogno di ricordarti che qualsiasi azione legale sarebbe controproducente» aggiunse Scanlan. «Ti ritroveresti sbattuto fuori seduta stante.»

«Branco di farabutti» mormorò Mario in italiano.

«Come dici?» chiese Scanlan.

Mario cancellò la frase con un gesto. Scanlan sospirò.

«Insomma» disse, «è solo questione di stringere la cinghia per un po'. Sono sicuro che al più tardi in primavera, se non dopo le elezioni, le cose cambieranno.»

Mario si alzò per uscire. Perplesso, si rese conto di non provare risentimento: lo pervadeva una strana calma, come se nulla di ciò che aveva appena sentito potesse in realtà ferirlo, o come se, anziché essere successo a lui, glielo avessero raccontato. Ecco perché non si stupì granché per il tono di voce affettuoso di Scanlan.

«Spero che tu venga a casa mia stasera» disse tutto allegro. «A Joan farebbe piacere rivederti. Alle cinque.»

«Ma certo» rispose Mario senza pensarci. «Ci sarò.»

Uscendo dall'ufficio rifletté: "Devo essere impazzito. Scanlan mi ha praticamente sbattuto in mezzo alla strada e io andrò alla sua festa. E anziché protestare, sto zitto. Sono diventato pazzo". (…)







Brano tratto dal romanzo Il nuovo inquilino, Guanda editrice, Parma, 2011. Traduzione di Pino Cacucci.




Javier Cercas

Javier Cercas (Ibahernando, 1962) è uno scrittore e saggista spagnolo, dal 1989 docente di letteratura spagnola presso l'Università di Gerona.





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