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Sagarana SMARRIMENTO


Brano tratto dal romanzo I giorni dell’abbandono


Elena Ferrante


SMARRIMENTO



(..) A quel punto avvertii un urto alle narici, per un attimo pensai che il naso mi stesse di nuovo sanguinando. Capii presto che avevo scambiato per un'impressione tattile quella che era una ferita dell'olfatto. Si stava diffondendo per casa una spessa aria mefitica. Pensai che Gianni stesse davvero male, mi tirai su, tornai nella sua camera. Ma il bambino dormiva ancora, malgrado il ricambio assiduo di monete sulla fronte a opera della sorella. Allora mi mossi piano per il corridoio, con cautela, verso lo studio di Mario. La porta era socchiusa, entrai.

Il malodore veniva da lì, l'aria era irrespirabile. Otto giaceva su un fianco, sotto la scrivania del suo padrone. Quando mi avvicinai, ebbe una sorta di lungo brivido in tutto il corpo. Grondava bava dalle fauci ma gli occhi restavano quelli di un lupo buono, anche se mi sembrarono bianchi, come sbiaditi da una scolorina. Una chiazza nerognola gli si allargava a lato, melma scura venata di sangue.

In un primo momento pensai di arretrare, uscire dalla stanza, chiudere la porta. Fui incerta a lungo, prendere atto di quel nuovo incongruo serpeggiare della malattia per la mia casa, cosa stava succedendo. Alla fine decisi di restare. Il cane giaceva muto, non lo segnava più lo spasimo, adesso aveva le palpebre abbassate. Sembrava essersi immobilizzato in un'ultima contrazione, come se fosse caricato a molla, identico ai vecchi giocattoli di metallo di una volta, pronti ad animarsi all'improvviso, appena col dito si abbassava una levetta.

Piano piano feci l'abitudine all'odore offensivo della stanza, lo accettai al punto che in pochi secondi la sua patina si lacerò in più tratti e cominciò ad affluire un altro odore, per me più offensivo ancora, quello che Mario non s'era portato via e che stazionava lì, nel suo studio. Da quando non entravo in quella stanza? Dovevo obbligarlo al più presto, pensai con rabbia, a levarsi del tutto dall'appartamento, a raschiarsi via da ogni angolo. Non poteva decidere di lasciarmi e tuttavia trattenere in casa la traspirazione dei suoi pori, l'alone del suo corpo, così forte da spezzare persino il sigillo mefitico di Otto. Del resto - mi resi conto - era stato quell'odore a dare al lupo le energie per abbassare la maniglia con una zampata e, scontento anche lui di me, trascinarsi fin sotto la scrivania, in quella stanza dove le tracce del suo padrone erano più forti e promettevano di essere un lenimento.

Mi sentii umiliata, ancora più umiliata di quanto non mi fossi sentita in quei mesi. Cane senza gratitudine, io me ne occupavo, io ero rimasta con lui senza

abbandonarlo, io lo portavo fuori per i suoi bisogni, e lui, adesso che si stava trasformando in terreno di piaghe e sudore, andava a cercare conforto tra le tracce olfattive di mio marito, l'inaffidabile, il traditore, il fuggiasco. Resta qui solo, pensai, te lo meriti. Non sapevo cosa avesse, non m'importava nemmeno, era anche lui un difetto del mio risveglio, un evento incongruo di una giornata che non riuscivo a ordinare. Arretrai con rabbia verso l'uscita, in tempo per sentire Ilaria alle mie spalle che chiedeva:

«Cos'è questa puzza?».

Poi intravide Otto sdraiato sotto la scrivania e chiese: «Anche lui sta male? Ha mangiato il veleno?».

«Che veleno?» chiesi chiudendo la porta.

«La polpetta avvelenata. Papà lo dice sempre che bisogna stare attenti. Le mette per il parco il signore del piano di sotto che odia i cani».

Provò a riaprire la porta, in apprensione per Otto, ma io le impedii di farlo.

«Sta benissimo» dissi, «ha solo un po' di mal di pancia».

Mi guardò con molta attenzione, tanto che pensai che volesse capire se le dicevo la verità. Invece mi domandò:

«Mi posso truccare anch'io come ti sei truccata tu?».

«No. Bada a tuo fratello».

«Badaci tu» ribatté seccata e tirò diritto verso il bagno.

«Ilaria, non toccare i miei trucchi».

Non rispose e la lasciai perdere, lasciai cioè che si perdesse oltre la coda del mio occhio, nemmeno mi girai, andai a passi strascicati in camera da Gianni. Mi sentivo sfinita, persino la voce mi pareva più un suono della mente, che una realtà. Gli tolsi le monete di Ilaria dalla fronte, gli passai la mano sulla pelle secca. Scottava.

«Gianni» lo chiamai, ma lui seguitò a dormire o a fingere di dormire. Aveva la bocca socchiusa, le labbra infiammate come una ferita rosso fuoco in fondo alla quale brillavano i denti. Non sapevo se toccarlo ancora, se baciargli la fronte, se provare a svegliarlo con un lieve scrollone. Respinsi anche la domanda sulla gravità del suo malessere: un'intossicazione, un'influenza estiva, l'effetto di una bevanda gelata, una meningite. Tutto mi sembrava possibile, o impossibile, e comunque facevo fatica a formulare ipotesi, non sapevo stabilire gerarchie, soprattutto non riuscivo a entrare in allarme. Invece ora mi spaventavano i pensieri in sé, non avrei voluto più averne, li sentivo infetti. Dopo aver visto lo stato di Otto, temevo ancor più di essere il canale di ogni male, meglio evitare contatti, Ilaria, non dovevo sfiorarla. La cosa migliore era chiamare il nostro medico, un anziano pediatra, e il veterinario. L'avevo già fatto? Avevo pensato di farlo e poi me ne ero dimenticata? Chiamarli subito, la norma era quella, rispettarla. Anche se mi infastidiva agire come aveva sempre agito Mario. Ipocondriaco. Si preoccupava subito, chiamava i medici per un nonnulla. Papà sa - mi avevano segnalato del resto i bambini - sa che il signore del piano di sotto mette polpette avvelenate nel parco; sa cosa si fa con la febbre alta, col mal di testa, coi sintomi del veleno; sa che ci vuole un medico, sa che ci vuole un veterinario. Se fosse stato presente - sussultai - avrebbe chiamato un medico innanzitutto per me, quella mattina. Ma poi mi ritrassi subito da quell'idea di sollecitudine attribuita a un uomo al

quale non sollecitavo più alcunché. Ero una moglie obsoleta, un corpo dismesso, la mia malattia è solo vita femminile che va fuori uso. Mi diressi con decisione al telefono. Chiamare il veterinario, chiamare il medico. Alzai il ricevitore.

Lo abbassai subito con stizza.
Dov'ero con la testa.
Riprendermi, riafferrarmi.

Il ricevitore dava il solito soffio di bufera, niente linea. Lo sapevo e facevo finta di non saperlo. Oppure non lo sapevo, non avevo più memoria prensile, non ero più capace di apprendere, di conservare l'apprendimento, e però fingevo di essere ancora capace, fingevo e sfuggivo alla responsabilità dei miei figli, del cane, con la pantomima fredda di chi sa e fa. (…)







Brano tratto dal romanzo I giorni dell’abbandono, edizioni e/o, Roma, 2002.





Elena Ferrante è lo pseudonimo di una scrittrice o scrittore (c'è infatti chi crede che dietro la sua penna possa nascondersi addirittura un uomo, tra i nomi papabili emergono quelli di Domenico Starnone e Goffredo Fofi) di cui si ignora la vera identità. Di lei si sa solo che sarebbe nata a Napoli, città che avrebbe abbandonato presto per vivere all’estero, in Grecia. Qualcosa in più sul suo conto possiamo ipotizzarlo basandoci sulle storie delle protagoniste dei suoi romanzi e assumendo che queste siano tratte da episodi a lei realmente accaduti. Dal suo primo romanzo, L'amore molesto, edito nel 1992, vincitore del premio Procida Isola di Arturo-Elsa Morante, del premio Oplonti d'argento e selezionato al Premio Strega e al premio Artemisia, è stato tratto l’omonimo film di Mario Martone, in concorso al 48º Festival di Cannes. Dal romanzo successivo, I giorni dell'abbandono, edito nel 2002 e finalista al Premio Viareggio, è stata realizzata la pellicola di Roberto Faenza, in concorso alla 62ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. Nel volume La frantumaglia, edito nel 2003, racconta la sua esperienza di scrittrice. Nel 2006 viene pubblicato il romanzo La figlia oscura, da cui nel 2007 la scrittrice ha tratto spunto per il racconto per bambini La spiaggia di notte. Nel 2011 è stato pubblicato il primo volume del ciclo L'amica geniale, seguito nel 2012 dal secondo volume, Storia del nuovo cognome e nel 2013 dal terzo, Storia di chi fugge e di chi resta. Nel 2012 le Edizioni E/O hanno riunito i primi tre romanzi della scrittrice (L'amore molesto, I giorni dell'abbandono, La figlia oscura), accomunati dal tema di un amore negativo, traumatico e destabilizzante, in un unico volume, Cronache del mal d'amore.





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