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Sagarana LA GIGANTESSA


Brano tratto dal romanzo I milanesi ammazzano al sabato


Giorgio Scerbanenco


LA GIGANTESSA



(…) Vi sono nel mondo centinaia di famiglie, forse migliaia, decine di migliaia, che si tengono in casa figli malati di mente o deformi, focomelici, epilettici, o con perversioni sessuali, dementi. Se li tengono in casa, specialmente se sono povere famiglie, poveri genitori, o di media agiatezza, i ricchi di solito li chiudono nelle cliniche, loro invece nascondono in casa quella che in fondo considerano, oltre che una disgrazia, una vergogna, imboccano giovanotti di venti anni che fanno ancora la pipì a letto, portano in carrozzella mongoloidi ottusi di dodici anni che pesano cento chili e non sanno ancora camminare; si dissanguano per tenere nascosta la disgrazia, per ammorbidirla, per farla apparire agli amici, e ai vicini e conoscenti, come una malattia un po' lunga, o una cosa normale anche se triste. E quel vecchio e "sua povera moglie", dovevano aver fatto così, fino ai ventotto anni della ragazza, finché la ragazza non se ne era andata.

"Chi è il medico che curava sua figlia?" disse Duca.

"Il professor Fardaini," disse subito il padre, non tanto con orgoglio, quanto con tono di voce di uno che afferma di aver fatto tutto il suo dovere.

E lo aveva certamente fatto, pensò Duca. Giovanni Fardaini era il miglior psichiatra, neurologo, endocrinologo, biologo e altro d'Italia, aspettava da qualche anno il premio Nobel, e glielo avrebbero dato ben presto, ed era anche uno dei più cari specialisti esistenti in Europa, e dove quel vecchio, che non aveva l'aria di un petroliere o di un Rockefeller, avesse potuto trovare i soldi per pagare un Fardaini, lui, Duca, preferiva non chiederselo. Ci sono vecchie, aristocratiche, impoverite signore che rubano al supermercato per nutrire il loro morente gatto rognoso.

"E che cosa ha detto il professor Fardaini della malattia di sua figlia?" disse Duca.

Il vecchio si mise una mano sulla fronte, così si nascose gli occhi. "Diceva sempre una parola."

"Che parola?"
 
"Elefantiasi," disse quello oltre la tavola.

Duca accennò di sì. Elefantiasi. Elefantiasi era un termine generico. Certamente il professor Fardaini, nella sua diagnosi, doveva aver aggiunto molte altre specificazioni dottissime, ma il povero uomo ricordava solo "elefantiasi" che l'aveva colpito, perché evidentemente gli ricordava gli elefanti visti al giardino zoologico. Elefantiasi, così, questo termine da solo, non significava nulla. Era inutile fare domande tecniche, da medico, a quell'uomo. Gli chiese solo: "Quanto pesa sua figlia?"

Gli occhi grigi nel fondo cavo orbitale scintillarono sorpresi, poi l'uomo parve comprendere il motivo della domanda e rispose subito, informatissimo, perché era informato di ogni minuzia di sua figlia, del male di sua figlia: "Novantacinque chili."

"E quanto è alta?" chiese Duca.

La risposta fu immediata eppure come forzata, come di qualcuno che confessa cosa non addicevole: "Un metro e novantacinque."

Ancora Duca accennò di sì. Per il peso ci sono molte donne che arrivano ai novantacinque chili, ma per l'altezza non sono molte le donne che raggiungono il metro e novantacinque. Chiese al vecchio: "Sua figlia ha qualche sproporzione, non so, un braccio più corto dell'altro, una gamba molto grossa e una sottile, qualche dito mancante?"

L'uomo scuoteva il capo a ogni indicazione e poi l'interruppe: "Mia figlia è bellissima." Dal portafoglio, quasi con furia, levò diverse fotografie, formato seisei. "Guardi, gliele ho fatte io, l'ho sempre fotografata io, fin da quando è nata, ho la passione della fotografia," gli metteva davanti le fotografie come carte da gioco, la voce densa, liquorosa di tenerezza e di orgoglio che sua figlia fosse così bella.

Bellissima. Duca sfogliò, una dopo l'altra, come carte da gioco, le fotografie, bellissime anche tecnicamente: un dolcissimo viso di giovane donna, un viso da bellezza svedese, con un profilo da statua romana, per niente grasso, anzi come smagrito perché i novantacinque chili di peso si perdono ovviamente in uno e novantacinque di altezza. Meravigliosi i lunghi capelli biondi di un cinereo, quasi impossibile biondo. Guardando quel primo piano, quella carta da gioco con una regina di tale inaspettata bellezza, Duca domandò: "I capelli sono colorati dal parrucchiere, o sono suoi?"

"Suoi, suoi, brigadiere," disse caldo il vecchio, "non usciva mai, neppure accompagnata, la guardavano tutti, veniva dietro la gente a darle noia, figuriamoci se potevamo portarla dalla parrucchiera, era mia povera moglie e mia povera cognata che la curavano, ma i capelli sono così, quel colore, e così lunghi, perché io non ho mai voluto farglieli tagliare."

Duca prese un'altra foto, questa era a figura intera, la ragazza stava in piedi vicino a un divano, da una grande finestra una luce chiarissima e dolce la illuminava chiaramente e dolcemente in tutta la sua plastica e marmorea bellezza, faceva subito sorgere l'idea di quei floreali monumenti, in cui la Libertà dal bronzeo seno scoperto, dal basso appena velato da un bronzeo velo, stringe in pugno una bandiera di bronzo, fluttuando su un basamento di bersaglieri di bronzo in carica col loro lungo fucile della prima guerra mondiale proteso in avanti.

Una terza fotografia. Era in costume da bagno, un pezzo solo, su una spiaggia deserta.

"D'estate la portiamo al mare," spiegò l'uomo dietro la scrivania. "Sa, è una cosa un po' complicata, ma abbiamo trovato una spiaggetta vicino a Comacchio, dove non c'è ancora nessuno, solo una casa di pescatori contadini che è proprio lì, quasi sulla sabbia, così che quando arriva qualcuno la portiamo subito in casa di quei contadini."

Il corpo della ragazza era qualche cosa di più e di diverso da quello di una gigantesca scultura, nessuna scultura può avere l'armonia e la proporzione di un corpo umano, specialmente se femminile, quando questo corpo ha armonia. Ma la ragazza della foto aveva la massima perfezione di armonia che corpo umano possa avere, solo le spalle, un poco troppo arcuate, lontanamente ortopediche, erano un soffio lontano da quell'armonia, ma in un certo senso ne aumentavano però la bellezza.

"Perché la tenevate così nascosta?" domandò Duca. "E' una ragazza un po' alta, un po' grande, ma non è un fenomeno, vi sono delle giocatrici di pallacanestro grandi quasi come lei."

Il vecchio abbassò il capo. "Perché," disse, e si fermò di colpo.

 

 

 

Duca attese molto, poi domandò: "Perché?"

Il vecchio rialzò il capo, si passò la lingua sulle labbra. Disse: "Perché guardava gli uomini. Avremmo potuto portarla fuori a passeggio," cominciò a spiegare pazientemente quella vergogna, "certo l'avrebbero guardata, così alta come era, così grande, ma accompagnata da mia povera moglie o da me, si sarebbe potuto portarla fuori. Qualche volta abbiamo tentato, ma era impossibile."

Duca attese, ma l'altro non parlava più. Allora disse: "Perché era impossibile?"

Pronto nell'esporre la sua vergogna fino all'ultima stilla l'uomo disse: "Perché guardava gli uomini che passavano per la strada e sorrideva. C'erano già tutti gli uomini che guardavano lei, e figuriamoci cosa succedeva quando lei ne guardava uno e sorrideva. Una volta abbiamo dovuto correre, mia povera moglie, io e la bambina, in una merceria, perché c'erano tre giovinastri che ci erano venuti appresso, come lupi, io allora avevo dato una spinta a uno dei tre, ma gli altri allora stavano per saltarmi addosso e mia povera moglie mi tirò per un braccio dentro la merceria, se no chi sa cosa succedeva. Da quella volta non abbiamo più fatto tentativi."

Duca immaginò facilmente la scena: una ragazza alta uno e novantacinque, più bella della più bella statua della Vittoria, alata o no, con dietro un branco di piccoli latin lovers, tra cui del focosissimo sud, che la circondavano, cioè circondavano la vivente statua della Vittoria, del tutto noncuranti che quella statua fosse accompagnata da madre e padre, e anzi pronti, preparatissimi, a picchiare madre e padre, pur di avvicinare la gigantessa, circuendola in giri sempre più stretti, come a un safari intorno a un leone.

"Il dottore dice che è una malattia," riprese d'improvviso la cespugliosa voce. "La mia bambina è una ragazza onesta, ma è malata, è una malattia, quella lì, che guarda tutti gli uomini, sorride, e qualunque cosa le dice un uomo, lei dice di sì."







Brano tratto dal romanzo I milanesi ammazzano al sabato, Garzanti editrice, Milano, 1969.




Giorgio Scerbanenco

Giorgio Scerbanenco (1911-1969), nato a Kiev, a 16 anni si stabilisce a Milano; per guadagnarsi da vivere fa molti mestieri finché non approda al mondo dell'editoria. Dopo aver scritto migliaia di racconti "rosa", si dedica al "poliziesco", e nel 1968 vince l'ambitissimo "Gran Prix de la littérature policière". Fra i titoli di maggiore successo Venere privata, Traditori di tutti, Al servizio di chi mi vuole, La ragazza dell'addio e Milano calibro 9.





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