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Sagarana UN BUON RAGAZZO


Brano tratto dal romanzo inedito La collégienne


Marouba Fall


UN BUON RAGAZZO



(…) È un momento delicato quello in cui l’uomo si trova solo di fronte alla donna e non sa da dove iniziare la conversazione. Cerca nella moltitudine dei vocaboli che gli si affacciano alla mente e che gli bruciano le labbra, e ha l’impressione che nessuno di loro sia adatto per esprimere con esattezza quello che lui invece sente molto chiaramente dentro se stesso. Senza dubbio è uno dei momenti in cui l’uomo comprende la vanità delle parole, la relativa inutilità di ogni lingua che, in definitiva, avvicina solo apparentemente due persone che si sono incontrate, che si sono riconosciute, che si sono cercate e si sono ritrovate, che hanno capito che l’uomo è il solo rimedio dell’uomo.

Per la donna seduta davanti a un uomo, come per l’uomo seduto davanti a lei, c’è una sola verità, che rivelando la comunanza del loro destino, unisce i fili di Adamo ed Eva, e rompe la torre della solitudine dove ognuno di loro cova orgoglio, egoismo e odio. Questa verità è, aldilà del desiderio carnale e degli interessi particolari, saper riconoscere una parte di sé in ogni essere umano, quali che siano il sesso, la casta, la religione e la razza.

Ouly posò il bicchiere e si alzò bruscamente.
“Dove vai?” chiesi stupito.
“Torno a casa”, rispose seccamente.
“Perché?”
“Vedo che ti do fastidio.”
“Per niente.”

“Da quando sono entrata, hai l’aria di uno infastidito. Non mi parli neppure.”

“Che vuoi che ti dica che non sai già, Ouly?”

“Quello che capisco, l’ho indovinato. Ma non basta. Mi serve una conferma”, ribatté veemente.

“Una conferma?”

“Non so nulla, in verità, dei tuoi sentimenti, né dei tuoi progetti.”

L’uomo ha comunque bisogno di parole, del linguaggio, per dare consistenza ai suoi pensieri, ai suoi sogni e anche alle sue certezze.

“Ouly, ho paura di parlare troppo presto. Non so cosa ci riserverà l’avvenire.”

“Nessuno lo sa! Tutti abbiamo quindi il diritto di volere e di sognare. Se poi il desiderio non verrà esaudito… pazienza! Pazienza se il sogno non si realizza!”

“Forse hai ragione, ma…”
Mi interruppe improvvisamente:
“Non ci sono «ma», Professore.”
La fermai subito:
“Non siamo in classe, Ouly.”

“Non potrei mai chiamarti con il tuo nome. È più forte di me, professore,” disse ridendo.

Rise ancora più forte rendendosi conto del suo errore recidivo. Per Abissatou e anche per Mère Soukaina, ero il “Signor Ndiaye” per la prima e “Moussé” per la seconda, l’uomo senza nome. Avevo protestato invano.

Ouly rinunciò ad andarsene e si sedette di nuovo. Facendo finta di interessarsi al “Soleil”, le cui pagine erano sparpagliate dietro di me, si trovò presto accanto a me, sul letto.

In quell’istante sentimmo bussare alla porta. Ouly ebbe a malapena il tempo di allontanarsi da me. Senza aspettare il convenzionale “Avanti”, mio padre fece interruzione in camera. Il suo viso si oscurò non appena vide Ouly.

“Chi è questa ragazza?” chiese squadrandola da capo a piedi.

“È un’amica.”

“Ah, ah!” Rise sardonico. “Un’amica? Chi vuoi prendere in giro? Ti ho colto sul fatto! Ecco il motivo per cui ti sei allontanato dalla mia vigilanza, fare lo scellerato!”

Ebbi la forza di trattenere la rabbia. Nell’arco di qualche secondo, Ouly ebbe il viso invaso da abbondanti gocce di sudore; abbassò la testa sotto il peso della mortificazione, poi si alzò e uscì traballante, con gli occhi gonfi di lacrime. Feci un movimento per trattenerla ma poi desistei.

Mio padre si sedette di fronte a me e tossì. Era così che si schiariva la voce quando si apprestava a fare uno dei suoi sermoni, prolissi e monotoni. Dato che non avevo il coraggio di sopportare un monologo di cui conoscevo sin troppo bene il contenuto, lo anticipai:

“Se sei qui per tornare al problema di cui abbiamo discusso l’altro ieri, ti dico subito che è inutile.”

“Inutile? Sussultò.”

In fondo alle orbite cavernose, i suoi occhi minuscoli fiammeggiarono. L’indice puntato verso di me, gridò:

“Impertinente! Vuoi almeno ascoltarmi prima di dire delle baggianate?”

“Non sei forse venuto per parlarmi di Penda?”

Mi osservò a lungo e scosse la testa. Credetti per un momento che mi avrebbe maledetto e che se ne sarebbe andato, non era affatto un uomo che si lasciasse disarmare così facilmente. Si accontentò di arrotolarsi le maniche del sabador e tirò su col naso. Poi, sentendo che non gli sarebbe servito a niente sbottare di collera, disse con una voce che rese più dolce possibile:

“Mar, sono tuo padre e voglio il tuo bene. Lo sai?”
“Sì.”

“Allora perché non vuoi seguirmi? Non sei più un bambino. Se indossassi il mio boubou, non sarebbe né troppo largo né troppo lungo per te. Se calzassi le mie babbucce, ti andrebbero come se fossero fatte per i tuoi piedi. Sei un uomo. E un uomo, per essere utile alla comunità ed essere rispettato dai suoi simili, deve avere una compagna. O la può trovare cercandola tra la famiglia.”

“Non sono del tuo avviso.”
“Non dire così.”
“I tempi sono cambiati.”

“In meglio o in peggio? Eh? Rispondi! Il mondo ha perduto il viso del passato, è vero. È diventato come la donna che si mette la polvere rossa in viso per diventare bianca come i bianchi ma in realtà non è che una negra senza dignità e senza amor proprio. Il mondo avanza, è vero. Ma non è una creatura dotata di vita, di piedi. Sono gli uomini, che lo fanno camminare, che sono cambiati. Hanno sconvolto l’ordine antico e distrutto i valori di ieri. Tu sei mio figlio e ti consiglio di restare fedele alle tue radici. L’albero, fosse anche un baobab gigante, finisce per terra quando perde le sue radici.”

“Padre…”

“Taci, lasciami finire, figlio perduto! Puoi forse trovare una ragazza così ben educata e così degna di te come Penda?”

“Ma non la conosco neppure, non l’ho mai vista!”

“Non hai bisogno di vederla. Penda è tua cugina, è la figlia della mia sorellastra, avete la stessa origine e lo stesso sangue. Se la respingi, chi altro potrai accettare? Non certo quella bambina vestita da uomo che è appena uscita. La conosci? Sai chi sono i suoi genitori, sai forse da dove vengono e se sono puliti?”

“Padre…”
“Sappi che una moglie si sceglie.”

“Giustamente! Voglio essere io a scegliere la mia domani. Tu invece vuoi impormi Penda perché è mia cugina.”

“Pretendi di poter scegliere una moglie tra le donne che hai incontrato per caso in questa città che è un crogiolo di etnie, di razze, di gruppi umani provenienti da ogni parte del mondo?”

Mio padre era originario del villaggio di Ndogal, situato a una decina di chilometri da M’Pal. Fervente musulmano, era anche molto attaccato ai costumi tradizionali. Non pensava niente e non diceva una parola senza rifarsi all’epoca in cui il mondo non era ancora corrotto, quando tutto era al posto giusto: i vecchi prima dei giovani, le donne dietro agli uomini e tutti i membri della comunità che adoravano lo stesso dio, condividevano le stesse gioie e le stesse pene. Il suo lungo soggiorno a Dakar dove il vento dell’esodo l’aveva condotto e impiantato dalla fine della Seconda Guerra Mondiale non era riuscito a cambiarlo, al contrario sembrava aver esacerbato il suo fanatismo conservatore, permettendogli di confrontare il mondo di ieri e quello di oggi: uno armonioso, sorretto da un’etica e regole precise a cui tutti aderivano, l’altro somigliante a un caos in cui l’uomo è regredito allo stato animale.

Mio padre, quando cominciava a parlare, a poco a poco si scaldava e non si fermava più. Le frasi allora s’incatenavano le une alle altre, e il discorso si sviluppava, scorreva come un corso d’acqua, trasportando prosopopee, immagini pittoresche, sura del Santo Corano e hadith del Profeta, evolveva in arabeschi sconcertanti prima di arrivare immancabilmente a una conclusione senza via di scampo, netta e perentoria.

Terminò così:

“Un buon ragazzo non ha il diritto di affidarsi a un gioco d’azzardo quando si tratta di una cosa così seria come il matrimonio, che riguarda tutta la sua esistenza, quella di tutti i suoi cari in larga misura e soprattutto quella dei bambini che nasceranno.”

Scelsi la strada del silenzio.

Per dare ancora più peso a quello che aveva appena detto, mio padre aggiunse:

“Se tua madre fosse ancora viva, direbbe quello che ti ho detto.”

“Non parlare di mia madre!”, protestai io.
S’intestardì:

“Ti dico che se fosse ancora qui, sarebbe assolutamente d’accordo con me.”

“È morta di dolore ed è colpa tua.”

Indietreggiò, la mano sul petto, il viso contratto in una smorfia di dolore.

“Io? Sei impazzito, Mar? Chi te lo ha detto?”

“Lo so”, replicai non senza cinismo. “Le preferivi Ndoumbé, la tua seconda moglie e l’avevi lasciata. Eri persino sul punto di rispedirla al villaggio quando Dio la chiamò a sé.”

“Come puoi saperlo? Eri così piccolo”, si difese.

“Non così piccolo come dici. E inoltre un bambino, a qualsiasi età, sa o sente queste cose.”

Non sapeva più cosa dire.

Dopo che se andò, rimasi per un lungo tempo immobile, fissando un angolo della stanza, senza in realtà vedere nulla. Non so dire se sentissi più amarezza o più tristezza.

Tuttavia nelle mie orecchie risuonavano ancora le sue ultime parole, parole abusate che altri padri, in altre circostanze rivolgono sempre all’indirizzo della loro progenie quando la minima differenza li separa:

“Rimpiango di averti mandato alla scuola francese, invece di educarti ti ha riempito il cervello di sofismi. Ti ha insegnato persino a tenermi testa e a disprezzare le nostre verità!”

Quella notte faticai ad addormentarmi.







Traduzione di Chiara Candeloro.




Marouba Fall

Marouba Fall è un drammaturgo, scrittore e poeta senegalese, nato nel 1950. Insegnante di liceo attivo nella vita politica della sua città, Guédiawaye, Marouba Fall ha ricevuto onorificenze per la poesia e il teatro. Il brano proposto è tratto dal suo romanzo più famoso, La collégienne, in cui la storia d’amore tra un professore e una delle sue studentesse si scontra con la tradizione e la cultura patriarcale del Senegal.





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