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Sagarana NEL DESERTO


Brano tratto dal romanzo Non dirmi che hai paura


Giuseppe Catozzella


NEL DESERTO



(…) Ci hanno schiacciati tutti dietro, solo che questa volta era­vamo ancora più della prima. Ottantasei. Talmente stretti che vomitavamo per la mancanza d'aria. Di nuovo una jeep.

Dopo pochi chilometri nessuno parlava più, nessuno si lamentava, a nessuno veniva in mente di cantare. Il viaggio attraverso il deserto è molto più duro. Fa un caldo da poterci morire e in più l'auto avanza lenta. Mantiene una velocità costante di quaranta chilometri orari. Non frena né accelera, per non rimanere incagliata nella sabbia. Ogni cosa diventa snervante, anche respirare. È come procedere su un percorso infinito, e a passo di lumaca. A ogni metro si vede la strada aumentare anziché diminuire.

Quella tratta doveva durare quattro giorni. Aspettavamo soltanto i momenti in cui la jeep si sarebbe fermata, due vol­te al giorno. Una, con la luce, per i bisogni e per bere. L'altra, di notte, per dormire sulla sabbia. Le giornate si erano tra-sformate in un'unica, infinita attesa dilatata. Dal momento in cui ripartivi cominciavi a contare il tempo che ti separava dalla sosta successiva.

Tutt'attorno, un paesaggio lunare, in cui cielo e terra sono un'unica cosa. Si perdono i punti di riferimento. E come lan­ciarsi dentro uno specchio. Una distesa di sabbia infinita. Talmente omogenea che finisci per diventare sabbia anche tu. Non soltanto perché s'infila ovunque, e dopo pochissimo ti riempie gli occhi, la gola e i polmoni, e devi deglutire per non farla seccare nelle fauci. Presto smetti di combatterla e sem­plicemente chiudi gli occhi, stringi le mascelle e conti. Conti fino a mille, e ogni cento mandi giù quel poco di saliva che ti è rimasta, tenendo il conto con le dita. Poi fino a diecimila. Sai che quando arrivi a mille saranno passati venti minuti. Questo me l'ha insegnato Amir, un somalo, nel primo viaggio da Addis Abeba a Al Qadarif. Allora conti fino a diecimila. Sono tre ore. Quando fai tre volte diecimila è quasi il momen­to della sosta. Continuando così finisci per diventare sabbia tu stessa, perché ti vedi piccola come un granello di quella distesa bianca, o come uno dei secondi che non smetti di avere in testa, come una matta.

 
Il mio sacchetto lo tenevo infilato sotto la maglietta.

Avevamo a disposizione dieci litri d'acqua a testa per quat­tro giorni. Due litri e mezzo al giorno, che sotto i cinquanta gradi del Sahara non bastano nemmeno per qualche ora.

Ogni tanto, qualcuno prende sonno oppure sviene per la mancanza d'aria. E capitato anche a me. La donna che mi stava vicina, una vecchia somala, se n'è accorta e ha provato a svegliarmi con dei movimenti delle spalle, ma non ho reagito. Allora qualcuno che era riuscito a nascondere una bottiglia d'acqua l'ha tirata fuori. Hanno passato la voce e in qualche minuto la bottiglia è arrivata alla donna. Me ne ha versata un po' sulla testa e mi sono ripresa. Dov'era la mia forza? Dov'era la piccola guerriera delle Olimpiadi? Ero stata davvero a Pechino, o era stato tutto un sogno? La cerimonia inaugurale, io stella luminosa del firmamento dei più forti di tutto il mon­do? E Mo Farah in mezzo al campo che rideva tranquillo? Un'altra allucinazione?

 

Di sera si viaggia finché anche gli autisti non ce la fanno più. Per non farsi vedere dagli elicotteri della polizia che pattugliano il deserto, i trafficanti continuano a spegnere i fari, li usano il meno possibile. Ti trovi la notte dentro il Sahara, senza luce, schiacciata in mezzo a decine di corpi su una jeep sgangherata che va lenta come una lumaca.

Appena calava il sole sembrava di viaggiare in un incubo. Contare mi rilassava e nutriva la mia immaginazione. Ogni tanto credevo di trovarmi sull'aereo, come quando ero andata a Pechino e avevo preso il sonnifero. Come quella volta, il rumore costante del motore mi faceva sognare di essere in un infinito tunnel nero. All'improvviso aprivo gli occhi e tutto passava. Stavo andando in Cina, erano le mie Olimpiadi. L'hotel sarebbe stato bellissimo. Avrei stretto la mano a Veronica Campbell-Brown. Lei mi avrebbe guardato prima con curiosità, poi con ammirazione. Avrei corso in uno stadio enorme, davanti alle telecamere di tutto il mondo. Avrei dato il meglio di me. Alla fine tutti si sarebbero alzati ad applau­dirmi, i giornalisti del mondo intero mi avrebbero intervista­ta, la mia faccia sarebbe arrivata in ogni angolo del pianeta.

Poi un urto più forte, una sterzata improvvisa o un avval­lamento profondo, il vomito di qualcuno. Tornavo dov'ero. In un tunnel nero che c'era veramente. Chilometri e chilome­tri senza fari, guidati soltanto dal Gps.

Eravamo ottantasei, ancorati alla tecnologia di un Gps.

Non ci sono strade, nel Sahara. Non ci sono sentieri. Ogni trafficante, ogni Viaggio, segue la sua particolare rotta. La mattina i segni degli pneumatici vengono ricoperti dalla sab­bia. Cancellati per sempre. Non c'è Viaggio uguale a un altro.

Si sta per giorni nelle mani di trafficanti di uomini che a loro volta sono nelle mani di una scatoletta che comunica con un satellite.(…)

 







Brano tratto dal romanzo Non dirmi che hai paura. Feltrinelli editori, Milano, 2014.




Giuseppe Catozzella

Giuseppe Catozzella per mesi è entrato dentro la vita reale di Samia, e l'ha reinventata in una voce dolcissima. scrivendo un romanzo memorabile. Da quella voce, da quell'io leggerissimo che ci parla con fermezza e candore, si sciolgono la struggente vicenda di un'eroina dei nostri tempi, la sua fiaba, e insieme il suo destino.





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