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Sagarana LA RAPINA


Brano del romanzo Canada


Richard Ford


LA RAPINA



(…) Erano le 9.03 quando arrivarono dietro la banca. Nostro padre scese immediatamente mettendosi in testa un berretto di tela marrone, e con l’arma carica nella tasca della tuta. Lui e mia madre non si erano scambiati una parola. Entrò difilato nell’ombra della stretta traversa parzialmente lastricata che separava la banca da una gioielleria e sbucò sul marciapiede del corso. Il sole era molto più splendente e il cielo più blu, più alto, di quanto si aspettasse. Gli si annebbiò la vista: così disse poi a nostra madre. Per un attimo fu preso dal panico: non sapeva da che parte svoltare. Inoltre, la strada era più movimentata, c’era più gente di cinque minuti prima. Nostra madre scrisse che aveva quasi girato sui tacchi per tornare indietro lungo la traversa: cosa che avrebbe ancora potuto fare. Invece, decise lì per lì che tutta questa attività sarebbe stata un diversivo quando fosse venuto il momento di uscire dalla banca, cioè dopo non più di tre minuti, con una borsa piena di soldi. Non avrebbe dato nell’occhio e sarebbe potuto sparire nella traversa da cui era

venuto senza farsi notare.

Mosse sul marciapiede che scottava i pochi passi che lo separavano dalla porta di ottone e vetro molato della banca. Gli venne in mente che avrebbe dovuto mettersi gli occhiali da sole, che oltre a schermargli gli occhi sarebbero stati un buon camuffamento. Entrò direttamente nella

banca, ma mentre la porta si chiudeva alle sue spalle fece subito una pausa. Dentro faceva molto fresco, e tutto era silenzio, penombra e immobilità. Fuori era molto caldo, e c’era stato molto rumore e molto movimento. Rimase colpito dalle piccole dimensioni della banca. Ripeto, non c’era mai entrato per paura che qualcuno si ricordasse di lui.

Davanti a uno dei tre sportelli con le sbarre di ottone c’era solo un cliente, che chiacchierava attraverso la grata: una donna bionda, piccola e magra. Stava osservando la cassiera che contava le banconote da mettere in una borsa di tela che doveva essere la cassa dell’adiacente gioielleria. Nella banca c’era un odore di pulito simile a quello del lucido per i metalli, disse a mia madre, o come l’interno di un frigorifero nuovo.

A questo punto nostro padre scattò sull’attenti, trasse di tasca la calibro .45 e fece un passo verso lo sportello occupato: gli altri due erano vuoti. Rivolto alla sala, proclamò che la banca ora sarebbe stata rapinata. Da lui. Annunciò che la gioielliera e i due funzionari – uomini in grisaglia che lo fissavano sorpresi dalle scrivanie dentro la gabbia metallica dove si svolgevano le attività della banca –, come pure l’anziana guardia in uniforme seduta dietro una delle scrivanie vuote, dovevano

tutti sdraiarsi faccia in giù sul pavimento di marmo e fare solo quello che diceva lui. Se qualcuno avesse dato l’allarme, fatto rumore, cercato di alzarsi, di scappare, o fatto qualcosa d’improvviso o inaspettato, disse che li avrebbe uccisi. (Cosa che in seguito negò di avere detto.)

Questo momento – il momento del proclama, l’esibizione della pistola, gli ordini teatrali (“nessuno si muova o sparo”) – può essere stato il momento da cui nostro padre trasse davvero il massimo godimento e si sentì realizzato (poiché aveva sganciato sul Giappone un cielo pieno di bombe), quando fu preso dall’euforia perché finalmente stava facendo ciò che per tanto tempo aveva desiderato fare, sentendo non soltanto di esserselo meritato, in circostanze che andavano ingiustamente contro di lui (gli indiani, i lavori diversi, l’aviazione, mia madre), ma anche che una rapina a mano armata era un risarcimento e una soluzione soddisfacente, dato che non rubava proprio ai depositanti ma al governo, per cui aveva sacrificato molte cose, ucciso migliaia di persone, mostrato grande patriottismo, e che disponeva di infinite risorse per evitare che nessuna

persona innocente ci rimettesse un soldo, mentre lui risolveva tutti i problemi della nostra famiglia in un colpo solo.

È improbabile che questa euforia durasse a lungo. Con un occhio ai funzionari della banca e alla guardia, e prestando poca attenzione alla donna della gioielleria, che si era faticosamente inginocchiata e scansata strisciando come una serpe sul duro pavimento, mio padre fece passare la borsa di tela sotto le sbarre dello sportello, sul banco di marmo, e ordinò all’impiegata di vuotare i tre cassetti del contante, più il denaro che la gioielliera doveva ancora ricevere ma che era stato appena contato, nella borsa: e di farlo in fretta e senza parlare. Fu a questo punto, mentre la cassiera metteva i pacchetti di banconote nella borsa, abbastanza grande per contenere una palla da bowling, che uno dei due funzionari – un azzimato vicepresidente di nome Lasse Clausen, il quale in seguito testimoniò contro mio padre in tribunale – alzò la testa dal pavimento, guardò mio padre e disse: “Di dove sei, figliolo?” (aveva notato l’accento dell’Alabama di mio padre). “Perché non devi fare così, sai? Questo è il modo sbagliato di fare le cose.” Il che spinse l’impiegata che stava servendo la gioielliera stesa sul pavimento freddo a dire: “E non la farai franca. Qualcuno ti ucciderà prima che tu possa lasciare la città. Non sei l’unico da queste parti a girare con la pistola”.

Nostro padre disse a nostra madre che queste parole lo smontarono e gli fecero sentire una “grande ondata di risentimento” verso tutte le persone della banca. Fu tentato di ammazzarle, una per una, scartando ogni possibilità di essere catturato e dando loro quello che si meritavano per essere più sfortunati di lui. La ragione per cui non lo fece – le disse – fu che non aveva progettato di ucciderli. Durante gli anni in cui si era forse gingillato con l’idea di rapinare una banca – fantasie che lo avevano entusiasmato – nessuno nei suoi piani era rimasto ucciso. Intendeva attenersi a quei piani: era quello che faceva una persona intelligente.

Però avrebbe potuto ucciderli, disse, visto che aveva fatto tante cose peggiori nella vita. Può darsi che stesse solo facendo lo spaccone dopo la rapina dal momento che ucciderli personalmente sarebbe stata una cosa diversa, non come sganciare bombe da un aereo.

Quando i cassetti furono vuotati nella borsa, la giovane impiegata si alzò in piedi dietro lo sportello e guardò in faccia mio padre. Disse poi che lo aveva guardato come se lo conoscesse. Anche lui capì che ormai tutti lo avevano visto bene, che non si erano lasciati impressionare dalla pistola e nemmeno dalla rapina. La loro banca era stata rapinata poco tempo prima, anche se non da lui. Stavano già facendo le prime mosse dell’operazione che avrebbe portato alla sua cattura. Mio padre rimase più impressionato di loro. Disse poi a mia madre che quella fu la prima volta che l’idea di essere catturato gli si affacciò alla mente in tutta la sua gravità. Gli fece venire voglia di rinunciare immediatamente alla rapina. Solo che non era più possibile. Alzò lo sguardo al grande orologio sopra il caveau aperto della banca. Le 9.09. Il caveau di ottone, argento e acciaio era come una grotta seducente spalancata nel muro di fondo.

Dentro c’erano altre migliaia di dollari. Ma lui decise che non poteva mettere tutti quei soldi nella borsa: per di più, non aveva bisogno di tanto denaro. Era nella Banca Agricola Nazionale da quattro minuti. Tutti lo avevano visto bene. Tutti avevano udito la sua voce calda e il suo accento del Sud. Tutti avrebbero continuato a vederlo con l’occhio della mente per il resto della loro vita quando avessero raccontato a qualcuno di essersi trovati nella banca il giorno in cui era stata rapinata. Tutto

questo mio padre lo sapeva. Forse gli avrebbe fatto persino piacere.

Sentiva l’odore del sudore che aveva addosso: un odore che potevano sentire anche loro. Non gli restò altro da fare che prendere la borsa col denaro – in cui c’erano 2500 dollari – e andare via. Cosa che fece. Senza dire altro. Aveva già capito che rapinare una banca era stato un errore.







Brano tratto dal romanzo Canada, Feltrinelli, Milano, 2013. Traduzione di Vincenzo Mantovani.




Richard Ford

Richard Ford (Jackson, 16 febbraio 1944) è uno scrittore statunitense. Nei suoi romanzi la matrice minimalista si mitiga e si evolve in due opposte direzioni: da un la¬to, le accensioni liriche di Rock Springs (1987) o di In¬cendi (Wildlife, 1990); dall'altro, il tentativo di edifica¬re un'epica della middle class americana con Sportswriter (The Sportswriter, 1986), e i suoi seguiti, Il giorno dell'Indipendenza (Independence Day, 1995) e Lo stato delle cose (The Lay of the Land, 2006).
Sportswriter è stato inserito dal Time nella lista dei 100 migliori romanzi scritti in lingua inglese dal 1923 al 2005 Il suo seguito, Independence Day, Ford ha vinto sia il Premio PEN/Faulkner per la narrativa sia il Premio Pulitzer per la narrativa (il primo a vincere entrambi i premi). Dall'autunno 2012, insegna letteratura e scrittura alla Columbia University School of the Arts.





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