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Sagarana L’ONDA


Brano tratto dal romanzo Vite che non sono la mia


Emmanuel Carrère


L’ONDA



(…) Quella mattina, subito dopo colazione, Jéróme e Del­phine sono andati al mercato e lui è rimasto a casa per badare a Juliette e Osandi, la figlia del proprietario della guesthouse. Leggeva il quotidiano locale seduto nella sua poltrona di vimini sulla terrazza del bungalow, ogni tanto alzava lo sguardo per tenere d'occhio le due bambine che giocavano in riva al mare. Saltavano ridendo tra le piccole onde. Juliette parlava francese, Osandi srilankese, eppure si capivano benissimo. Alcune cornacchie si contendevano gracchiando le briciole della colazione. Tutto era calmo, si preannunciava una bella giornata, Philippe ha pensato che magari nel pomeriggio poteva andare a pescare con Jéróme. A un tratto si è reso conto che le cornacchie erano scomparse, che non si sentiva più il canto degli uccelli. E a quel punto che è arrivata l'onda. Il mare, una tavolafino a un attimo prima, adesso era un muro alto quanto ungrattacielo che gli cadeva addosso. A Philippe è balenato il pensiero che stava per morire e che non avrebbe avuto il tempo di soffrire. Per quella che gli è parsa un'eternità è stato sommerso, trascinato e rotolato nell'immenso ven­tre dell'onda, poi è ricaduto sul dorso. È passato come un surfista sopra le case, gli alberi, la strada. Dopodiché l'onda è ripartita in senso contrario, aspirandolo verso il largo. Si è visto venire incontro muri esplosi su cui si sa­rebbe fracassato e ha avuto il riflesso di aggrapparsi a un albero di cocco, che ha mollato, poi a un altro, che avrebbe mollato allo stesso modo se qualcosa di duro, un pezzo di staccionata, non l'avesse bloccato e inchiodato al tronco. Attorno a lui sfrecciavano mobili, animali, persone, travi, blocchi di cemento. Ha chiuso gli occhi aspettandosi di essere stritolato da uno di quei relitti enormi e li ha tenuti chiusi finché il mugghio spaventoso della corrente si è cal­mato per lasciare spazio ad altro, grida di uomini e donne feriti, e allora ha capito che il mondo non era finito, che lui era vivo, che il vero incubo iniziava adesso. Ha aper­to gli occhi, si è lasciato scivolare lungo il tronco fino alla superficie dell'acqua, completamente nera, opaca. C'era ancora un po' di corrente ma si poteva resisterle. Il corpo di una donna gli è passato davanti, la testa nell'acqua, le braccia a croce. Tra le macerie, i superstiti cominciavano a chiamarsi, i feriti gemevano. Philippe ha esitato: me­glio dirigersi verso la spiaggia o verso il villaggio ? Juliette e Osandi erano morte, di questo era certo. Adesso bisognava ritrovare Jéróme e Delphine e dirglielo. Era questo il suo compito, ormai, nella vita. L'acqua gli arrivava al petto, era in costume da bagno, imbrattato di sangue, ma di preciso non sapeva dove fosse ferito. Avrebbe voluto rimanere lì immobile, aspettare l'arrivo dei soccorsi, e no­nostante ciò si è sforzato di mettersi in cammino. Sotto i suoi piedi nudi il suolo era irregolare, molle, cedevole, ricoperto da un magma di oggetti taglienti che non riusciva a vedere e con cui aveva terribilmente paura di ferirsi.

Saggiava il terreno a ogni passo, avanzava con lentezza. A cento metri da casa non riconosceva nulla: non c'era più un muro, non un albero. A tratti, dei volti familiari, quelli dei vicini che sguazzavano come lui, neri di fango, rossi di sangue, gli occhi dilatati dall'orrore, e che come lui cercavano i loro cari. Il rumore di risucchio delle acque che rifluivano era pressoché svanito, e si facevano sempre più forti le grida, i pianti, i rantoli. Alla fine Philippe ha raggiunto la strada e, un po' più su, il punto in cui l'onda si era fermata. Era strano, quel confine così netto: al di qua il caos, al di là il mondo normale, assolutamente intatto, le piccole case di mattoni rosa o verde pallido, le strade di laterite rossa, le botteghe, i motorini, le persone vestite, indaffarate, vive, che cominciavano appena a prendere coscienza del fatto che era accaduto qualcosa di immane e

spaventoso ma non sapevano bene cosa. Gli zombie che, come Philippe, tornavano a posare i piedi sulla terra dei vivi riuscivano soltanto a balbettare la parola «onda», e questa parola si propagava nel villaggio come dev'essersi propagata la parola «aereo» a Manhattan l' 11 settembre 2001. Ondate di panico sospingevano la gente in due di­rezioni opposte: verso il mare, per vedere quello che era accaduto e soccorrere chi ancora si poteva; via dal mare, il più lontano possibile, per mettersi in salvo caso mai tutto fosse ricominciato. Nel parapiglia e tra le urla, Philippe ha risalito la via principale fino al mercato nell'ora di maggior affluenza e, mentre si preparava a una lunga ricerca, ha subito scorto Delphine e Jéróme, sotto la torre dell'orolo­gio. La notizia della catastrofe li aveva appena raggiunti, ed era così confusa che al momento Jéróme credeva che un tiratore impazzito avesse aperto il fuoco da qualche parte in Tangalle. Philippe gli è andato incontro, sapeva che quelli erano i loro ultimi istanti di felicità. Loro l'hanno visto avvicinarsi, gli è arrivato davanti, coperto di fango e sangue, il volto disfatto, e a questo punto del racconto Philippe si ferma. Non riesce a continuare. La sua bocca rimane aperta, ma non riesce a ripetere le tre parole che deve aver pronunciato in quell'istante.







Brano tratto dal romanzo Vite che non sono la mia, Einaudi editore, Torino, 2009. Traduzione di Maurizia Balmelli.




Emmanuel Carrère

Emmanuel Carrère è nato a Parigi nel 1957. Ha pubblicato La settimana bianca, L’avversario, Facciamo un gioco, La vita come un romanzo russo e Limonov.





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