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Sagarana ASCOLTANDO LE VISCERE DEL MONDO


Brano tratto dal romanzo La confessione della leonessa


Mia Couto


ASCOLTANDO LE VISCERE DEL MONDO



(…) Un tremore di foglia nella sua voce: mio padre combatteva con inferni interiori. Il sacco insanguinato con i resti della figlia gocciolava ancora nella sua memoria.

E di nuovo l’insotterrabile ricordo lo assalì: il trambusto di voci sconvolte che lo aveva svegliato la mattina prima.

Genito Mpepe aveva attraversato il cortile, presagendo la tragedia. Qualche momento prima aveva sentito i leoni girare intorno alla casa. D’improvviso ruggiti, grida e lamenti si erano dissolti nel vuoto, il mondo sprofondava a brandelli: dentro non ci restava nulla. Per un oblio così grande bisognerebbe non aver mai vissuto.

– Il cuore? – tornò a indagare Hanifa.
– Ancora? Non ti ho detto di tacere?

– Lo abbiamo seppellito il cuore? Sai bene che cosa ci fanno con il cuore…

Mio padre fece un respiro profondo, guardò i vecchi indumenti appesi sotto la tettoia. Non si sentì diverso da quei cenci, che penzolavano informi e senz’anima nel vuoto. La voce gli tornò, più morbida, ora:

– Non c’è tomba per un figlio. Pensala in questo modo.

– Non voglio sentire, voglio uscire.
– Uscire?

– Andrò a cercare ciò che resta di nostra figlia nella foresta.

– No. Tu non uscirai da questa casa.
– Nessuno me lo potrà impedire.

Sarebbe uscita di casa, si sarebbe spinta fin dove non ci sono più strade per gli uomini, i piedi le avrebbero sanguinato, gli occhi si sarebbero bruciati incontro al sole, ma sarebbe andata a cercare ciò che restava di Silência, la sua bambina per sempre. Sbarrandole il passo,il marito minacciò:

– Ti legherò con una corda, come si fa con gli animali.

– Attaccami allora. È tanto che sono un animale. È da tanto che a letto dormi con un animale…

Era mettere una pietra sulla faccenda: Hanifa si avvinghiò le gambe con le braccia, in silenzio, come se volesse arrendersi al sonno.

– Vuoi dormire per terra? – domandò Genito.

Lei stese il corpo a terra, la testa poggiata sulla pietra.

La sua intenzione era ascoltare le viscere del mondo. Le donne di Kulumani conoscono dei segreti. Sanno, per esempio, che nel ventre materno i bambini, a un dato momento, cambiano posizione. In tutto il mondo, ruotano su se stessi, obbedendo a un’unica tellurica voce. Succede lo stesso con i morti: in una notte – per tutti la stessa e solo quella notte – ricevono l’ordine di rivoltarsi nel ventre della terra. È allora, che, sulla superficie delle sepolture, spuntano luci, svolazzano polveri argentate.

Chi dorme con l’orecchio attaccato al suolo sente questa circonvoluzione dei defunti. Per questa ragione, che Genito non conosceva, Hanifa rifiutò letto e cuscino. Stesa al suolo, restò ad ascoltare la terra. La figlia non ci avrebbe messo molto a farsi sentire. E magari anche le gemelle Uminha e Igualita, morte da tanto, le avrebbero portato messaggi dall’altro lato del mondo.

Il marito non si coricò: sapeva che lo aspettava una lunga notte. Il ricordo del corpo dilaniato della figlia avrebbe messo in fuga il sonno. Il ruggito del leone, echeggiando dentro di lui, avrebbe squarciato le ore. Rimase per un po’ sulla veranda a scrutare nel buio. Magari quella quiete gli avrebbe portato riposo. Ma il silenzio è un uovo al rovescio: il guscio è degli altri, ma chi si

rompe siamo noi.

Un dubbio lo amareggiava: com’era potuta accadere quella tragedia? La figlia era uscita di casa nel cuore della notte? E se così era stato, aveva avuto intenzione di metter fine alla sua vita? O, all’inverso, il leone aveva invaso lo spazio domestico, agendo più da ladro che da fiera?

All’improvviso il mondo intero andò in pezzi: furtivi passi solcarono il silenzio della foresta. Il cuore di Genito non stava più nel petto. Stava accadendo ciò che sempre succede: i leoni venivano a mangiare i resti del giorno prima.

Inaspettatamente, come posseduto, l’uomo cominciò a urlare, mentre correva in circolo:

– So che siete lì, figli del demonio! Mostratevi, voglio vedervi uscire dalla macchia, siete vantumi va vanu!

Dalla finestra, lo vidi dibattersi in questo delirio, ribellandosi contro gli uomini-leoni, i vantumi va vanu.

Poi cadde di colpo, abbandonato, come se gli avessero spezzato le ginocchia. Sollevò il viso lentamente e vide che scure ali di pipistrello lo abbracciavano. Non si sentiva un solo rumore, non una foglia, non un’ala crepitavano sulla sua testa. Genito Mpepe era una guida, conosceva gli impercettibili segnali della savana. Spesso mi aveva detto: solo gli umani sanno cos’è il silenzio.

Per gli altri animali, il mondo non è mai silenzioso e persino il crescere dell’erba e lo sbocciare dei petali fanno un enorme rumore. Nella foresta, gli animali vivono in ascolto. Era ciò che in quel momento mio padre più invidiava: essere un animale. E, lontano dagli

umani, tornare alla sua tana, addormentarsi senza pena né colpa.

– So che ci siete!

Stavolta le sue parole non contenevano più odio. La voce, arrochita, era solo un po’ estenuata. Ripetendo gli insulti, ritornò in casa per rifugiarsi nella stanza. La donna era sempre raggomitolata a terra, così come l’aveva lasciata. Quando le stese addosso una coperta, Hanifa Assulua, imbambolata, strinse forte il corpo del marito ed esclamò:

– Facciamo l’amore!
– Adesso?
– Sì. Adesso.

– Sei fuori di te, Hanifa. Non sai quello che dici.

– Mi respingi? Non vuoi farne una alla svelta?

– Sai bene che non possiamo. Siamo in lutto, il villaggio ne sarebbe infangato.

– È proprio questo che voglio: infangare il villaggio, infangare il mondo.

– Ascoltami bene, Hanifa: il tempo passerà, dimenticheremo.

Le persone dimenticano persino di essere vive.

– Io è da tanto che non vivo. E adesso, ho smesso anche di essere una persona.

Mio padre la guardò, senza riconoscerla. La moglie non gli aveva mai parlato così. A dire il vero, non parlava quasi mai. Era sempre stata contenuta, serbata nell’ombra.

Dopo la morte delle gemelline, aveva smesso di proferire parola. Al punto che il marito, di tanto in tanto, le domandava:

– Sei viva, Hanifa Assulua?

Ma non era la favella a essersi rimpicciolita. La vita, per lei, era diventata una lingua straniera. Una volta ancora la moglie si preparava a quell’assenza, pensò Genito, senza accorgersi che, nel buio, Hanifa si stava svestendo.

Quando fu nuda, lo abbracciò da dietro e Genito Mpepe si lasciò andare a quell’abbraccio serpentino. Sembrava si fosse arreso quando, d’un tratto, strattonò la moglie e si avviò con passo svelto verso il cortile esterno. E lì scomparve nel buio.

Nel chiuso della stanza, mia madre si concesse ad audaci carezze come se il suo uomo fosse davvero presente.

Stavolta era lei a comandare, galoppando sulla sua groppa, danzando sul fuoco. Sudava e gemeva:

– Ancora! Genito! Ancora!

Fu allora che sentì l’olezzo del sudore. Acre e intenso, come quello degli animali. Poi udì il rantolo. Allora si rese conto che addosso a lei non c’era il suo uomo, ma un animale selvatico, assetato del suo sangue. Durante l’atto amoroso, Genito Mpepe si era trasformato in una belva che la stava letteralmente divorando. Dissolta nella voracità dell’altro, mia madre si era come paralizzata, alla mercé dei suoi felini appetiti.

Sono pazza, pensò, mentre chiudeva gli occhi e inspirava profondamente. Quando però sentì l’artiglio graffiarle il collo, Hanifa urlò così a pieni polmoni che, per un attimo, non capì se era di dolore o di piacere. Mio padre accorse, senza sospettare quanto stava accadendo.

La moglie varcò la porta in direzione contraria e Genito non fu in grado di evitare che lei, nella sua corsa scomposta, scappasse nel patio.

 







Brano tratto dal romanzo La confessione della leonessa, Sellerio editore, Palermo, 2014. Traduzione dal Portoghese di Vincenzo Barca.




Mia Couto

António Emílio Leite Couto, meglio noto come Mia Couto (Beira, 5 luglio 1955), č uno scrittore e biologo mozambicano, uno degli autori piů noti dell'Africa lusofona. Ha scritto poesie, racconti e romanzi in lingua portoghese.





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