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Sagarana La Lavagna Del Sabato 15 Settembre 2012

SE TI AMMALI A VENEZIA



Valeria Luiselli


SE TI AMMALI A VENEZIA



 

 “A Dio chiedo soltanto di avere pietà dell’anima di questo ateo”, recita il famoso epitaffio di Miguel de Unamuno. C’è trova una salvezza, l’ultimo e fortunato giro di vite, nell’aprés la lettre di un’esistenza piena di frutti. Noialtri dobbiamo preoccuparci che il poco che lasciamo non ci si ritorca contro nella sentenza finale che ci incidono sulla lapide. Altrimenti non ci rimane altro che disperarci: “Non voglio morire, no; non voglio, non voglio volerlo; voglio vivere sempre, sempre, sempre, e vivere io, questo povero io che sono e mi sento essere qui e ora.”
Nulla di tutto ciò mi preoccuperebbe, ne sono sicura, se non fosse perché mentre vagabondavo per il centro di Città del Messico, ammazzando il tempo prima di un appuntamento, finii per entrare in quello che ritenevo un semplice giardino e invece era un cimitero. Non un cimitero qualsiasi, ma nientepopodimeno che il camposanto in cui si trovano le tombe dei nostri eroi nazionali Juárez, Miramón, Comonfort, Guerreo e Zaragoza.
Avevo con me un libro e l’unica cosa che volevo era sedermi a leggere in un luogo silenzioso finché non arrivava l’ora dell’appuntamento. Il poliziotto all’entrata, come tutti i poliziotti alle porte degli spazi ufficiali di questa città, mi si piazzò davanti e mi chiese che cosa o chi stavo cercando. Niente – gli dissi – nessuno, voglio soltanto leggere. Mi spiegò che San Fernando non era una biblioteca, ma se volevo andare a visitare la tomba del Benemerito delle Americhe, Benito Juárez, dovevo scrivere il mio nome, l’ora di entrata, la data e la mia firma su un taccuino che mi porse. E già che c’è scriva anche l’ora di uscita – mi disse. Entrai nel cimitero di buon grado e con l’umore da gita scolastica estemporanea.
Dopo una ripassata delle tombe che ci hanno dato la patria, cercai un angolino tranquillo e aprii il mio libro. Fu forse in un momento di distrazione dalla lettura che alzai lo sguardo e vidi l’iscrizione sulla lapide che avevo davanti: Joaquín Ramírez (1834-1866): “Artista insigne e morto anzi tempo lasciò questo mondo per andare nella sua vera patria.” Non mi viene in mente una forma più elegante e al tempo stesso crudele per mandare qualcuno all’inferno. Immaginai terrorizzata cosa ne sarebbe stato di me a trentadue anni, età in cui morì il povero Ramírez, e cosa avrebbero potuto scrivere sulla mia tomba se fossi morta nel giro di qualche anno.
All’epoca ero a Venezia da qualche mese e lavoravo a un saggio su Joseph Brodsky. Avevo visitato la tomba del poeta al cimitero di San Michele e scritto alcune strofe sui viaggi che aveva fatto nella laguna. Quando terminai il saggio giurai di non scrivere mai più su quella città, semplicemente perché sono convinta che non ci sia niente di più volgare che aggiungere altre pagine alle migliaia che già esistono sulla città librescamente più citata. Ma seduta di fronte alla tomba di Joaquín Ramírez, mi sembrò di sentire una voce dall’oltretomba della mia coscienza che mi condannava allo stesso destino – quella “vera patria” di tutti i morti anzi tempo – se non lasciavo una traccia scritta di tutto ciò.
Oltretutto, pare che il contraddirmi si stia radicando come un’abitudine. E dato che sono sempre stata orgogliosa di essere, alla Corleone, persona fedele alle proprie abitudini, soprassiederò sul fatto che si tratta di una consuetudine palesemente deplorevole. Quindi, anche se è per pura superstizione o per lealtà alle mie routine, so che devo fare lo sforzo di scrivere questi paragrafi: non prendetemi troppo sul serio e che i grandi mi scusino dalle tombe per menzionare attraverso di loro la Serenissima.
Quando una persona con più di un grammo di intelligenza pensa ripetutamente al problema della propria identità, è solita arrivare, prima o dopo, a conclusioni abbastanza intelligenti, persino originali. Io, tuttavia, non sono mai riuscita a fare troppe elucubrazioni su questo genere di argomenti e, perciò, non sono mai giunta a nessuna conclusione interessante su me stessa. Anche se non pare, crescere in una famiglia atea, liberale, impegnata ma mai militante nella maggior parte delle persone ha conseguenze devastanti. Crescere senza un rigido patrimonio di credenze religiose, politiche o spirituali implica che difficilmente poi si avrà un’autentica crisi. Se il punto di partenza è la comoda passività di colui che si dichiara agnostico a partire dai dodici anni, senza essersi mai interrogato realmente su temi importanti e molto seri come Dio, la morte, l’amore, l’insuccesso o la solitudine, non c’è futuro possibile per quella persona. Le virtù che lo scetticismo offrirebbe ad alcuni, si trasformano, nell’agnostico precoce, in terribili mani che strangolano e soffocano la di per sé miracolosa capacità di un individuo di interrogarsi sulle cose. E, al contrario, le persone intelligenti che crescono credendo fermamente in qualcosa e, al raggiungimento di una certa età, si rendono conto che tutto quello in cui credevano era suscettibile di dubbio, l’amaro dubbio, possono veramente godersi una crisi profonda che li porterà, nel peggiore dei casi, a conoscersi un po’ meglio. “Il demone del dubbio – scrive T. S. Eliot – è inscindibile dallo spirito della fede.”
Ma come ho già detto, purtroppo, io non ho mai avuto grosse crisi né problemi d’identità. Tanto meno ho avuto problemi ad ammettere un’identità nazionale. Anche se praticamente non ho mai avuto residenza fissa in Messico e, grazie a un nonno[1], io e la mia famiglia abbiamo la nazionalità italiana, ho sempre saputo che il Messico era il mio Paese – e non per un autentico atto di fede, ma per una sorta di pigrizia spirituale. Addirittura, diversamente da molti bambini messicani, durante la mia infanzia mi facevano mascherare da china poblana ogni 15 settembre e io non opponevo resistenza né mostravo alcun segno di ribellione (se avessi un figlio così, senza la minima parvenza di uno spirito ribelle, mi preoccuperei moltissimo). Fin da bambina, accettai passivamente il pacchetto completo della “messicanità”, come molti accettano il cattolicesimo, l’Islam, il vegetarianismo o l’omogeneizzato.
La mia unica crisi durò quindici o venti minuti un pomeriggio d’estate sull’Anello Periferico di Città del Messico. Proprio all’altezza dell’uscita di Altavista, c’è un piccolo giardino rachitico, a forma di rombo, che forse era di troppo– o forse, in fondo, venne meno – quando terminarono di tracciare il collegamento della stradalaterale con quella che scende fino al mercato dei fiori di San Ángel. Qualche anno fa, per una qualche ragione che ignoro, mio padre ottenne che qualcuno donasse tre palme e un po’ di prato per abbellire l’angoletto. Quando terminarono di restaurare il giardino, mio padre ci dichiarò – in un atto privato di amore paterno che, se invece fosse stato pubblico, sarebbe stato un gesto di una tremenda melensaggine nepotista molto alla messicana – che ognuna delle palme si chiamava come le sue tre figlie: la più grande, come la maggiore; quella media, come quella di mezzo; quella piccola, come me. Passò un po’ di tempo e una domenica finalmente ci convinse ad andare con lui a visitare il luogo. Quando arrivammo ci mise in riga sul marciapiede della strada del Périferico e ci disse: Sentite, figlie mie, datemi la mano (mio padre, quando si emoziona, vuole la mano), eccovi lì, eroiche palme all’ombra del Segundo Piso.
Ma non erano tre. La palma più piccola non c’era più. Forse mi mentirono dall’inizio e in realtà c’erano soltanto soldi per due palme (mio padre continua a giurare che erano tre, se lo ricorda perfettamente). Forse. E se non era una bugia, e io assegnavo un qualche valore simbolico al fatto che la mia palma non c’era più, dovevo preoccuparmi per il mio fatale destino. Se la mia palma non aveva attecchito, neanch’io sarei mai diventata un’eroica cittadina all’ombra del Segundo Piso. Non avrei mai messo le radici in questo grande rombo di asfalto che avanzò – o mancò – al Paese.
Ma, ripeto, quello fu l’unico incidente drammatico legato alla mia identità nazionale. E tuttavia, il mio incondizionato abbarbicamento non diminuì. Addirittura due anni fa feci una breve ma intensa chiacchierata con due bambine messicane cicciottelle che conobbi nella metropolitana di New York. Le bambine erano sedute proprio davanti a me, su due sedili nella fila opposta a quella in cui mi trovavo io. Giocavano a uno di quei giochi che consistono in applaudire e battere le mani mentre si canta una canzone, generalmente ripetitiva e senza molto contenuto. Quella che si cantava di più nella mia generazione parlava di un marinaio che era partito per il mare e mare e mare. Comunque è l’unica che mi ricordo perché ero maldestra in questi giochi e preferivo non rendermi ridicola cercando di coordinare le mani e la voce a quelle velocità. Ma queste bambine erano entrambe coordinate e rimasi a guardarle per un po’, sinceramente ammirata per la loro elegante coordinazione motoria, e senza prestare troppa attenzione a quello che cantavano. Finché non arrivò il ritornello: “I don’t wanna go to Mexico no more, more, more: there’s a big fat police man at the door, door, door […]”. Paragonata alla canzone del marinaio, questa era molto meno innocente.
«Dove avete sentito questa canzone?» chiesi durante un breve silenzio che fecero quando una di loro si distrasse e perse il ritmo.
«At schooool» disse la più cicciottella.
«Siete messicane?»
«Yes» continuò la grassoccia, «but we are both from Queens.»
«We live in Queens» corresse la meno cicciottella.
«E non volete più vivere in Messico?»
«No» (più cicciottella).
«It’s just a sooong» (meno cicciottella).
Che diritto ha un messicano studente di dottorato negli Stati Uniti di dire a un bambino messicano, immigrato, che il Messico non è poi tanto male? Nessuno, probabilmente. Ma prima di scendere dalla metropolitana, correndo il rischio che la donna che le accompagnava mi desse una borsettata, dissi a entrambe che essere messicano era molto più cool che essere gringo. Quando misi un piede fuori dal vagone, mi sentii infinitamente stupida, ma molto “un’altra tequila, per favore”.
“Non si può calpestare due volte lo stesso asfalto”, scrive Joseph Brodsky dopo un viaggio a Venezia. Una qualche maledizione deve averla questa laguna: il mio solido patriottismo e incondizionato abbarbicamento ai marciapiedi di Città del Messico cominciò a languire proprio durante un viaggio in quella città. La scusa per visitare la laguna era perfetta: stavo scrivendo su Brodsky, – che è sepolto di fronte alla città, nel cimitero di San Michele – avevo dei risparmi da parte e, ciliegina sulla torta, un amico veneziano conosceva la nipote di Boris Pasternak, che si vantava di aver ereditato qualcosa della corrispondenza tra il suo decorato nonno e il poeta russo, ed eravamo d’accordo che mi avrebbe mostrato e tradotto quelle lettere.
Arrivai in laguna nel modo meno poetico e più economico: un po’ malaticcia e in autobus. Attraversai il ponte dal parcheggio di Piazzale Roma verso la zona delle pensioni economiche: neanche una stanza libera. Cominciavo a sentire un dolore acuto all’altezza del ventre. Su consiglio di un receptionist veneziano gentile, combinazione rara, finii per suonare il campanello al Convento delle Suore Canossiane. Lasciai le valigie in una piccola stanza del convento e uscii a distrarmi un po’ dal dolore. Ma mi distrassi poco dal dolore e molto dal senso del tempo nella città, perché quando ritornai al convento, le grandi porte di legno che proteggono le suore dal volgare mondo esterno erano già chiuse e non c’era modo di suonare un campanello o una campana per reclamare alle canossiane il mio diritto a un letto già prenotato e pagato. Incassando la sconfitta, pensai che avrei potuto passare la notte leggendo Brodsky su una panchina. L’idea era romantica, ma il mal di pancia cominciava a essere insopportabile.
Per molto tempo credetti che la letteratura potesse essere come una grande casa, territorio senza frontiere che ospitava quelli come noi che non sanno stare da nessuna parte, “Anywhere Out of the World!”, come dice quella poesia di Baudelaire. Quali meccanismi ci siano dentro di noi per arrivare a convincerci che certe metafore – che alcuni utilizzano alla leggera solo per illustrare il loro punto di vista – sono applicabili alla nostra vita, è per me un mistero. Niente di più lontano dalla verità, nella mia vita almeno, della metafora della letteratura come un luogo abitabile, come un’autentica dimora. Nel migliore dei casi, i libri che leggiamo, come i testi che scriviamo, assomigliano molto a certe stanze di hotel in cui entriamo esausti a mezzanotte e dai quali ci buttano fuori a mezzogiorno. O viceversa, come in questa occasione. Tuttavia, da un punto di vista totalmente realistico, i libri non cioffrono nemmeno un materasso per dormire né hanno una doccia con acqua calda. Decisi, senza pensarci troppo e sentendo che il mal di pancia si gonfiava come una palla dentro di me, di chiamare l’unica persona che conoscevo a Venezia.
Non tiro per le lunghe una storia che in realtà fu breve e felice. Chiamai il mio amico veneziano, gli spiegai la mia teoria della palla dolorosa e lui venne a prendermi, arrivo subito[2], fuori dal convento delle canossiane, per portarmi a casa sua. Quando cominciammo a camminare gli chiesi se potevamo andare immediatamente da un medico, ma mi spiegò che i medici privati a Venezia erano per i turisti ricchi e si facevano pagare caro, quindi il giorno dopo avremmo fatto un buon uso del mio passaporto italiano per farmi la residenza permanente nel comune di Venezia; poi avremmo fatto i documenti per un libretto sanitario e, alla fine, sarei potuta andare dal dottore[3] Stefano, medico del quartiere nell’estremo sudest della laguna. Cercai di spiegargli che per queste cose ci vogliono mesi, e che il mio dolore era insopportabile. Ma mi rispose con un “Non bisogna mai perdere la speranza”, e lo disse con un tono così profetico ed eravamo così in mezzo a Venezia, che dovetti rimanere in silenzio.
Il giorno dopo, andai all’anagrafe con il mio amico: non c’era nessuno a fare la fila e in dieci minuti mi diedero un codice fiscale. Poi, visitammo un ufficio in cui ci dichiarammo libera unione – coppia di fatto[4], come dicono loro – perché potessi avere un indirizzo postale. Neanche in quell’ufficio c’era nessuno, a parte tre ombre di burocrati che leggevano il giornale. La donna burocrate che ci accolse, si congratulò per la nostra libera unione e mi disse, dopo aver stampato tre documenti: “Adesso sei veneziana[5]”. Non avevo ancora digerito le parole dell’amabile signora[6], che eravamo già al ministero della Salute, dove ci misero più o meno due minuti per farmi un libretto sanitario. Così, nel giro di un paio d’ore, entrai nella vita fiscale italiana, diventai membro di una coppia di fatto, ottenni un indirizzo a Venezia, un medico e, quindi, diventai residente di una delle città nel mondo che ha meno abitanti fissi e che perde più residenti all’anno. Non solo, potei anche essere testimone di una Venezia invisibile e probabilmente in pericolo di estinzione: la città vuota, umida e silenziosa degli uffici governativi. Se esiste ancora una Venezia tollerabile, è quella di questi paradisi burocratici. Verso le quattro del pomeriggio, crollai tra le mani del dottor Stefano, che mi curò – completamente gratis – con un’unica pastiglietta gialla.
Ci sono scrittori che inventano città e si impossessano di epoche intere impugnando la piuma e il filo del genio: la Londra di Chesterton e Johnson, la Parigi di Rousseau o Baudelaire, la Dublino di Joyce. C’è anche chi, a suon di letture, solitudine e ore quiete, conquista territori letterari, paradigmi filosofici, spazi impossibili: la torre di Montaigne, il claustro di Sor Juana Inés de la Cruz, la tomba di Chateaubriand. Ci sono persone che, con la pazienza di un giardiniere, coltivano l’arte dell’aforisma per tutta la vita e la guardano fiorire – tardi, forse, ma completamente – sotto i loro piedi: questo è il caso di Wittgenstein e di un italoargentino di cui non mi ricordo mai il nome. Altri costruiscono storie come palazzi straordinari o isole deserte che poi abitano, come un personaggio della loro stessa opera – forse da quelle parti vanno Sebald, Melville, Conrad e Defoe. E altri ancora che, dediti all’arduo compito di estirpare il loro proprio linguaggio, finiscono mettendo radici in lande deserte, ma, questo sì, ricolme di un humus poetico: “A heap of broken images where the sun beats”, scrive T. S. Eliot della sua Terra Desolata. E c’è chi, per quanto si impegni, si guadagna soltanto un angoletto all’inferno. Io, che ho provato alcune di quelle cose senza il minimo frutto, ho, tuttavia, la fortuna di essere residente di una delle città più letterarie e libresche – e non per la benedizione di una piuma aggraziata né per fedeltà delle muse. Peggio ancora: neanche per il sudore della fronte e del pugno, ma a causa di una terribile – sebbene molto frequente, e perciò abbastanza volgare – malattia della vescica: l’ignobile cistitis bacteriana.
Ma mi conforta pensare che se muoio anzi tempo, come morì Joaquín Ramírez, nessuno mi manderà alla mia “vera patria” perché, senza una sfumatura di crisi d’identità e ancora passivamente atea, avrò assunto una finta residenza permanente nella Serenissima Repubblica di Venezia.
 

[1] In italiano nel testo.
[2] In italiano nel testo.
[3] In italiano nel testo.
[4] In italiano nel testo.
[5] In italiano nel testo.
[6] In italiano nel testo.
 
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Valeria Luiselli


Valeria Luiselli nata nel 1983 a Città del Messico, ha vissuto in Costa Rica, Corea, Sudafrica, India e Spagna. Attualmente vive tra Città del Messico e New York. Ha collaborato con giornali come “The New York Times”, “Letras Libres”, “Etiqueta Negra”. Il suo primo libro Papeles falsos, pubblicato nel 2010, è stato considerato uno dei migliori libri dell’anno e ha ricevuto un grande plauso dalla critica. Volti nella folla, di prossima uscita per La Nuova Frontiera, è il suo primo libro tradotto in italiano.





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