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Sagarana La Lavagna Del Sabato 24 Novembre 2012

INTERVISTA AD AGOTA KRISTOF



Michele De Mieri


INTERVISTA AD AGOTA KRISTOF



 Uno speciale dedicato alla grande scrittrice apolide-ungherese: un’intervista di Michele De Mieri, un intervento di Paolo Di Stefano, l’incipit dell’ultima raccolta di racconti Dove sei Mathias?, una nota di Maurizia Balmelli che ha tradotto La vendetta, il primo capitolo in pdf de La vendetta.

Minuscola e leggera, con un passo claudicante e un paio di grossi occhiali a fare da schermo ai due occhi quasi sempre socchiusi, Agota Kristof si lascia avvicinare per le interviste che man mano diventano una sorpresa: ben presto infatti la taciturna scrittrice di culto, nata in Ungheria nel 1935 e trasferitasi in Svizzera a 21 anni dopo i fatti in Ungheria, parla di tutto, confessa che non scriverà mai più nulla di così interessante come i tre libri della Trilogia della città di K, non fa sconti alla versione filmica del suo Ieri (firmata da Silvio Soldini col titolo Brucio nel vento): “Troppo melensa e poi l’attrice non era in grado di dare corpo al personaggio di Line”, confessa di leggere pochissimo e di guardare molto la televisione: “prima amavo molto il cinema ma ora ho paura di uscire da sola la sera”. Timori, crediamo, non d’ordine pubblico: a Neuchatel riesce difficile immaginarsi una delinquenza comune che rende le strade insicure le serate, come i suoi personaggi la Kristof ha altre antenne per sentire chissà quali, ben diverse paure.

Come ha cominciato a scrivere e cosa ha significato per lei il passaggio dalla sua lingua madre al francese?

Un mio personaggio, in Ieri dice che è diventando assolutamente niente che si può diventare scrittori. Devo dire che quest’affermazione vale anche per me. Fin dall’infanzia ho amato leggere e scrivere. Tutte le altre cose non avevano nessuna importanza, ma non volevo fare degli studi letterari, diventare un professore. No, non amavo quella strada: ho preferito andare a lavorare in una fabbrica. Lì potevo concentrarmi sulla scrittura, sui miei pensieri, vicino alla macchina che io usavo in fabbrica c’era un foglio su cui scrivevo i miei versi, ed era la cadenza delle macchine a darmi il ritmo di quella poesia. Allora scrivevo in ungherese. Poi ho scritto pochissimo per molti anni: avevo abbandonato il mio paese e stavo lasciando anche la mia lingua per il francese che non conoscevo bene e così mi esercitavo con dialoghi teatrali. Oggi quelle mie prime opere in francese mi sembrano quasi tutte orribili. Non tutte, qualcuna buona c’è. Erano gli anni Settanta.

E i tre libri della “Trilogia” come nascono?

Dopo le pièces teatrali cominciai a scrivere delle piccole novelle, volevo parlare della mia infanzia durante la guerra, vissuta con mio fratello maggiore. Scrivevo sempre delle scene corte, una o due pagine, poi queste scene, con il loro titolo, diventavano capitoli del mio romanzo. Quindi cambiai il mio nome e quello di mio fratello e trasformai i personaggi in due maschi e poi in due gemelli. Da quel momento non scrissi solo di cose da me vissute ma cominciai a immaginare altro. Lasciai l’autobiografia e riorganizzai quei capitoli per uno struttura romanzesca.

Come ha raggiunto questo stile essenziale, duro, secco?

All’inizio non era per niente così. Anche quando scrivevo in ungherese ero melliflua, romantica, troppo letteraria. Le mie prime cose in francese, quelle per il teatro, erano scritte in una lingua normale, quotidiana. Solo quando ho cominciato a scrivere i capitoli della prima parte della Trilogia ho cercato fortemente un nuovo linguaggio: dovevo rendere lo stile di un libro scritto da dei bambini (i due gemelli n.d.r.), anche se un po’ speciali, molto intelligenti e autodidatti, che amano i dizionari com’eravamo io e mio fratello. Per la verità chi mi ha messo definitivamente sulla buona strada è stato mio figlio quando aveva dieci, dodici anni, io l’osservavo molto scrivere, studiavo il modo e il contenuto, e cercavo di apprendere quello stile, quel punto di vista. Il mio stile è figlio di mio figlio.

Lei sembra indicarci che solo attraverso il dolore possiamo avere un’opportunità di comprendere gli altri, il mondo…

Questo è vero, ma lo è solo per me. E’ il mio modo di mettermi in contatto col mondo, ma non posso dire che questo sia valido per le altre persone.

Oggi come vive la separazione col suo paese, con quella lingua? Legge letteratura ungherese? Torna spesso in Ungheria?

Io non volevo lasciare il mio paese. Lo rimprovero sempre al mio ex marito: era lui che aveva paura dopo i fatti del ’56, io non avevo nulla da temere, lavoravo in fabbrica e amavo scrivere. All’inizio non capivo cosa c’entravano per me la Svizzera, la lingua francese. E’ stata una separazione difficile, soprattutto quella della mia lingua, ma non potevo continuare, come hanno fatto alcuni altri scrittori dell’Est. A scrivere in una lingua che non parlavo più quotidianamente. Non avrei avuto neppure lettori. E così scrivere in francese è stata una necessità oltre che una sfida. Mi dicevo: “come può accadere questo, io che sto scrivendo in una lingua che non è la mia”. Era un po’ un miracolo. Oggi mi capita di ritornare in Ungheria, ho pure il doppio passaporto, ma per brevi periodi, io vivo in Svizzera vicino ai miei figli. Tra gli scrittori ungheresi conosco bene e personalmente Imre Kertész, sono stata felice per il suo Nobel. Sa, è stato per anni povero e senza successo.

***

AGOTA KRISTOF, L’APOLIDE CHE VIENE DALL’UNGHERIA
Paolo Di Stefano
[dal "Corriere della Sera", 21 novembre 1996]

Agota Kristof, l’apolide che viene dall’ Ungheria In Francia, è una tra le autrici più stimate dalla critica e dai lettori. Il suo nome sembra uno scherzo per l’assonanza sfacciata con il nome della scrittrice di gialli più famosa. Il suo primo romanzo, Le grand cahier (Il grande quaderno), uscito nel 1988 da Seuil, e’ stato accolto come un capolavoro: tradotto in diciotto lingue, in italiano e’ apparso da Guanda con il titolo (discutibile) Quello che resta. Era il primo romanzo di una straordinaria trilogia: seguirono infatti La preuve (1989: in italiano La prova, sempre Guanda) e Le troisieme mensonge (La terza bugia, 1991). [Ora compaiono in Trilogia della città di K., Einaudi. ndr]
E’ uno dei casi letterari più sorprendenti degli ultimi anni. Agota Kristof nasce nel 1935 in Ungheria. Una notte di novembre del 1956 fugge con suo marito e con una figlia di quattro mesi. Attraversano a piedi la foresta per raggiungere l’Austria, poi salgono su un camion che va in Svizzera. Agota Kristof lavora per cinque anni in una fabbrica di orologi, deve fare minuscoli buchi in una rotella. Oggi vive nella periferia di Neuchatel, dove anche Durrenmatt scelse di passare la vecchiaia. Dopo tanti anni, il suo francese parlato è insicuro e lento, ma a leggerlo nei suoi libri fa un effetto strano: semplice, asciutto, rapido. La sua trilogia mette in scena due gemelli abbandonati dai genitori e costretti, per sopravvivere alla guerra, a elaborare uno spietato sistema di resistenza alla fame e al dolore fisico e psicologico. I tre romanzi si presentano come i loro diari. C’è una crudeltà che farebbe invidia a Tarantino e a tanti suoi epigoni, italiani e no. Perché è una crudeltà assolutamente necessaria che racconta di larve umane, di personaggi sradicati e sconvolti, di una nonna tirannica che chiama i suoi nipoti “figli di cagna, figli di puttana, carogne”. I “figli di cagna” per salvare la pelle faranno saltare in aria il padre su una mina mentre passano il confine. Quando la madre tornerà da loro con un neonato in braccio, verrà colpita da una granata nel giardino della nonna. “Guardiamo nostra madre. Le viscere le escono dal ventre. E’ tutta rossa. Anche il bambino. La testa di nostra madre penzola sul buco provocato dalla granata. I suoi occhi sono aperti, e ancora umidi di lacrime”. E che cosa diranno Klaus e Lucas alla cugina che tornando chiederà: “E’ successo qualcosa?”. Diranno: “Si’ , una granata ha fatto un buco in giardino”. Punto e basta. Agota Kristof ha poi pubblicato un quarto romanzo, Hier (Ieri, 1995). Sempre in francese. La lingua francese, ha scritto una volta, è una “lingua nemica”, perché “sta uccidendo la mia lingua materna”.

***

DA DOVE SEI MATHIAS?
Agota Kristof

 

Sandor giocava con la cassetta di legno, ma non è arrivato nessuno.
All’ora di merenda pensò che fosse inutile.
Nel cortile i galli cantavano, ma non potevano nulla contro il sogno, che era tenace e aveva ragione: era troppo presto. I galli cantano sem­pre troppo presto.
A parte questo, fuori non c’era nulla.
Gridi, stelle, nient’altro.
E in più tutto era livido come uno schiaffo. Sandor si teneva la guancia. Gli sarebbe pia­ciuto essere un bambino martire. Ma non lo era. Suo padre non lo picchiava mai. Aveva ben altro da fare. Sandor si annoiava. A un tratto si è stufato di quella cassetta di legno. Avrebbe voluto uno schiaffo. Per urlare. Per fare chiasso. Si è messo a insultare suo padre, ma suo padre non si arrabbiava, non era per niente offeso. Non ci si può offendere quando si ha altro da fare.
Sandor si sforzò di svegliarsi. Il sogno era noioso. Non era neppure un incubo. Il sogno era un’isola deserta. Un’isola veramente deser­ta, dove non c’è nulla da fare. Suonò una sveglia.
Sandor si mise a sedere sul letto, sbadigliò.
E improvvisamente ricordò che sua madre era morta.
Uscì nel cortile. Vide i galli. La cassetta di legno. Tutto ciò che voleva vedere.
L’erba, l’uccello, il sole.
Era la sua prima giornata in quei luoghi sconosciuti.

Uno dei ragazzini è venuto a chiamarlo. Sandor non voleva vederlo. Ma quando l’altro gli ha parlato, Sandor non ha potuto fare a meno di alzare lo sguardo. Eppure aveva detto una sola parola:
- Vieni.
Sandor lo guardava. Era un bel bambino. Il bambino gli sorrise:
- Mi trovi bello, vero? Tutti mi trovano bello. Ma per me fa lo stesso. Non provo più alcun fastidio. Ci sono abituato.
- Ti voglio bene, – disse Sandor.
- Lo so, – rispose il bambino. – Un giorno sarò tuo figlio. Ma prima devo morire.
- Sì, – disse Sandor, – parlami ancora.
- La persona che amo di più è mio fra­tello, – continuò il bambino. – Lo amo più di tutti gli altri messi insieme, più di me stesso.
- Perché? – domandò Sandor.
- Non so. Lo guarderai e capirai perché lo amo.
- Parlami ancora, – disse Sandor.
- Dovresti venire a mangiare, – disse il bambino.
- Non ho fame.
- Se non mangi diventerai pallido e mala­to, e tutti saranno tristi.
- Anche tu? – domandò Sandor.
- No, io no. Io non posso essere triste, per­ché una cosa mi consola dell’altra.
- Presto mangerò, – disse Sandor. – Forse domani, o già questa sera.
Il bambino lo guardava con i suoi grandi occhi grigi.
- Parlami ancora, – disse Sandor.
- No, sei tu che devi parlare. Io non ho niente da dire. Per me la vita è semplice e bella.
- Bella? – disse Sandor.
- E semplice, – disse il bambino.
- Ma che ne sai tu della vita? – gridò Sandor con rabbia improvvisa. – Preferirei che adesso te ne andassi!
Il bambino si è alzato:
- Davvero vuoi che me ne vada?
- No, resta, non fa niente, comunque sia è troppo tardi.

***

TRADURRE AGOTA KRISTOF
Maurizia Balmelli

 “Io scrivo “celui-là dit:”, e poi la battuta di dialogo; lui [un imprecisato traduttore, n.d.r.] ha rimesso tutto in ordine, tutto normale, come in qualsiasi libro. Gli ho spiegato che non va, che è un tradimento assoluto, non c’è bisogno di correggere il mio stile, occorre tradurre restando il più possibile vicini all’originale” ricorda Agota Kristof in un’intervista rilasciata lo scorso autunno a Libération, in occasione dell’uscita francese de L’Analfabeta, volume di brevi scritti autobiografici.

La prima volta che ho letto Je ne mange plus (titolo originale della raccolta di racconti, diventato successivamente C’est égal e in italiano La vendetta) ho avuto l’impressione sconcertante che quei testi mi respingessero, che non volessero “farmi entrare”. Ho messo da parte il dattiloscritto – di questo si trattava: un dattiloscritto, su cui qua e là comparivano piccole correzioni a penna – e ho pensato che tradurlo non sarebbe stato uno scherzo.
Un mese più tardi l’ho ripreso. Dovevo avviare il lavoro. Stavolta non ho riflettuto più di tanto. Ho cominciato dalla prima frase del primo racconto: “Entri, dottore”. E il testo mi ha preso per mano.
Ci sono autori che vanno tradotti così, credo. Autori che hanno un talento straordinario, nella cui scrittura, per quanto allucinata, per quanto a tratti ermetica – e talvolta queste pagine allucinate ed ermetiche lo sono -, non c’è una parola fuori posto, sia a livello dell’architettura della frase, sia a livello puramente lessicale. Di fronte ad autori di questo genere, più che ad altri, la scommessa è riuscire a intonarsi a loro, a intonarne il testo. Con Agota Kristof non devo pormi domande, mi sono detta. Devo semplicemente ascoltarla, accoglierla, non cercare di capire a priori cosa e soprattutto come mi sta raccontando ciò che leggo.
I racconti riuniti ne La vendetta, Agota Kristof li ha scritti ben prima dei romanzi che l’hanno resa celebre, e la sensazione è che, almeno in parte, si tratti di una scrittura molto privata, o forse meglio dire intima. Sono testi molto acerbi, anche – con tutta la forza che l’acerbità comporta. Ripiegati su se stessi a tratti, possono bruscamente spalancarsi in un’espressività folgorante. Ho dunque cercato di seguirli nelle loro evoluzioni, tenendomi stretta alle loro maglie, aiutata da un rigore di fondo che certo all’inizio m’intimidiva, ma che progressivamente ho imparato a considerare alla stregua di una mappa, come se il testo stesso, con la sua justesse, la sua “esattezza”, mi fornisse preziosi suggerimenti per la sua traduzione.
Il rigore di Agota Kristof, infatti, va ben oltre l’esigenza estetica. È un rigore che nasce dalla tormentata e appassionata relazione della scrittrice con il francese – sua lingua d’adozione che, come lei stessa afferma, non ha ancora finito di imparare. Un rigore che è consapevolezza dei propri limiti e al tempo stesso rivendicazione di una sensibilità linguistica molto peculiare. Un rigore che, coniugato al talento, permette all’autrice di mantenersi in equilibrio tra una lingua impeccabile e sottilissime distorsioni della stessa, scarti minimi, espressioni idiomatiche lievemente forzate, giri di frase inconsulti eppure armonici, puntuali incoerenze nell’uso dei tempi verbali. Sto parlando di un equilibrio che non sempre è possibile rendere appieno; principalmente per due ragioni molto semplici, direi costituzionali: da un lato, io non ho e non posso avere, rispetto all’italiano, la distanza che Agota Kristof ha rispetto al francese; inoltre, il francese di Agota Kristof è sicuramente attraversato dalla memoria, segnato dall’impronta di un’altra lingua, l’ungherese, che con esso ha istaurato un rapporto segreto, forse difficilmente percepibile anche per l’autrice stessa. L’unica via, quindi, è stata ascoltare il monito: resisti alla tentazione di correggere. Quanto a quell’ineffabile altrove linguistico che aleggia, come detto, ho cercato di me laisser porter, lasciarmi portare dal testo, pancia a pancia con esso… confidando in qualche proprietà osmotica del talento.

 





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