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Sagarana La Lavagna Del Sabato 27 Marzo 2010

IO SONO UN PO’ HAMID. O FORSE NO.



Post-fazione al libro di Hamid Barole Abdu, «Il volo di Mohammed: poesie scelte», LibertàEdizioni


Daniele Barbieri


IO SONO UN PO’ HAMID. O FORSE NO.



 

 

Per più di 100 volte mi sono scambiato gli abiti con Hamid. Lui si è messo la mia scomoda camicia bianca (solo un simbolo) e io ho indossato il suo bel vestito africano (più di un abito? Di certo non un monaco). Così per un’ora circa lui, il vero Hamid, si rivolgeva a me come fossi Hamid, passaporto italiano ma pelle nera e io, il falso Hamid, lo prendevo in giro per quella sua pelle bianchiccia, un po’ cadaverica e perché si sa (o si dice?) «voi non sentite il ritmo, noi neri sì che abbiamo il ritmo nel sangue».
O forse io, il falso Hamid, dicevo «negri» invece di «neri». Per provocare, per fare inquietare chi assiste…. il pubblico. Infatti il gioco delle identità - scambiate con gli abiti - è in «Le scimmie verdi» che abbiamo scritto e portiamo assieme in scena o nelle piazze. Le parole non sono neutrali, hanno una storia, hanno un contesto. Se vedi una svastica in India sai (o dovresti sapere) che, per tradizione millenaria, è un augurio di fortuna; lo stesso segno in Europa e altrove dovrebbe fare inorridire e tremare chiunque non sia un razzista o un ignorante totale… pure se ha quell’altra svastica ha una storia di neanche 100 anni. Cambiano i contesti. Se io dico «negro» da Hamid, cioè da nero è diverso che se lo usa Bossi come insulto o come clava. E se un bravo giornalista come Gianantonio Stella intitola un suo libro «Negri, froci, giudei & co» sceglie parole-fionde per ragioni opposte alle migliaia di fascisti (o si tratta di zombies?) che insultano Mario Balotelli in qualche stadio.
Così in «Le scimmie verdi» io Daniele (falso Hamid) e lui, vero Hamid (ma Daniele per gioco, per un’ora) ci mettiamo nei panni di due persone che hanno voglia di parlare e quasi ci riescono; entrambi credono di non essere razzisti eppure si scoprono un po’ tali. Il pubblico ride ma si inquieta (evviva), discute (urrah): alla fine a volte spettatori e spettatrici litigano fra di loro; altre volte c’è chi decide di prendersi un “impegno” … magari quello, modesto ma importante, di non assistere più in silenzio alle esibizioni dei due razzismi italiani: quello volgare e violento della Lega e dei suoi alleati di governo, quello subdolo e “democratico”, più ignorante e vile che buonista, dei presunti oppositori.
Non voglio qui parlare dell’Italia del 2010 che io temo somigli un po’ (forse molto) alla Germania del 1933: soprattutto dall’agosto del 2009 (varo di leggi razziali) e dai pogrom di Rosario (gennaio 2010, cioè mentre scrivo) ancor più gravi perché i presunti avversari dei razzisti si sono sottratti al loro dovere….
Qui voglio parlare di quello scambio di abiti-identità. Ho capito molte cose nelle 100 ore che sono stato Hamid, nella preparazione di quello “scambio di corpi”, nelle discussioni seguite, magari nei consigli di chi – bianco o nero - ci suggeriva come far meglio la parte che un dio (minuscolo e dermatologo) ci aveva assegnato. Altro imparerò tutte le altre volte che mi fingerò Hamid come qualcosa imparo nel girare l’Italia con un amico così visibile, «abbronzato» direbbe quel falso umorista e vero razzista che di secondo mestiere fa il Presidente del Consiglio. Eppure nonostante questo mio fingermi, questo imparare, pur con tutta l’empatia… io non sono Hamid, ovviamente non lo sarò mai. Forse la mia anima (o come vogliate chiamare quella roba strana che si trova da qualche parte fra testa, cuore e trippa) è persino più africana della sua ma cosa conta questo nella società dell’avere e dell’apparire? Non sento sulla pelle gli sguardi ambigui, non registro i sussulti, gli allontanamenti che Hamid (come Alex oppure Raymon o altri amici e amiche di epidermide scura) affronta ogni giorno della sua vita in un Paese dove ormai una maggioranza – ma se pure fosse una minoranza cambierebbe molto? – di persone crede che la pelle nera non sia quella giusta e che, oh sì, le persone si giudichino anche dal colore esterno. A tal punto questa demenza diventa propaganda e dominio che in Africa molte donne e molti uomini per bellezza (e/o per nascondersi meglio?) si schiariscono. Si sbiancano. Mentre ero in Senegal ho letto (il 9 gennaio) su «Le quotidien» una lunga inchiesta di Astou Winnie Beye: «La pratica del khessal o depigmentazione della pelle è diventata di moda in Senegal. Sempre più acquistati da larghi settori della popolazione femminile, i prodotti che pretendono di assicurare una pelle chiara inondano negozi, bancarelle, supermercati a prezzi accesili per quasi tute le borse. Ma a fianco di una bellezza che è ben lungi dall’essere garantita, gravi conseguenze scaturiscono dall’utilizzazione di questi prodotti». Due foto impressionanti mostrano i pericoli sul fisico. Ma i guai sulla psiche, sull’orgoglio sono persino peggiori. Donne e uomini di grande bellezza, nel Paese della «teranga» (l’ospitalità), bombardati di una propaganda “interiorizzante”.
Così non sono Hamid, non ho la pelle nera. Quando discuto con lui del nostro presente non so se lui è più «pessimista» di me come spesso gli dico o semplicemente (?) se lui è «nero» e io no. Da un paio d’anni con «Le scimmie verdi» giriamo insieme l’Italia, quasi viviamo insieme per necessità “artistiche” e incontriamo un sacco di bella gente – l’Italia sommersa e capace di futuro che i giornalisti non vogliono vedere, tanto meno raccontare – che fa da contrappeso ai criminali che ci governano… eppure lo sguardo di Hamid si fa sempre più triste. Persino l’elezione di Obama sembra come di un’altra era o di un altro pianeta.
Lo confesso: devo dare ragione ad Hamid su qualche suo “pessimismo”. A esempio da anni lui sospetta che persino fra gli anti-razzisti, fra gli studiosi si aggirino avvoltoi. Lo ha scritto 10 anni in una lunga, bella, durissima e purtroppo profetica poesia che trovate qui, «Viaggio nel Paese delle meraviglie»; leggetela tutta con calma ma poi tornate a meditare su questi versi:
«venite,venite giovani dalle Radici del Mondo
Il gatto e la volpe vi faranno la festa
Cavie da laboratorio sociologico
Su di voi verranno effettuate studi, ricerche e tesi di laurea
Grazie alla vostra presenza arriveranno
Finanziamenti che andranno a nutrire
Gli speculatori sociali
Produttori di uomini inutili e falliti».
Molto ancora avrei voglia di raccontare intorno al mio amico e fratello, il vero Hamid, e di interrogarmi e/o riflettere con chi sta leggendo sulle fecondissime contraddizioni di molte sue poesie, su quello che uno sguardo alieno eppure interno come il suo («non bisogna stare né troppo dentro né troppo fuori per veder bene» dice più o meno uno dei protagonisti di «La giusta distanza» di Remo Mazzacurati, uno dei pochi film italiani capace di ben raccontare l’intreccio fra desideri e paure dell’Italia odierna) rivela su di noi, «indigeni» (veri o presunti) e sulle nostre caratteristiche e nazionali e tradizioni… perlopiù inventate. Però c’è già in questo libro una bellissima prefazione dunque mi fermo. Spero che chi amerà questi libro cerchi il vero Hamid anche per ascoltarlo mentre legge le poesie che trovate qui o le altre che ha creato o che inventerà. A s/proposito, l’idea di un poeta che scrive per essere letto in solitudine non è quella di Hamid (e di molti altri, molte altre): i versi vanno sussurrati, urlati, magari danzati e/o accompagnati dalla musica nei luoghi dove la gente si incontra… Ma in questa parte del mondo è una buona tradizione che purtroppo si è quasi del tutto perduta. Una delle tante buone cose da re-inventare. L’idea che i poeti o gli intellettuali come Hamid non siano lontani dalla “gente” ma persone stragge (che è l’incrocio fra la parola “strane” e l’apparente ossimoro “sagge”) che chiunque può incontrare se ha voglia di attraversare la strada e bussare. Provate: «toc-toc, è in casa Hamid? Avrei bisogno di qualche verso, di un consiglio e già che ci sono di due spicchi d’aglio». (gennaio 2010)
 




Daniele Barbieri
Daniele Barbieri giornalista e scrittore, ha scritto un libro sulla fantascienza, che si chiama Di futuri ce n'è tanti. Otto sentieri di buona fantascienza




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