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Sagarana La Lavagna Del Sabato 25 Ottobre 2014

PRIMO LEVI



Antonio Tabucchi


PRIMO LEVI



Se mi si chiedesse di parlare del più bel romanzo del No­vecento, o del romanzo che amo di più, mi troverei sicuramente in imbarazzo: la Recherche di Proust o L'uomo senza qualità di Musil, La coscienza di Zeno di Svevo o La cognizio­ne del dolore di Gadda?

Ma mi si chiede di parlare del libro più `rappresentativo' del Novecento. C'è `un qualcosa' che caratterizza i secoli che l'umanità ha vissuto? Forse è necessario semplificare, forse è inevitabile semplificare per cogliere l'essenza, l'anima di un'epoca. Il Cinquecento è il secolo del Rinascimento, il Settecento è il secolo des Lumières, l'Ottocento è il Roman­ticismo e la Restaurazione. E il nostro `secolo breve', come è stato definito? I massacri, non c'è dubbio. E all'interno di essi il massacro per eccellenza che Jankélévitch ha definito l'indicible, lo sterminio di sei milioni di ebrei e di altri milioni di minoranze (rom, omosessuali, handicappati) organizzato dalla Germania di Hitler.

In questa prospettiva nessun altro libro mi pare più rap­presentativo del Novecento di Se questo è un uomo di Primo Levi. Ma per parlare di questo libro che è riuscito a raccon­tare il cuore di tenebra del secolo trascorso, devo parlare anche di un `divieto' (o un metadivieto che si aggiunge alla difficoltà di testimoniare l'indicibile e alla rimozione naturale della vittima). Un divieto di apparente natura filosofica ma in realtà artificioso, posto da Adorno all'indomani della `sco­perta' dei campi di sterminio nazisti: "si può ancora scriver poesia dopo Auschwitz?". È ovvio che per Adorno la parola "poesia" sta per letteratura, ed è un interrogativo sottilmente intimidatorio perché presuppone come predicato un concet­to negativo: cioè no, dopo Auschwitz non si può più fare letteratura, non è più possibile. È una di quelle frasi che vor­rebbero segnare un nuovo calendario: dopo Auschwitz, sot­tintende Adorno, qualsiasi forma di narrazione di un evento così mostruoso (in rima o in prosa, non importa) è impossi­bile. L'unica risorsa che resta ai postumi sarà, sottintende il filosofo, di natura strettamente filosofica, il mostruoso potrà diventare unicamente oggetto delle nostre riflessioni, delle nostre meditazioni, ed eventualmente chiedercene il perché. Ma è altrettanto ovvio che non ci si può chiedere il perché di una cosa se non se ne parla. L'avverbio di tempo ("dopo") di Adorno è in fondo un altro filo spinato prodotto da Auschwitz. La straordinaria capacità di Primo Levi è mo­strare l'inutilità dell'assioma costituito da un avverbio di tempo. Da grande scrittore, Levi non si pone il problema di scrivere dopo Auschwitz, ma di scrivere su Auschwitz. Trasforma il platonico avverbio di tempo in un aristotelico av­verbio di luogo e scrive Se questo è un uomo.

Fu lo stesso Levi, nel 1984, in occasione della pubblica­zione delle poesie Ad ora incerta (in una intervista a Giulio Nascimbeni) a chiarire la sua posizione: "La mia esperienza è stata opposta, in quegli anni avrei riformulato le parole di Adorno: dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz" (Conversazioni e interviste 1963-1987, Einaudi, 1997). La storia editoriale di Se questo è un uomo è misteriosa e simultaneamente significativa. Misteriosa perché il libro fu pubblicato nel 1947 nelle piccole edizioni De Silva di Franco Antonicelli, dopo che il comitato editoriale dell'editore Einaudi lo aveva rifiutato. Un comitato di lettu­ra di cui facevano parte scrittori come Natalia Ginzburg e Italo Calvino. Storia anche significativa perché, a mio avvi­so, il `rifiuto' dell'editore Einaudi (nel 1946) ha forse qualcosa a che vedere con quello che Simon Wiesenthal scrive in Les assassins sont parmi nous (1967) a proposito di una ter­rificante minaccia che le SS erano solite fare ai prigionieri di Auschwitz: "In qualsiasi modo questa guerra finisca, la guerra contro di voi l'abbiamo vinta noi [...] anche se qualcuno di voi sopravvivesse il mondo non gli crederà [...] la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo mostruosi per essere creduti". Nel 1958 l'editore Einaudi si ricredette, pubblicò Se questo è un uomo, che raggiunse immediatamen­te grandi tirature e poi fu pubblicato in tutto il mondo.

Eviterò di addentrarmi nell'analisi di un libro troppo complesso; questo mio testo vuole essere solo di omaggio e di ammirazione e direi proprio di deferenza per uno dei più grandi scrittori del Novecento. E poco mi importa se alcuni critici amanti delle forme eleganti hanno avanzato riserve sullo stile di Levi, che peraltro ho sempre trovato di un altissimo livello; fin troppo stile, lo sappiamo, esiste negli scrittori più mediocri. Sicuramente quei critici dal palato fino preferiscono una prosa da soirée elegante che alcuni scrittori, ammirati nella Francia di Vichy e nell'Italia di Salò, maneggiavano con destrezza. L'Anus mundi puzza terribilmente come l'inferno dantesco, le gocce di profumo della bella prosa sono fuori luogo. Per raccontare Auschwitz non è concepibile altra prosa se non quella di un falegname della lingua: una prosa squa­drata, geometrica, cartesiana che cerca di misurare un luogo non misurabile. Perché Auschwitz non appartiene a Euclide, anche se è chiuso nel perimetro di un filo spinato, è un `altrove' geometrico, è un frattale, un imbuto che risucchia, sono delle viscere, è costruito sulla terra ma attraverso di esso si arriva al centro della terra, al centro dell'universo, in un non-luogo che appartiene all'Assurdo. Il nazismo prese l'Assurdo, vi costruì delle baracche, lo circondò di filo spinato e vi mise dentro delle persone per nientificarle. Ma prima di ridurre in cenere i loro corpi, prima di cremarli, volle ridurre in cenere l'animo umano, l'Uomo.

Questo ci dice Primo Levi: Auschwitz, campo di annien­tamento, non è soltanto i forni crematori, il corpo ridotto in cenere: è una propedeutica del niente. La profondità di Se questo è un uomo, il grande turbamento che esso ci comu­nica, non è soltanto la descrizione della macchina mortifera, la narrazione dell'eliminazione fisica, della violenza, dell'empietà, della tortura, della vergogna, dell'umiliazione, della messa a morte. È qualcosa di più di un `oltre' che riguarda la sfera dell'insensato, perché è la distruzione di quelle cate­gorie che noi riteniamo intrinseche alla stessa natura umana, depositarie di quel bagaglio genetico che ci distingue dagli animali, le cosiddette `idee innate', come dicono i filosofi: il Sogno e l'idea del Tempo. Nella casa dei morti riuscirono perfino ad uccidere i sogni. Se anche la capacità di sognare è stata annichilita, la forza dell'uomo contro l'annichilimento è inventare un sogno che non si è avuto. E non per se stes­si, ma per il povero compagno di sventura, l'ingenuo Kraus al quale Levi racconta di aver sognato che lo ha ricevuto a pranzo a casa sua, in Italia, e Kraus è arrivato con un bel ve­stito e con un grande pane caldo: "Povero sciocco Kraus. Se sapesse che non è vero, che non ho sognato proprio niente di lui, che anche lui è niente, fuorché un breve momento, niente come tutto è niente quaggiù...". Eppure Levi è capace di inventare un sogno per Kraus. Ed è in quel momento che Levi è un grande scrittore, ad Auschwitz, prima di scrivere questa pagina. Ad Auschwitz "non pareva possibile che esistesse un mondo e un tempo, se non il nostro mondo di fango e il nostro tempo sterile e stagnante di cui eravamo ormai incapaci di immaginare una fine [...]. Per noi, la storia si era fermata".

La storia ricomincia quando Levi la racconta. È la narra­zione che la fa esistere. La formulazione narrativa di un libro rimette in movimento una storia che altrimenti si sarebbe fermata. Primo Levi ha ridato voce alle ceneri. La sua è la voce narrativa più rappresentativa del ventesimo secolo.

 







Brano tratto dalla raccolta di saggi Di tutto resta un poco, Fentrinelli editori, Milano, 2013.




Antonio Tabucchi

Antonio Tabucchi č stato uno dei pių grandi scrittori italiani del Novecento.





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