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Sagarana La Lavagna Del Sabato 05 Giugno 2010

IL MONDO IMPLACABILE DELLA MATERIA



Alcuni estratti dal libro Globalizzazione, neorazzismo e scontri culturali. Quando la cultura divide


David Del Pistoia


IL MONDO IMPLACABILE DELLA MATERIA



 

Da pagina 9
"... mi sono accorto, per la prima volta, che lo stereotipo - di qualsiasi
tipo - può essere estremamente comodo, perché permette all'individuo di
avere una concezione del mondo gia' precostituita, senza essere obbligato a
pensare... Mi sono accorto, soprattutto, della grande mistificazione che e'
alla base dello stereotipo, che racconta l'altro senza umanizzarlo, anzi
dimenticando che l'altro e' un essere umano" ('Ala Al-Aswani)
"Probabilmente, la sfida del prossimo secolo consiste nel potenziare la
civiltà a partire da ognuna delle culture e non ciascuna cultura a scapito
della comune civiltà" (Fernando Savater)
Emmanuel Levinas in un piccolo saggio del 1934 affermava a proposito del
fenomeno nazista: "Il corpo non e' soltanto un accidente felice o infelice
che ci mette in rapporto col mondo implacabile della materia - la sua
aderenza all'Io vale di per se stessa. E' un'aderenza alla quale non si
sfugge e che nessuna metafora potrebbe far confondere con la presenza d'un
oggetto esteriore: e' un'unione il cui tragico sapore di definitivo nulla
potrebbe alterare". Il nostro saggio avrà ad oggetto principale le
metamorfosi del razzismo: dal biologico al culturale. La citazione di
Levinas appare quanto mai appropriata per esprimere il mutamento del
paradigma razzista: e' sufficiente sostituire a "corpo" i termini "cultura",
"etnia", "tradizione" per ritrovare quella perfetta aderenza che inchioda il
soggetto a qualcosa di soverchiante. Ad un destino inalterabile, totale
fatalità. Invece del corpo e del colore della pelle subentra "la cultura e
l'etnia": gli individui divengono appendici di qualcosa che li definisce
implacabilmente. In questa descrizione, sia chiaro, non vogliamo dire che
non esistano tentativi di rispolverare il concetto di "razza" attraverso le
teorie genetiche e la definizione di diversi quozienti di intelligenza. Ciò
che a noi interessa e' fotografare una situazione in cui il razzismo
contemporaneo, per ora e per lo più, e' declinato in termini
culturalistici. Del resto storicamente il razzismo ha sempre coniugato e
amalgamato l'aspetto biologico con quello culturale.
Un esempio: se e' vero che il fascismo italiano si e' riferito alla razza in
termini biologici, e' anche da ricordare la componente culturale: "Sanzioni
per i rapporti d'indole coniugale fra i cittadini e sudditi. (R.D.L. 19
aprile 1937 - XV n. 880). Art. unico. Il cittadino italiano che nel
territorio del Regno o delle Colonie tiene relazioni d'indole coniugale con
persona suddita dell'Africa Orientale Italiana o straniera appartenente a
popolazione che abbia tradizioni, costumi e concetti giuridici e sociali
analoghi a quelle dei sudditi dell'Africa Orientale Italiane, e' punito con
la reclusione da uno a cinque anni". Già nel 1937 i fascisti volevano
introdurre una legislazione che doveva legittimare una specie d'apartheid
ante litteram e che prevedeva la distinzione tra italiani e persone d'altra
specie sulla base dell'appartenenza culturale. Insomma, vorremmo mostrare
come aspetti biologici e culturali siano, nel fenomeno razzista, intimamente
legati. Ora, a nostro avviso, l'aspetto culturale sta prevalendo. Viene
naturalizzato, etologizzato, considerato immodificabile. Un dato di natura,
appunto. I primi capitoli saranno impostati in maniera tale da evidenziare
la metamorfosi del razzismo, così come sopra delineata: dal biologico al
culturale.
Per indagare l'essenzialismo culturale con le conseguenze inerenti ad esso
non si può prescindere da un'analisi contestualizzata. Il nostro contesto
e' la globalizzazione e il fenomeno di ri-localizzazione esasperata
attraverso cui le identità si declinano in fenomeni di "etnopolitica".
L'attuale globalizzazione da' vita ad una simultanea interazione di
molteplici influssi culturali. Però e' bene fugare subito un equivoco: la
mescolanza culturale, la connessione, non sono eccezioni, bensì regole
storiche. Ciò che muterebbe rispetto al passato non e' quindi questo
fecondo intreccio bensì "il fatto che esso e' oggetto di riflessione e
riconoscimento nell'arena pubblica mondiale" e soprattutto la velocità
delle trasformazioni in atto. La globalizzazione dell'economia e della
cultura vengono viste come sfondo di senso alle nuove versioni
dell'essenzialismo sia biologico che culturale. La paura della perdita
dell'identità, della tendenziale omologazione e l'incertezza cronica
dell'essere umano di questo inizio secolo, sembrano spingere verso
un'affermazione identitaria parossistica, insomma verso le nuove comunità
organiche declinate in termini "etnici". La differenza culturale,
l'appartenenza ad una comunità e il sentirsi parte di una tradizione
divengono forze che ristrutturano l'azione politica declinandola in forma
"etnica" e di essenzialismo culturale o addirittura di "scontro di
civiltà". E' dunque in tale contesto che si deve inquadrare il neorazzismo
e le nuove parossistiche affermazioni identitarie.
A proposito dell'uomo nell'attuale epoca, Ulrich Beck sottolinea: stiamo
assistendo "all'irruzione della precarietà, della discontinuità, della
flessibilità, dell'informalità all'interno dei bastioni... della società
della piena occupazione". Il fatto di appartenere ad una "cultura", ad una
comunità ben precisa, chiaramente identificabile, rassicura gli uomini che
si trovano immersi in un divenire sempre più caotico. Orienta l'azione, da'
senso e significato agli individui e alle collettività. Ma non si può
dimenticare, sarebbe un errore imperdonabile, uno dei leitmotiv della
discriminazione razziale ovverosia lo sfruttamento economico. In definitiva
il nostro scritto percorre questo sentiero: le affermazioni identitarie
debbono essere viste all'interno di una ricerca di ordine e stabilità
politica e, inoltre, risultano indissociabili dalle esigenze dell'economia.
Non attribuiremo però più importanza ad un aspetto che all'altro: il
razzismo e' un fatto sociale totale che coinvolge più aspetti
dell'esistenza individuale e collettiva. La modernità (nella forma della
globalizzazione) liquida le precedenti strutture: in tale contesto gli
uomini annaspano e cercano punti solidi. Zygmunt Bauman afferma che "la
principale forza motrice dietro a questo processo sia stata sin dal
principio la sempre più rapida 'liquefazione' delle strutture e delle
istituzioni sociali" e attualmente "stiamo passando dalla fase 'solida' alla
fase 'fluida' della modernità": i "fluidi" hanno la caratteristica di
assumere una pluralità di forme. Ma quando gli individui si accorgono
dell'assenza dei punti di riferimento il loro comportamento può assumere la
tentazione esasperata di recuperare degli assoluti, la tentazione di
colorare il contingente di assoluto.
Alain Supiot ha evidenziato che le forme di solidarietà nazionale vengono
messe in crisi dalla globalizzazione da una parte, e dalla rilocalizzazione
dall'altra: questi due aspetti "sono i due volti inscindibili di strategie
economiche globali che si fondano sulla valorizzazione di vantaggi
competitivi locali". Se la nazione non e' più il punto di riferimento
principale, l'identità viene ricercata parossisticamente in un mondo sempre
piu' competitivo, nelle identità religiose, "etniche" e culturali. Ma
soprattutto, e sarà del resto uno dei fili conduttori del nostro lavoro, i
cosiddetti conflitti o scontri culturali rischiano di occultare e rimuovere
l'enorme e intollerabile (non solo da un punto di vista politico, ma anche
etico) disuguaglianza planetaria: una abnorme divaricazione economica
mondiale che si e' andata allargando tra poveri e ricchi, anche negli stessi
paesi "sviluppati" dell'Occidente. Ed e' partendo da tale analisi che
riteniamo doveroso un intervento delle istituzioni per una governance
globale. Inoltre, a nostro avviso, lo Stato può recuperare un ruolo
importante soprattutto facendo da cerniera tra globale e locale. Molti
problemi con cui l'umanità si dovrà confrontare non possono che essere
affrontati da una prospettiva globale. Inoltre dobbiamo considerare che se
la mondializzazione accelera "i flussi economici e socio-culturali" e crea
nuove opportunità per molti, non e' da dimenticare che gran parte della
popolazione mondiale e' inchiodata alla miseria. Negli stessi paesi ricchi
si accrescono nuove povertà, insicurezze, e il futuro sembra sempre meno
afferrabile con lo sguardo. Queste tematiche verranno approfondite nei
capitoli terzo e quarto.
In questo nostro mondo solcato, attraversato e dilaniato da spaventose
disuguaglianze e miserie di ogni tipo, emerge con forza, in funzione di
occultamento e diversivo, la teoria del clash of civilization. A proposito
dello scontro tra civiltà vedremo come la ripartizione in compartimenti
stagni dei processi di civilizzazione sia una specie di metafisica che
oblitera i continui rapporti e connessioni tra i popoli. La cultura non e'
un monolite, ne' e' strutturata omogeneamente. Vive, nel suo delinearsi, sui
confini. Come ha sottolineato acutamente Mondher Kilani "le culture non
riflettono un'unità reale ma esprimono uno stile di vita, un insieme di
simboli condivisi" cui gli individui non danno "il medesimo contenuto e
neppure la stessa interpretazione". Jacques Derrida, in un recente
intervento, ha affermato: "La molteplicità dei retaggi mediterranei (quello
fenicio, bizantino, italiano, greco, arabo, spagnolo, normanno, pagano,
ebraico, cristiano, musulmano) è questa profusione cosmopolita della
memoria che respiravo già in Algeri e che sono così felice di riconoscere
qui, come a casa mia grazie a voi. Le affinità della natura o del paesaggio
contribuiscono a questa grazia di parentele simboliche". In tale scritto e'
posta chiaramente in discussione la dicotomica, esclusiva contrapposizione
"noi-loro". L'estraneità viene mediata da una "cosmopolita memoria" e da
"parentele simboliche". La diversità non e' vissuta come scissione bensì
come intreccio fecondo, come affinità. Le connessioni sono feconde e le
culture sempre in profonda e perenne trasformazione. Questo sarà il nostro
leitmotiv di tutto il presente lavoro (in particolare del quinto capitolo).
Il differenzialismo culturale viene sfruttato non solo per ragioni
identitarie ma anche per finalità politiche, economiche e sociali. Insomma
le differenze vissute come immodificabili e ineluttabili divengono un
potente strumento per l'azione politica, la coesione sociale e per
determinare discriminazioni giuridiche ed economiche in un'epoca in cui
molti orizzonti sembrano sfumare alla nostra vista. Alla presa visiva. In
tale contesto lo scontro delle civiltà sembra restituire un disegno che
permetta di fuoriuscire dal caos. Di ritrovare un ordine. A nostro avviso
questa posizione e' semplicemente catastrofica, oltre che scientificamente
infondata dato che le culture sono complesse, i mutamenti continui,
l'omogeneità solo immaginata e le connessioni e le intelaiature assai
strutturate. Con ciò non vogliamo significare che non esistono differenze
culturali. Vogliamo solo evidenziare che queste debbono essere viste
all'interno di una complessità. Di movimenti tellurici continui, magari
impercettibili, ma sempre presenti. Inoltre vorremmo fare riferimento al
fatto che le differenze non possono occultare le somiglianze, le parentele,
le continuità e le affinità tra gli uomini. Se viste all'interno di questo
sfondo significativo tali differenze appaiono meno minacciose. Ci sono
momenti anche di riconoscimento: nulla di ciò che e' umano ci e' estraneo.
Particolare attenzione dedicheremo al fenomeno Islam. Cercheremo di
delineare elementi accomunanti, pregiudizi da sfatare, semplificazioni
emergenti. Con ciò non vogliamo affermare che non esistano differenze
culturali e che esse non siano rilevanti: chi potrebbe negarlo? Vogliamo
soltanto evidenziare come lo statuto ontologico di esse non debba essere
considerato immodificabile, soverchiante e dunque ipostatizzato. La realtà
e' in perenne mutamento e con essa anche le differenze. L'essere umano e' un
animale incompiuto, aperto. Si dovrebbe sottolineare l'uso strumentale a
fini politici, economici e sociali che oggi viene fatto dei termini di
"cultura", "etnia", "tradizione", etc. Vorremmo decostruire quell'archivio
di intolleranza e inimicizia che si sta strutturando sulla figura del
musulmano. L'islamofobia sembra in questo momento il razzismo contemporaneo
che filtra nelle nostre società. La figura del migrante non può essere
vista come una specie di ipostasi religiosa. I migranti soprattutto quelli
che provengono da paesi a tradizione musulmana vengono inchiodati al dato
religioso. Ammassati tutti in un genus, religiosamente strutturato, sono
vittime di discriminazioni. Enormi.
Tutto il nostro testo sarà strutturato in maniera tale da evidenziare che
il rapporto con l'altro uomo, che sia musulmano o cattolico, ateo, agnostico
o credente, appartenente ad un ceto o ad un altro, istruito o no, etc., non
può essere mediato da generalizzazioni, stereotipi e rappresentazioni, ma
deve nascere dall'incontro singolare. Il volto dell'altro uomo mi appare e
non posso, se voglio rispettare la sua dignità, etichettarlo e definirlo
prima che mi parli. Non posso annichilire la sua complessità e umanità in
una mia interessata rappresentazione. Purtroppo l'ostilità politica e la
rappresentazione dello straniero come nemico sembrano dominare. E'
necessario decostruire tale immaginario e tale pratica di ostilità
innanzitutto prendendo coscienza delle nostre rappresentazioni condizionate
da interessi: "Un'immagine del nemico - che per l'Occidente e' stato
dapprima il comunismo, e oggi e' l'islam - e' utile sotto molti aspetti.
Svolge diverse funzioni di psicologia individuale e politico-sociale...
l'immagine del nemico discolpa: non siamo "noi" (americani, europei...),
bensi' il nemico, l'islam, ad avere tutte le responsabilita'. Le immagini
del nemico rendono possibile pensare per capri espiatori. L'immagine del
nemico stabilizza: anche se sotto molti aspetti "noi in Occidente" ci
troviamo in disaccordo. Polarizza: riducendo le alternative disponibili.
L'immagine del nemico attiva: informazioni e istruzioni piu' precise non
sono necessarie".
E' necessario, dunque, decostruire tale immagine, depotenziare il presunto
scontro delle civilta', evitando che divenga una profezia che si autoavvera,
e incominciare a vedere l'altro non come nostra rappresentazione
interessata, dunque come strumento, ma come fine. Uscire dalle nostre
rappresentazioni totalitarie e incontrare gli altri. In uno sfondo
significativo: quello del riconoscimento della comune umanita' che ci
apparenta. Solo cosi' la differenza e le diversità non divengono
oppressive. Solo cosi' e' possibile mettere in crisi il razzismo che
pretende di spezzare l'umanità' in gruppi tra loro irrelati. Assolute
monadi. Solo così la relazione con altri individui si apre alla ricchezza
di un incontro che dischiude nuovi spazi di senso e significato. Solo cosi'
l'etica prevale sull'ontologia, direbbe Levinas. Inoltre in questo modo
l'altro non viene condannato ad essere l'epifenomeno di una nostra
rappresentazione, il più delle volte inesatta perché contaminata, lo
ripetiamo ancora una volta, da nostri interessi e vantaggi.
*
Da pagina 17
In questo lavoro dunque cerchiamo di evidenziare gli elementi che
strutturano l'immaginario razzista nell'epoca odierna. Quando ci
addentreremo in alcune situazioni di discriminazione non ci soffermeremo
sull'antisemitismo. Non perché pensiamo che sia giunto al termine, ma
soltanto per il fatto che le immagini dell'islamico e dell'Islam sono
divenute, soprattutto dopo l'11 settembre, sempre più minacciose. Sembra
che il razzismo in Europa si direzioni verso la discriminazione dei
musulmani e dei migranti provenienti dai paesi a tradizione prevalente
islamica. Ciononostante teniamo conto di quanto affermato in un'intervista
da Saul Friedlander in riferimento allo sviluppo di un antisemitismo sempre
più violento in paesi come l'Iran o l'Egitto: "Non dimentichi - risponde
alla giornalista - che poco tempo fa, ad esempio, la tv egiziana ha mandato
in onda uno sceneggiato sui Protocolli dei Saggi di Sion" in cui si va
sostenendo che il mondo musulmano starebbe meglio se non ci fossero gli
ebrei. Insomma sembra che il ventre che ha partorito l'antisemitismo sia
sempre fecondo: in Europa come in altre parti del mondo. Ciononostante
accenneremo soprattutto all'islamofobia tenuto conto però che il razzismo
ha innumerevoli bersagli. In questo momento ci sembra che l'Islam, lo
ripetiamo, sia il prevalente bersaglio delle estreme destre europee e che
molta parte delle nostre società si attardi su una visione stereotipata
della religione musulmana e dei migranti che provengono da paesi in cui essa
e' diffusa. A noi pare che oggi, i migranti che provengono dal Maghreb, per
esempio, siano gli ultimi tra gli ultimissimi. Ciò non ci impedisce di
considerare l'antisemitismo un pericolo attuale. Del resto, però, la teoria
di Huntington sullo scontro delle civilta' ha come bersaglio il mondo
islamico e ci sembra opportuno depotenziare l'immaginario che la sostiene.
Immaginario che sta creando un archivio in cui se si immette nel motore di
ricerca l'aggettivo fanatico, bellicoso o altro, si finisce per trovare un
terrorista che spesso viene identificato con un musulmano. Le immagini che
eterodefiniscono un mondo complesso, contraddittorio, plurimo come quello
che va dal Marocco all'Indonesia ci sembrano caricature pericolose.
Ovviamente non pensiamo che quel "mondo" sia il migliore dei mondi
possibili. Ci sembra opportuno pero' problematicizzare la nostra visione.
Evitare stereotipi e semplificazioni. Inoltre si deve dire che il progresso
civile non e' "unilaterale" cioe' riguardante solo l'altro, bensi'
multilaterale (ci riguarda tutti). Nessuno e' esente da colpe, da barbarie.
Questo e' un modo saggio di affrontare le questioni evitando inutili
etnocentrismi. Questo sara' il tema dell'ultimo capitolo.
Vogliamo sottolineare, per evitare fraintendimenti, che in tutto il nostro
scritto la polemica sara' indirizzata contro tutte quelle concezioni che
assolutizzano e ipostatizzano la "cultura". Con cio' lungi da noi voler
negare l'esistenza di differenze culturali. Riteniamo pero' che queste
debbano essere problematicizzate. Oggetto prevalente della nostra critica
sara' la semplificante visione, dicotomica ed escludente, "Noi/Loro". Le
differenze trapassano e informano tutti i livelli: anche all'interno del
"Noi". Esse si costituiscono, mutano e si dileguano, in certi casi,
nell'orizzonte ampio dell'interazione culturale. Le connessioni fra gli
esseri umani sono la regola da quando hanno iniziato a respirare. Inoltre,
ultima sottolineatura, quando ci riferiamo all'individuo (usando questo
termine) non lo consideriamo come una "monade" ma come "persona", come
relazione, interazione, in continua connessione con altri soggetti.
Individuo-cultura: il rapporto e' complementare, dialettico, contraddittorio
e aperto. Insomma nessun riduzionismo.
Josef K e' un impiegato di una banca che all'improvviso viene dichiarato in
arresto da due persone. Inizialmente, sicuro di se', non prende sul serio
l'accusa (di cui non sa alcunche') ma piano piano gli eventi,
l'arbitrarieta', l'incertezza della situazione si insinueranno
ossessivamente nelle sue occupazioni fino a stravolgerle. Alla fine altri
due uomini vestiti di nero, lo preleveranno e ai margini della citta' sara'
giustiziato. Senza che il capo di imputazione sia nemmeno conosciuto. La
forza di due uomini, appunto, sara' determinante. Il razzismo, nelle sue
varianti, si presenta come un capo di imputazione prima, come una condanna
poi, senza che l'imputato possa difendersi. Il differenzialismo culturale si
presenta come una sorta di inchiodamento dell'altro ad una nostra
rappresentazione che ci torna utile. Dissoluzione dell'individuo in un
genere (cultura, tradizione, etnia) preteso come immutabile e annichilimento
della trascendenza e della dignita' di ogni singolo uomo. Soprattutto, per
ultimo, vorremmo sottolineare che l'etica, in un'epoca di globalizzazione,
di riflessione del rapporto dialettico tra parte e tutto, si deve
rimodellare oltre la declinazione della prossimita'. Un'etica della
distanza, dunque. La vita di un indonesiano o di un filippino non sono
estranee, ma collegate alle nostre. Le nostre azioni, infatti, hanno delle
conseguenze nel sistema-mondo. Non si puo' far finta di niente. Il cuore
dell'umanita' batte dappertutto. L'interrogativo di Caino "Sono forse io il
custode di mio fratello?" dovrebbe essere l'esemplificazione negativa di
come gli uomini non si dovrebbero comportare. Si narra che davanti a Victor
Hugo sfilassero vari ambasciatori: "Entrò l'ambasciatore tedesco e Victor
Hugo lo salutò con solennità: 'Germania! Ah, Goethe!', arrivò poi lo
spagnolo... 'Spagna! Ah, Cervantes!'... Alla fine si presentò per
felicitarlo l'ambasciatore, diciamo, della Lapponia e Victor Hugo, senza
batter ciglio: 'Lapponia! Ah, l'umanità!". Ebbene con tale consapevolezza,
per così dire cosmopolita, invece di rispondere come Caino si potrebbe
affermare "Sì, eccomi, io al posto di tutti!" - "Io responsabile per
tutti!". Solo così lo sguardo può soffermarsi sui lineamenti di un nuovo
mondo.




(Brani estratti dal sito www.tecalibri.it, presenti nel libro Globalizzazione, neorazzismo e scontri culturali. Quando la cultura divide, Armando, Roma 2007)





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