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Sagarana La Lavagna Del Sabato 18 Settembre 2010

PELLE A VISTA



Barkus


PELLE A VISTA



 

Reduce dall'intrigante serata a casa di amici, ancora affetto dalla sindrome da suruba che nasce dal contagio di donne vogliose di baci e abbracci, Edilson marca la visita a un nuovo tempio della perdizione. Il patto viene onorato dopo solo due giorni, durante i quali, ansioso e roso dalla curiosità, non so cosa aspettarmi.  
Vila Mimosa è un angolo di inferno caratteristico, il famigerato quartiere carioca a luci rosse, seppure a livello popolare. La città è così piena di segreti che basta girare la testa per incontrare un angolo interessante, fino ai murales di donne nude. Serve a cloroformizzare la saudade che provi per Marcia e Fabiana, del peito e della bunda rigogliose, delle panze grassocce che debordano senza imbarazzo, fonte dei lazzi e delle civetterie erotiche che tracimano dal radiocellulare Nextel in perenne modalità altoparlante.
Il metrò ci scarica alla fermata di Humaitá. Edilson ha il tipico aspetto da ragazzone carioca della festa, con quel capello riccio pintado di biondo e la faccia da nero olandese. Conosce molto bene gli ambienti del suburbio di Madureira ma pretende di abitare a Copacabana, fulcro degli incontri e delle opportunità turistiche: rimorchiare una straniera o uno straniero è fonte di inesauribili prospettive come accompagnatore, consigliere, o puto.
Le occasioni si costruiscono con una bella faccia o un bel corpo, uno sguardo furbo, un tocco esplicito della mano. Non serve dispiacersi di un'infanzia sghemba, del padre sempre ubriaco e drogato che ti picchia con la padella perché non trova i soldi per comprare altra birra; Edilson ha imparato presto la lezione della vita guardandosi intorno, gli amici che si arrangiano comprando e rivendendo oggetti approfittando dei livelli differenti fra i quartieri, qualche oggetto che passa di mano, organizzare il rifornimento leggero o pesante per gli amici di buona famiglia che devono sballare tutta la notte ad una festa rave. Adolescenza vissuta con la zia, che gli ha svelato la complice consolazione del sesso all'età di quattordici anni.
Di lì a poco il salto a Copacabana, un letto in una stanza divisa in cinque al dodicesimo piano dell'edificio Antico 200 di rua Barata Ribeiro. Forse chiamata così dalle barata, scarafaggi grossi come mezzi gusci d'uovo marrone che colonizzano strade e fondamenta avventurandosi di notte fra rimasugli e divani, su fino alle colorate statuette dell'Orixá angolana, insetti dalla torbida ansia in cerca di spiritualità nel presepe tropicale. Dividersi incombenze e pulizie e subire i rimbrotti del vecchio che li ospita per pochi real, dormire a turno in salotto mentre qualcun altro lavora.
Il sorriso non manca mai, in faccia a Edilson, sembra bere alla fontana della felicità. È piacevole conoscere ogni tanto un carioca che è un pescecane, ma solo un accalappiatore di occasioni che disciplina la malasorte con la sfrontatezza e un'alzata di spalle. I giorni buoni sufficienti a lenire i buchi della penuria estesa a perdita d'occhio. Mi appassiona scoprire che esistono le eccezioni, persone capaci di dimostrare rispetto per gli altri e dignità verso se stessi.
Lo guardo passare la mano continuamente su quel basso cespuglio che s'infiamma sopra la sua faccia da teenager di colore. Corpo malhado, tonico e guizzante, andamento rilassato, non un brufolo di tensione sulla pelle luminosa curata con olio di mandorla, solo una breve cicatrice di coltello all'attaccatura del naso. Quando passiamo vicino a una bancarella di libri si sofferma a cercare l'ultimo libro di Zibia Gaspareto, una scrittrice popolare e accattivante, appassionata di dottrina spiritica, di cui ha letto ripetutamente i libri finora pubblicati. È l'unico autore che sembra catturare il suo interesse letterario. Assieme alla storia del Titanic.
Il sincero entusiasmo con cui affronta la vita è spontaneo e contagioso. Dopo i primi giorni passati a rincorrere buceta, umide provocazioni femminili, oramai usciamo spesso insieme. Ho apprezzato la novità di poter frequentare qualcuno senza venire aggredito dalle immancabili storie strappalacrime, lui ha apprezzato una maturità anticonformista. Il fatto che io sia una bilancia sempre in cerca di equilibrio e lui un toro sempre a testa bassa a conseguire le proprie ragioni, non sembra ostacolare il nostro patto di sindacato.
La sera che l'ho invitato ad andare al cinema, aveva fatto una faccia perplessa. Forse non gradiva il film, o voleva fare qualcos'altro. Alla fine confessò che non ci era mai andato. Seguirono altre inaugurazioni. La prima volta sul Cristo Redentore, il pedalò all'isola di Paquetà di fronte alla scura Baia di Guanabara, la corsa sulla ruota panoramica, poi sui pattini a rotelle. Guardare un diciannovenne correre e saltare come un bambino fa tenerezza. Ricambiò invitandomi alla prima orgia di gruppo, dove conobbi Marcia e Fabiana, e suo cugino Genilson che osservava con attenzione sospetta la mia bunda europea di adolescente di mezz'età.
Sbarchiamo per la strada piovigginosa verso le undici di sera, dopo una raccolta di suggerimenti a ogni angolo. Attraversiamo un ponte e piombiamo in una area scura, dove fra luci tremule si aprono bar di biliardo e motociclisti. I primi cento metri del quartiere fanno guadagnare a Vila Mimosa il vessillo di porta degli inferi. L'area emana un forte odore di piscio, ma si presenta desolata e deserta. Forse è troppo presto, commenta la mia guida. Como assim? Ma come? Alle undici di venerdì sera?
Superata la prima curva ci incamminiamo giù verso un orizzonte di luci e caligine proveniente dai churraschini a lato delle auto. E' la prova della riunione conviviale, quella invasione di griglie fumanti da cui sfrigolano spiedini di gatto e linguiça giganti, le salsicce arancioni cosparse di farofa, farina di mais abbrustolita. Pochi passi ancora ed entriamo nel vivo della concentrazione. Baretti sudici uno attaccato all'altro, tettoie sbilenche, rivoli d'acqua e spazzatura rivaleggiano fra le mura corrotte di un quartiere squinternato.
Qui si concentra il peccato più basilare, lo scandalo accettato, il supermercato della pelle a vista. Siamo distanti dalle abituali immagini di spiagge gremite, dai marciapiedi invasi da turisti o sportivi che sudano accarezzati dal sole. Qui sovrana è la notte, la luce artificiale di lampadine a incandescenza e neon diafani che non ostacolano il diffondersi del fumo e dei rari dopobarba che mi fanno preferire l'afrore sincero della pelle sudata. Casse gialle di birra Skol si ergono sulle fiancate aperte alla sete in chiaroscuro.
Una moltitudine avida si sfugge alla rinfusa, nascosta dietro sorrisi troppo aperti, occhi troppo arrossati, gli sguardi allacciati alle grigliate di tette, culi, stomaci, gambe secche o lardose. I baretti che si aprono come feritoie a fianco della processione interminabile, le procacciatrici che ti toccano e ti sorridono con fauci da pescecane pronte a inghiottire la preda che si attarda assetata di vizio. 
Il miraggio che non è quello del bere, una voglia che può essere anche solo quella di guardare. In un paese percorso da un calore che fa ribollire il sangue, tutti strofinano il mobilio rendendolo fin troppo lucido. Di quando in quando un corpo troppo giovane sembra riflettersi fra le fumiganti lusinghe, oramai incosciente della macedonia di pensieri.
La musica è un frastuono informe, una battaglia a chi sovrasta, il calypso avido di vendetta sull'amor perduto sibila contro il funky proibito della favela, unica scuola per le minorenni, con le sue frasi musicali dolci come mitraglie che incitano "Metto solo la testina, metto solo la testina, tutta dura e bagnatina...", cui fa eco un più poetico "Porca sbattimi un pochino, sei piaciuta al mio cuscino...".
Una virata a sinistra ci sospinge nel budello infernale, un tubo interdentale fra finestre che aprono su stanze commerciali zeppe di bottiglie e corpi danzanti, una nana più larga che altra imita Kim Basinger e raccoglie persino alcune occhiate fameliche. Porte, buchi e sbarre su cui pendono facce aggrappate al lavoro notturno, fumo arrostito su ciambelle che sanno di wurstel, salsicce che sanno di olio fritto, ventilatori che spandono umido all'intorno, ragazzi indecisi che leccano lo sguardo dove nessuno si azzarda, ragazze scosciate che emanano peli rasati e traspirante, pance e pelli abbronzate, caramelle e preservativi un euro la mezza dozzina.
Non ci si può avventurare separati, occorre passare dove passano tutti, fondersi nelle esalazioni, appiccicare strusciandosi nella cagnara eccitata. Gente che ti spinge, ti tocca, ti apostrofa. Tu che abbozzi e ti imponi una dignità che sa subito di gringo, solo che non potrai andartene in giro col nasino all'insù, vestito da turista pronto per essere cucinato nel pentolone. Girare con gente locale mi cela alle fameliche curiosità di chi sbarca il lunario.
Ma tudo bem, tiriamo delle foto di nascosto col cellulare mentre beviamo una cerveja gelata e un imponente Guaraviton ghiacciato, la bibita di guaranà che trovi nei supermercati e nelle spiagge, unica salvezza dall'onnipresente birra giallognola. La razza del pavimento sociale si riflette anche negli avventori: bianchi e neri, poveri e presuntuosi, padri e vicinanti, ragazzini e mendichi in una varietà di abbigliamento che non supera le mezze maniche, vincenti comunque i petti nudi ornati di cordoni d'argento e tatuaggi, il vero addobbo proverbiale. Pelle che parla, sempre.
Emersi dalla bolgia sediamo a fianco di un magro dai capelli bianchi, qualche decennio dedicato al disegno sul corpo, dietro una esposizione di opere da mattatoio, schegge e saette nere, cuori e donne e cristi e animali multicolori, cavalli e teschi trafitti. Edilson mi parla del film hard fatto dalla cugina Fabiana, mentre seduto su uno scranno si fa cancellare il nome tatuato sul braccio, rimasuglio di un amore eterno dissoltosi nella suruba di sesso del mese prima. Ha scovato diverse foto in internet, impossibile nascondere alcunché all'indagine di un brasiliano.
Fabiana dovrebbe preoccuparsi della sua situazione in favela, se lo viene a scoprire il Capo, e anche se ha una parrucca finta il serpente tatuato che le sale dal pube è riconoscibile. Qualsiasi sia la posizione attorcigliata dei corpi, il tatuaggio è come una targa di riconoscimento. È l'olezzo del desiderio e della sorte, in bilico sulla data di scadenza. Edilson agonizza sotto le triplici punte annerite e mi guarda con una smorfia a condividere necessità e sofferenza. "Fazer o que?" Che ci vuoi fare... La musica aggredisce da ogni angolo, bar e groviglio di lamiere, fra le zaffate di un ventilatore industriale. È il ripetitivo elettrico "Metti nel cu- metti con rabbia- metti nel cu- metti con rabbia...", ritornello trapanante dell'ultima ora.
Una battona del Mesozoico si avvicina petulante e decido di spacciarmi per tedesco. Lei incalza, citando rugosa improbabili nipoti europee. Mi rinfaccia di non averle chiesto da bere, che ci avrebbe pensato lei. Diocenescampi, ma adesso mi sciorina le protette e le prodezze a cui vorrebbe traghettarmi. Incombe con gli occhi dolci di una Crudelia Demon scudisciando le braccia raggrinzite verso una terrazza là in cima, dove alcune nudità sculettano al ritmo di calypso.
Emozione e timore non mi pervadono, dopo aver affrontato i fucili delle favela non mi faccio intimidire da due seni cadenti. Il trucco sta nel non lasciar trasparire passione, lasciando che il tempo continui a fluire sovrano su ogni irrequietezza. Se qualcosa insegna il vivere è forse a consolidare l'intervallo fra le proprie scelte, concentrandosi sulle piccole cose. Dissipo il sorriso e mi alzo. Cerco inutilmente di seminare la mamasan, introducendomi negli stretti corridoi dove le ragazze cercano di nascondere l'opulenza sotto striminzite braghette, e a volte nemmeno quelle, mentre i ragazzoni procurano il miglior prodotto per il loro biglietto da venti. 
Dopo soli cinque minuti di urla e contrattazioni in quel meretricio da 120 mila clienti al mese, la pappona cafetina mi scova davanti alla porta di un privè, perduto nel labirinto di bancarelle e vapori collosi di salsiccia. Sono il suo miraggio in valuta forte, così riattacca con sevizie particolareggiate. "Vai, meu filho, coraggio figliolo, ti piacerà un po' di sesso con le mie figlie, sono giovani e calde, belle in carne, fanno tutto, lo prendono di qua e di là, se vuoi ti procurano anche un aiutino, una pillola o un po' di polvere...".
Non ce la farò mai a spacciarmi per uno di loro, nonostante la curiosità rimani sempre indietro, vorresti essere confuso nel panorama e alla fine scopri che le tue sinapsi hanno un codice di età, una genetica geografica che ti impedisce semplicemente di buttarti sul mucchio. Rimarrò sempre un gringo. Divertirsi senza preoccuparsi della data di scadenza è un privilegio cui non posso aspirare, loro vivono e io li guardo esplorare, mi guardo osservare fino a quando, chissà, un proiettile vagante passerà curiosamente attraverso una zucca, la mia o quella che mi sta di fronte.
Il minestrone di collettività nel quale sono immerso non è il paesaggio della natura. È un brodo difficile da sorbire, dopo le prime ore hai bisogno di una pausa, di una fuga salutare. Decido di strapparmi al placcaggio in malo modo, un insulto e via, mi sento stanco di essere riconoscibile, cerco di perdermi una volta tanto. Perché è tutto incapacità affascinante e io mi sento su un piedestallo, troppo esposto alle mie debolezze.
Di fronte, una specie di casinò del piacere spiattella dolcezze all'ombra della platea sghignazzante, glutei cosce e capezzoli scuri o larghi come in una sagra della frittella. Orecchie e fiati diretti sulle pause, occhi incollati alle separazioni fra bellezza e smarrimento. Ogni carne ha il suo piccolo prezzo, ogni nuova pelle una modesta illusione, che scivola mese dopo mese verso l'anonimato. Ogni perla opaca diventa spazzatura priva di palcoscenico, dimenticata dai riflettori. Proprio lì diventa padrona della propria solitudine, può vendere o regalare quel che resta in cambio di amicizia, centellinare l'eco delle giornate migliori a piccoli sorsi distratti.
"O - o - o - o - o dov'è quell'accendino, che mi fumerò uno spino...", intona goliardo il funky del maconheiro. Le nuvole artificiali provenienti dalle griglie delle salsicce color del tramonto ci sospingono sempre più agli angoli delle luci, come una farofa di troppo. Un ultimo sguardo alle carni esposte, celate dalle copie innocenti dei sogni di ogni donna bambina. Mentre un venditore di lattine seduto su una sedia di plastica ci prega di non sostare davanti al suo improvvisato punto vendita. Si vive di istanti. Si lotta a pelle.




Tratto dal sito “Musibrasil”, Anno IV, n° 9, Ottobre 2009.





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