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Sagarana La Lavagna Del Sabato 25 Settembre 2010

QUANDO CI CHIAMAVANO CLANDESTINI O «MUSI NERI»



Negli Usa eravamo «Wop»: without passport, senza passaporto


Gian Antonio Stella


QUANDO CI CHIAMAVANO CLANDESTINI O «MUSI NERI»



 

Chi rende onore ai ventisette milioni di emigrati italiani: chi ricorda la storia tutta intera, coi suoi dolori, le sue disperazioni, i suoi lutti, o chi ne ricorda solo un pezzo, «addomesticandola» per ragioni di bottega? Il tema è tornato a dividere la politica anche ieri, nell’anniversario di una delle grandi tragedie della nostra storia, quella di Marcinelle. Di qua Giorgio Napolitano e Gianfranco Fini, a chiedere per gli immigrati un po’ di rispetto. Di là i leghisti. Spintisi con Um­berto Bossi a liquidare il tema facendo di ogni erba un fascio: «Noi andavamo a lavo­rare, non ad ammazzare la gente».
«Il ricordo delle generazioni che han­no vissuto l’angoscioso periodo delle mi­grazioni dalle regioni più povere dell’Ita­lia », ha scritto il capo dello Stato nel suo messaggio, «deve costituire ulteriore mo­tivo di riflessione sui temi della piena in­tegrazione degli immigrati». «Il lavorato­re merita rispetto anche se non ha il ' pa­pier ', il documento», ha spiegato il presi­dente della Camera in visita in Belgio, «Poi ci si può dividere sulle politiche del­l’immigrazione ma è inammissibile che si possa considerare il lavoratore non co­me un uomo o una donna che meritano rispetto, ma come momentaneo suppor­to di cui si ha necessità». Di più: «All’epoca gli italiani che lavora­vano qui non erano extracomunitari per­ché la parola non era ancora stata inventa­ta, ma qualche volta erano considerati di­versi, 'musi neri'». Di più ancora: «Quegli italiani non ve­nivano solo dal Sud ma anche dal Nord Italia, come dimostra 'l’anagrafe' della tragedia di Marcinelle» e sarebbe bene che questa «verità storica» fosse ricorda­ta dagli «esponenti politici che rappresen­tano il Nord nel nostro Paese». Non l’avessero mai detto! Certo, «il lavoratore in quanto uomo o in quanto donna meri­ta sempre rispetto», ha risposto Roberto Calderoli, «ma col dovuto rispetto va an­che processato ed espulso, quando non sia in possesso dei requisiti necessari». E mentre il senatore leghista Gianvittore Vaccari rispondeva piccato che «noi era­vamo andati a dare un contributo alle sin­gole nazioni, quindi non solo per la man­canza di lavoro in Italia», Roberto Cota si è spinto più in là, dicendo che «l’introdu­zione del reato di clandestinità è la prima forma di rispetto e di chiarezza nei con­fronti di tutti» e che i nostri emigrati van­no ricordati «come esempio di chi rispet­tava le regole del Paese ospitante». Prova provata che, prima di sottoporre i profes­sori alla prova di dialetto, è indispensabi­le introdurre nei programmi di scuola la storia della nostra emigrazione.
Che i nostri nonni e i nostri padri non siano «mai stati clandestini» come si avven­turò a sostenere anche Carlo Sgorlon, è una sciocchezza smentita non solo dalla memoria di quanti hanno vissuto l’emigra­zione, dal nostro soprannome in America («Wop»: without passport , senza documen­ti) o dalle copertine della Domenica del Cor­riere che raccontavano di mamme travolte sulle Alpi da tempeste di neve come Angela Vitale che «si era messa in viaggio dalla lon­tana Sicilia con i suoi sei bambini», ma da decine di studi italiani e stranieri. Certo, in alcune fasi storiche e in alcuni paesi la nostra emigrazione è stata «an­che » regolare e concordata con accordi bi­laterali, ad esempio, quello con Bruxelles del 1946: «Per ogni scaglione di 1.000 ope­rai italiani che lavoreranno nelle miniere, il Belgio esporterà in Italia: tonn. 2500 mensili di carbone...». Tuttavia anche in quegli anni c’erano due correnti parallele. Una di emigranti re­golari, l’altra di clandestini. Che attraversa­vano le Alpi lungo i sentieri battuti nel 1947 dall’inviato del Corriere Egisto Corra­di («passavano centinaia e centinaia di emigranti per notte: una volta ne passaro­no mille in poco più di ventiquattr’ore, con nidiate intere di bambini») in condi­zioni spesso così disperate che a un certo punto il sindaco di Giaglione, in alta Val di Susa, fu costretto a invocare un finanzia­mento supplementare alla prefettura di Torino «non avendo più risorse per dare sepoltura ai clandestini che morivano nel­l’impresa disperata di valicare le Alpi».
Gli italiani, oltre ad avere conquistato la stima, la riconoscenza, l’affetto dei Pae­si che hanno pacificamente «invaso», han­no «detenuto a lungo il primato dell’eso­do clandestino», ha scritto Sandro Rinau­ro, docente alla Statale di Milano, nel li­bro Il cammino della speranza con il qua­le ha seppellito sotto tonnellate di docu­menti inequivocabili (258 note per il solo capitolo terzo, 262 per il quarto) tutti i luoghi comuni costruiti intorno alla tesi che «i nostri avevano sempre le carte in regola». E senza ricordare le esperienze estreme, come i 1.300 italiani morti nella guerra d’Indocina dopo essere stati in buona parte costretti ad arruolarsi nella Legione Straniera perché sorpresi dalla gendarmerie all’ingresso clandestino in Francia (come Rosario Caruso detto «Sari­no », che passò il Piccolo San Bernardo con Egisto Corradi tirandosi dietro nella neve una valigia con 35 chili di fichi sec­chi) basti rifarsi ai dati ufficiali francesi del ’57: «Degli 80.385 lavoratori perma­nenti giunti dalla penisola in quell’anno, 44.852 erano entrati regolarmente e 35 533 furono regolarizzati dopo che erano riusciti a penetrare impunemente». Vogliamo rileggere il rapporto del diret­tore della Manodopera straniera del mini­stero del Lavoro parigino, Alfred Rosier, al­la fine del 1948? Dei 15.000 italiani presen­ti nel dipartimento agricolo del Gers, «il 95%» era «irregolare o clandestino».
Quan­to ai familiari, erano entrati illegalmente in Francia addirittura «il 90%». Come al­l’ 80% erano entrati irregolarmente gli ita­liani censiti nell’area di Parigi dall’Institut national d’études démographiques. Di do­v’erano? Anche qui ha ragione Fini. Ce lo ricorda, tra mille altri documenti, una rela­zione del Comitato di Italia Libera di Nan­cy consegnata alla Croce Rossa italiana di Parigi su 47 clandestini rifiutati e non re­golarizzati (anche allora a molti imprendi­tori facevano comodo i clandestini da sot­topagare...) perché deboli di salute. Veni­vano in ordine decrescente dalle province di Bergamo, Padova, Udine, Vicenza, Bellu­no, Verona, Treviso... Era il 1946. Ecco, nel giorno in cui entra in vigore una legge che solo pochi anni fa avrebbe colpito centinaia di migliaia di nostri non­ni, padri, fratelli, val la pena di ricordarlo. O come minimo di riflettere su un punto: un conto è la durezza (sacrosanta) contro i delinquenti e la gestione, anche severa, dei flussi immigratori e un altro è sparare nel mucchio come ha fatto ieri il segreta­rio della Lega fingendo di ignorare quanti extracomunitari perbene (che regalano al­­l’Italia, tra parentesi, oltre il 9,2% del Pil) hanno fatto la fortuna di tanti imprendito­ri anche leghisti che mai si sognerebbero, come fece tempo fa lo stesso Bossi, di chia­mare i neri «bingo bongo».




(Tratto dal Corriere della Sera on-line del 9 Agosto 2009.)




Gian Antonio Stella
Gian Antonio Stella




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