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Sagarana La Lavagna Del Sabato 30 Aprile 2011

PASOLINI, CALVINO E I FASCISTI



La cultura della sinistra e il massacro del Circeo


Pierluigi Battista


PASOLINI, CALVINO E I FASCISTI



 

Erano «borghesi», «fascisti», «pariolini», violenti. L’efferatezza bestiale del loro crimine si era scatenata su due donne indifese, e questo stava a simboleggiare la cifra «sessista» di una sopraffazione senza confini; e perdipiù su donne «proletarie», e questo particolare ne denunciava la propensione al sopruso «di classe», manifestazione estrema e delinquenziale di una condizione di illegittimo privilegio. I tre assassini del Circeo - Izzo, Ghira e Guido - divennero subito la personificazione di qualcosa di ancor più torbido e infernale di un semplice Male politico, incarnazione di una negatività storica - il «fascismo» - che oltrepassava i confini della dimensione politica vera e propria per trasformarsi in tara antropologica, abiezione umana, turba psichica prima ancora che errore ideologico.
Era il 1975 e la raffigurazione artistica di questo connubio di ferocia e potere sembrava esprimersi nel truculento Salò di Pier Paolo Pasolini. Ma Pasolini, proprio due giorni prima di morire, sorprese ancora una volta il mondo culturale di sinistra e imbastì sul misfatto del Circeo una polemica politico-giornalistica, il cuore di una provocatoria ed estrema «lettera luterana» il cui destinatario era Italo Calvino. A poche ore dalla morte, Pasolini aveva colto nel commento calviniano sul delitto del Circeo (apparso l’8 ottobre sul Corriere della Sera ) il segno di una narcotizzante pigrizia intellettuale, l’aggrapparsi a certezze solide ma inaridite dall’uso e dall’abuso: l’antifascismo rituale, l’identificazione convenzionale tra borghesia italiana e fascismo, la pretesa di fissare una volta per tutte l’inferiorità antropologica e financo umana del «nemico». Un Pasolini tutto diverso da quello lugubre di Salò, il 30 ottobre del ’75 scrisse sul Mondo la sua lettera a Calvino («Tu dici», è l’incipit inequivocabilmente accusatorio) per contraddirlo: «Ho da ridire sul fatto che tu crei dei capri espiatori, che sono: "parte della borghesia", "Roma", i "neofascisti"».
Era una sferzata ai comodi clichés della cultura di sinistra e solo la morte all’Idroscalo di Ostia, quarantotto ore dopo, impedì il consueto profluvio di polemiche che negli ultimi anni aveva travolto ogni scorreria «corsara» di Pasolini. Ma resta altresì significativo che l’ultimo scritto pasoliniano sia stato il suo intervento sul Circeo. Non una difesa dei massacratori, ovviamente. Ma l’insofferenza per chiavi di lettura che a Pasolini risultavano terribilmente anacronistiche. Aveva scritto Calvino: «questi esercizi mostruosi si presentano con la sguaiataggine truculenta delle bravate da caffé, con la sicurezza di farla franca di strati sociali per cui tutto è stato sempre facile, una sicurezza che fa passare in meno che non si dica dai pestaggi all’uscita della scuola alle carneficine nelle ville del week-end». Una linea di assoluta continuità sembra stabilirsi nell’argomentazione calviniana tra «i pestaggi» neofascisti e le «carneficine».
Ma questa continuità è il preludio di un’ulteriore coincidenza socio-politica in cui i «picchiatori fascisti» altro non sarebbero che il frutto marcio di «una parte della borghesia italiana che vive e prospera e prolifera senza il minimo senso di ciò che appartenere a una società significa come relazione reciproca tra gli interessi personali o di gruppo o quelli della collettività». Con il che i neofascisti responsabili della carneficina diventano il prodotto di una «borghesia» su cui a metà degli anni Settanta, nel clima infuocato di una politicizzazione integrale del discorso pubblico, il ceto intellettuale di sinistra scaglia la sua scomunica storica definitiva. Ma nell’intervento di Calvino sui criminali del Circeo Pasolini scorge l’esatto contrario della propria rappresentazione del «nuovo» fascismo, quello del «genocidio» culturale dell’elemento genuinamente popolare e della «neolingua» imposta dall’acculturazione violenta della televisione, che rende drasticamente obsoleto il «fascismo» vecchio stile anatemizzato alla Calvino.
Pasolini, rivolgendosi a Italo Calvino: «i "poveri" delle borgate romane e i "poveri" immigrati, cioè i giovani del popolo, possono fare e fanno effettivamente (come dicono con spaventosa chiarezza le cronache) le stesse cose che hanno fatto i giovani dei Parioli: e con lo stesso identico spirito, quello che è oggetto della tua descrittività». E ancora, con toni sempre più aspri nei confronti del suo interlocutore (con il quale, come è noto, i rapporti non erano mai stati idilliaci): «I giovani delle borgate di Roma fanno tutte le sere centinaia di orge (le chiamano "batterie") simili a quelle del Circeo; e inoltre, anch’essi drogati. L’uccisione di Rosaria Lopez è stata molto probabilmente preterintenzionale (cosa che non considero affatto un’attenuante): tutte le sere, infatti, quelle centinaia di batterie implicano un rozzo cerimoniale sadico». Di più: «L’impunità di tutti questi anni per i delinquenti borghesi e in specie neofascisti non ha niente da invidiare all’impunità dei criminali di borgata». Nel cuore degli anni Settanta, in cui la violenza politica è all’ordine del giorno, la pratica della violenza fa dire a Calvino che, a proposito dei fatti del Circeo, «criminalità politica e criminalità sessuale sembrano in questo caso definizioni riduttive e ottimistiche», ma Pasolini, nel suo ultimo scritto, legge qualcos’altro nei volti delinquenziali di Angelo Izzo e dei suoi due compari stupratori. Lo ripete ancora una volta, in un passaggio che lo stesso Pasolini definisce una «litania»: «la nuova cultura ha distrutto cinicamente (genocidio) le culture precedenti, da quella tradizionale borghese, alle varie culture particolaristiche popolari».
Se nella cultura della sinistra il massacro del Circeo rappresentava l’ennesimo capitolo di una lotta di classe a parti rovesciate, nell’immaginazione pasoliniana il mostro dell’omologazione consumistica aveva disintegrato le classi e dunque anche la borghesia nel cui seno, secondo la linea calviniana, sarebbero cresciuti il fascismo e i carnefici del Circeo, i picchiatori e gli stupratori, i «pariolini» e gli sfruttatori. Ancora Pasolini contro Calvino: «Tu hai privilegiato i neofascisti pariolini del tuo interesse e della tua indignazione, perché sono borghesi. La loro criminalità ti pare interessante perché riguarda i nuovi figli della borghesia. Li porti dal buio della cronaca alla luce dell’interpretazione intellettuale, perché la loro classe sociale lo pretende». E con accenti che coinvolgono la persona stessa del suo antagonista e anche l’ambiente di cui quest’ultimo è espressione: «Ti sei comportato come tutta la stampa italiana, che negli assassini del Circeo vede un caso che la riguarda, un caso, ripeto, privilegiato». Questo scriveva Pasolini a poche ore da un altro massacro, non nelle case del week-end del Circeo, ma nello squallore dell’Idroscalo di Ostia. Un’altra espressione di bestialità violenta, stavolta non «borghese», ma «popolare».





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