Torna alla homepage

Sagarana La Lavagna Del Sabato 26 Novembre 2011

LA VECCHIAIA



Guido Ceronetti e Arrigo Levi


LA VECCHIAIA



 

GUIDO CERONETTI:
Va considerato oltraggioso un avverbio che viene inesorabilmente interposto nella ripetutissima frase, quando si tratta vecchiaia e vecchi come «problema sociale» - eccola: «La vita, fortunatamente, si è allungata molto». Al suo posto, sarebbe adeguato un purtroppo, ma il coraggio, l’energia vitale della verità manca talmente al linguaggio comune da non far sperare che si ficchi una volta tanto nell’uso. Per me, che non ho voglia di mentire, vale il purtroppo. Si cerca di tamponare la faccenda, quanto al problema sociale, moltiplicando le attenzioni dello Stato assistenziale; quel che le vanifica in buona parte è la quantità enorme di vecchi che con poche varianti d’anni entrano a far parte dello stuolo dei predestinati ad invecchiare, ignari spesso, per altre distorsioni prodotte dal linguaggio traditore, di quel che li aspetta. Allontanare la morte ad ogni costo è il miraggio unico di questo sprofondamento nel sottosuolo della menzogna. La demografia scientifica contiene una falsificazione basilare, oltre al fluttuare delle statistiche: non tiene conto che i vecchi consumano di più di ogni cosa, acqua specialmente, risorse alimentari (la tristezza senile rende mangioni), medicinali di ogni specie, energia di riscaldamento, trasporti, denaro pubblico. Aggiungi, incalcolabile, eco-non compatibile, il consumo di affetto, dato ai vecchi per pietà, dovere, tolleranza, avarizia, una nuvolaglia di vapori neri gravanti sulla vita associata peggio delle emissioni di anidride. L’affetto va risparmiato, perché se lo diamo a rubinetti aperti la terra ne resta asciutta: lo si lesina ai vecchi, d’istinto, perché ne resti un po’ di più ai bambini. Nelle antiche comunità perdute (tra cui Atlantide) i vecchi si sacrificavano per la tribù e andavano incontro alla morte nelle foreste - ma l’Io non era ancora apparso, e non ci sono più abbastanza foreste, specie incantate, per assorbire tante vecchiaie. E nelle giungle d’asfalto ci ritrovano subito e ci danno del disertore. A Tolstoj riuscì il colpo, ma il filo del Telegrafo lo riacchiappò a Ostapovo. Inoltre, socialmente, una quantità di vecchi non sono ancora affatto inutili e il Mercato dell’a-buon-prezzo li spia. È psicologicamente e individualmente che la grande Pandemia di sopravvivenza, cominciata all’incirca alla metà del XX secolo, s’impagina con inedita crudeltà nei moderni contesti del Tragico. La sua maschera dolente si scontra con una feroce inaccettabilità che la nega: sempre più zittiti, ai vecchi viene imposta un’anagrafe falsificata, un’identità non corrispondente, un volto da lifting interiore, che piace al cretino («Ma che bella faccia! Va là che stai bene! Dai dei punti ai giovani!»); i pugnali congiurati del Luogo Comune trafiggono il tuo autentico esserci di persona umana, che non può e non vuole essere Quello che si vuole lei sia, e che pretende l’inquisizione degli ottimisti, una irrealtà di costruzione medica e di finta premura sociale, un raccapricciante «diversamente giovane», ma semplicemente e umilmente un corpo vecchio, che vive arretrando, come sa, come ci riesce, e in cui il pensiero della morte non osa più dirsi, per la brutalità della repressione linguistica, liberatorio e di speranza. La vecchiaia per antonomasia, la realtà senile che ha più parentela col Tragico è la maschile; non ci sono due condizioni uguali: le donne sono favorite dalla diversità sessuale e mentale. La donna vecchia ha ancora forze sufficienti per consolare la vecchiaia dell’uomo vecchio. Non sono paragonabili le due solitudini. Chi ha avuto e perso una compagna amata è infelice allo stato puro. Portagli pure a casa la zuppa calda: potrebbe venire dallo Chef Premio Nobel più ispirato, non ne scalfirebbe l’infelicità neppure per un minuto. Fin che può la vecchia signora allontana la pena occupandosi della casa e di attività sociali; il vecchio gentleman mangia pane di ghiaccio solido. Se è colto, gli restano i libri; certamente non la televisione (vedi il romanzo breve di Simenon, Il Presidente, perfetta radiografia di una vecchiaia molto ricca e molto bene assistita). Osservate nelle case di riposo le facce degli uomini e quelle delle donne, quando non siano spente dalla malattia mentale: nelle donne sopravvive sempre qualcosa di ilare, di facilmente appagabile, un’onesta rassegnazione che per pudore non si manifesta; l’uomo nel suo avvilimento è senza misura, nei suoi tratti si esprime uno stato di desolazione indeterminato, senza confini. In genere socializzano poco, sono dei manichini, dei tubi digerenti orbi di digestione. L’uomo vecchio sente sempre che il suo incontro con l’esserci è stato un fallimento, che è mancato all’appuntamento con quel che è più alto. E rimane muto, davanti a tanta sciagura, mentre gli altri chiacchierano e chiacchierano, impotenti a capire. L’essenza del Tragico maschile è la privazione di appagamento. Con molta cautela Sofocle ne fa intravedere un modo al termine dell’Edipo a Colono, Victor Hugo lo vede nella morte del Giusto che è Jean Valjean. Nelle tremende solitudini sovraffollate di vecchiaie in eccesso delle nostre giungle metropolitane, però, restano all’esterno le redenzioni trasmesse dalle nostre carte esemplari. Anche la maialità senile è enigma e dramma maschile. Ricordo un filosofo di cui ammiravo la dottrina: seppi che, da pensionato, restò fino alla morte tuffato nell’Osceno. Alle donne niente di simile potrà mai accadere. Ma la maialità dei vecchi che perdono il controllo (così si dice) non ha spiegazioni facili. Il vecchio perde il ritegno più per disperazione che per vizio, in specie dopo una vita irreprensibile, non può far conto di corteggiamenti, sbatte nell’impotenza. La perdita totale di rapporti con gli accessi ad altri mondi e con il Dio Ignoto, fracassa le dighe frollite dal cumulo d’anni. E la moltiplicazione dei vecchi dissemina fortemente, coperto o manifesto, maialismo senile. Le innumerevoli ipertensioni domate non fanno precipitare in una pornofilia indomabile? Il geriatra allungando (altro non può fare) la vita, prescrivendo farmaci sgattiglianti, perché non dorma «il garrulo eremita», e nello stesso tempo antidepressivi e sonniferi, non allunga anche la torturante altalena degli affanni sessuali maschili al di là del segno di un decente traguardo? Volete che le carrozzine dei centenari, davanti ai sexshop dei più disumani paesaggi urbani, facciano la fila? Non sarebbe il diavolo a sospingerle là dentro? La némesis-natura risponde colpo su colpo a tutti, nessuno escluso, gli oltrepassamenti di limiti, che diventano, in un granello di filosofia, altrettanti modi predestinati delle oscure espiazioni metafisiche da cui si origina la vita (Volontà schopenhaueriana o qualsiasi altra forza emanata dai boccaporti dell’Essere). La politica, cieca come uno squalo, balbetta i suoi «fortunatamente» e lo strafalcione delle sue «problematiche», e un famoso pugno-di-mosche è sempre tutto quanto, alla fine, ci resta in mano. Io, qui, non ho pensato che ad emendare al minimo, di qualche impurità e falsificazione, il linguaggio della tribù.
 
 
 
IL COMMENTO DI ARRIGO LEVI
"Caro Ceronetti, com'è bello essere vecchi"

Risposta all'autore dello "Stuzzicaventi", dal suo ex direttore: il trascorrere dei decenni ti ha arricchito, ti ha reso unico
 
Caro Guido, leggendoti l’altro giorno sulla Stampa, e mentre provavo uno slancio di tenerezza e di ammirazione, mi sono sentito in colpa. Possibile che non ci vediamo da tanti anni (quanti? forse 40)? È vero che sono sempre rimasto in contatto con la tua scintillante intelligenza, attraverso i tuoi scritti (a volte traditori, apparsi su giornali che non sono la «nostra» Stampa, tua, di Ronchey che «ti scoprì» e ti amò, e mia).Ma quel tuo ultimo (latest, beninteso, non last) articolo sui vecchi, sormontato da quella fantastica fotografia di due vecchie, bellissime mani intrecciate - l’indice distorto della sinistra sembra il mio, che quando batto i tasti tende sempre a trasformare le t in r - mi ha colpito.Prima di tutto mi sono detto: ma quanto è diventato bravo, col passare degli anni! Eri già bravissimo quando ero io, o meglio Casalegno, a mettere in pagina i tuoi elzeviri, quarant’anni fa. Ma adesso non sei più soltanto bravo. Hai raggiunto la grandezza, puoi collocarti sesto tra cotanto senno, scegli tu a tuo piacimento gli altri cinque degni di starti accanto, non aver limiti nella tua scelta.Poi mi sono anche detto: che strani frutti dà la vecchiaia! Che strano il fatto che Guido, nel disegnare, con la precisione di un grande pittore del nostro Rinascimento, il quadro minuzioso di tutti i danni della vecchiaia, si sia dimenticato di dipingere, in un angolo del quadro, accanto ai vecchioni malandati che ha spietatamente ritratto, lo splendore nudo di una forma femminile, rappresentazione miracolosa della sapienza senile. Mio caro, ti sei dimenticato di dire che il trascorrere non degli anni ma dei decenni ha ancora arricchito quel misterioso intreccio di sinapsi cerebrali che ti rende così unico, inimitabile, irraggiungibile, nel panorama della letteratura italiana, ma che dico italiana, mondiale, del nostro tempo. Mah, sarà forse anche questo effetto della vecchiaia. Il frutto maturo dell’intelligenza ceronettiana non cessa di diventare più smagliante e ricco. Ma forse è diminuita la coscienza che il mio amico vecchio ha della sua grandezza.Così mi sono deciso a scrivertelo io. Per la verità, quando mi sono seduto al computer avevo in mente di scrivere tutt’altro articolo. Pensa un po’: volevo scrivere una lettera di ringraziamento (non la prima, gliene scrissi già un’altra due anni fa) a Beppe Grillo, ignaro, utilissimo strumento di salvezza della nostra democrazia. Essendo sempre il tema la vecchiaia, pregi e difetti, avevo messo da parte, accanto all’ultima, grandiosa divagazione grillesca, il tuo saggio, che mercoledì, nella pressione del lavoro, non avevo avuto il tempo di leggere. L’ho letto, prima di cominciare a scrivere, ne sono stato folgorato, e così un’ipotetica lettera a Grillo si è trasformata in una lettera d’omaggio al mio amico Ceronetti. Però, mi perdonerai una battuta rivolta al Beppe nazionale, potenziale, inconsapevole salvatore della patria. Grillo, che ha cultura, dice una cosa importante: che «la democrazia rappresentativa è finita ed è cominciata la democrazia partecipativa», e tutto questo grazie alla Rete. Immagino che tu, Guido, sappia cosa è la Rete, anche se non ti ci vedo a dialogare elettronicamente con migliaia di ragazzotti sprovveduti, posti dalla Rete sul tuo stesso piano. Grillo immagina, in parole povere, di tornare alla democrazia com’era ai tempi dell’agorà ateniese, magicamente allargata dalla Rete al mondo intero. Immagina di far risuscitare il governo del popolo, come fu visto e giudicato per secoli e millenni, finché i saggi inglesi non inventarono il miracolo della democrazia rappresentativa, fondata su libere elezioni. Fino a quel momento il governo delle assemblee popolari era stato giustamente condannato come l’inevitabile anticamera della tirannide. Democrazia era, almeno fino al Settecento, una brutta parola, ed era giusto così. Caro Grillo, consapevole o no di quanto Lei in realtà propone, questo è: farci fare un salto indietro di un paio di millenni, e prepararci, col suo governo assembleare-reticolare, una nuova inevitabile tirannide; ancor più mostruosa, vista la potenza dell’uomo contemporaneo, di quelle che furono le tirannidi del Novecento, anch’esse figlie della follia delle moltitudini. Per fortuna, Beppe Grillo, che vuole soltanto i trentenni al potere (visto che lui è nato il 21 luglio del 1948, è due volte trentenne, e prossimo dunque, a parer suo, a lasciare la scena, dopo aver raggiunto l’apice della bravura e della fama; mentre da trentenne era, come è ovvio, soltanto un comico fra tanti), ci ha avvertiti in tempo. Bando ai trentenni e alla democrazia reticolare, Dio ci conservi la nostra imperfetta, faticosa, a volte vergognosa democrazia rappresentativa. Perdonami, Guido, se ti ho lasciato per qualche momento. Ma era te che avevo nel cuore, e se ne avessi il tempo mi dilungherei in una risposta a te sulla grandezza della vecchiaia, sulla crescita mentale che, fortuna permettendo (no, non ignoro affatto le tristezze della vecchiaia), non si arresta mai, sulla saggezza che si accresce cogli anni, su quel grande patrimonio di idee e di parole che il tempo accumula in quella scatola misteriosa che ha nome cervello. Dio conservi e protegga il tuo, per il bene di noi tutti.




Guido Ceronetti e Arrigo Levi
Guido Ceronetti (Andezeno, 24 agosto 1927) è un poeta, filosofo, scrittore, giornalista, traduttore, drammaturgo, teatrante e marionettista italiano.




    Torna alla homepage home