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Sagarana La Lavagna Del Sabato 17 Dicembre 2011

LE MORTI BIANCHE DELLA BICICLETTA



Fragili, coraggiosi, incoscienti: le discese sono la sfida più estrema. Mario Fossati le chiamò "a tomba aperta": fischio di tubolari e freni sull'orlo dell'abisso. Si muore sul lavoro, da gregari, sempre lontano da casa. Il paradiso di chi corre è in pianura.


Gianni Mura


LE MORTI BIANCHE DELLA BICICLETTA



 

Un altro morto sul lavoro, lontano da casa sua. Spesso, oltre il traguardo, un corridore dice di essere morto, ma è vivo. È morto quando sta immobile, come Weylandt, come Casartelli, come Simpson. Una delle canzoni più scopertamente liriche di Paolo Conte s'intitola Diavolo rosso ed è idealmente dedicata a Giovanni Gerbi, astigiano, uno dei nostri pionieri. E a un certo punto evoca la morte contadina, che risale le risaie e arriva puntuale sulle aie bianche. Nel ciclismo è uguale, la morte arriva non si sa quando sulle strade bianche, o grigie, o rossastre. Il ciclismo è uno sport legato alla terra, anche se di quelli che vanno forte si dice che volano. E' un modo di dire. Li chiamano falchi, aquile, aironi, ma sono ragazzi senza difesa che non sia l'attenzione, che a volte non basta, e la buona stella.

Nella discesa del Bocco la stella di Weylandt è passata dal rosa al nero in un attimo. Anche lui era un ragazzo senza difesa, un paio di braghette e forse la maglia della salute sotto quella piena di scritte di sponsor. Un casco, certo: da quando Fabio Casartelli è morto nella discesa del Portet d'Aspet il casco è obbligatorio. Casartelli s'era schiantato contro una lastra di pietra, messa a protezione del vuoto, in teoria dei ciclisti. Ma i ciclisti non hanno protezione, e i velocisti come Weylandt devono andare forte in discesa per quanto vanno piano in salita. Altrimenti, quando vincono? Dei giorni di Casartelli ricordo tutto, e in particolare, con rabbia, una cerimonia di premiazione come se nulla fosse successo. Almeno questo, per la sensibilità degli organizzatori, è stato risparmiato al dolore di chi resta e alla breve memoria della sua carriera. La vittoria più importante l'aveva ottenuta l'anno scorso proprio al Giro, in Olanda. E' tornato al Giro e non c'è più. Basta un attimo. Il ciclista è legato alla terra come la morte contadina. Le immagini mostrano un corpo steso all'ombra di grandi alberi fioriti di bianco. Il ciclista deve imparare a capire le curve della strada, quelle comode e quelle strozzate, a intuire le buche, a sperare che non ci sia ghiaietto e nessuna auto perda olio. Deve sputare l'anima in salita, perché la droga, per chi la prende, non risolve tutto. Aiuta forse a morire prima, ma lontano dalle strade, quando emboli e tumori s'insediano in un corpo che ha bussato alla farmacia sbagliata. Deve forzare in discesa, 80, 90, anche cento all'ora che i telecronisti indicano sul tachimetro della grossa moto. Le auto, molto avanti o dietro, non terrebbero quella velocità.

Il sogno di Lance Armstrong, l'ha scritto nel suo primo libro, era di morire in un campo di girasoli, in Francia, dopo una discesa a 200 all'ora. Il sogno di Weylandt non lo sapremo. Spero che i suoi colleghi trovino il modo giusto per ricordarlo, oggi, come fu fatto per Simpson, per Casartelli. Simpson in gruppo lo conoscevano tutti, Casartelli pochi, era una sorta di milite ignoto, al suo posto, in una caduta di gruppo e senza casco, poteva esserci chiunque. Per questo il gruppo sui Pirenei celebrò un funerale lungo 237 km, una dolorosa transumanza sotto un sole feroce. Perché il ciclismo ha un sacco di difetti, diciamo pure di colpe, ma è ancora lo sport più ricco d'umanità, di solidarietà. E' terribilmente semplice e chiaro. Mario Fossati, quando ha scritto per la prima volta di una "discesa a tomba aperta", sapeva di che si trattava.

Occorre aver sentito il rumore dei freni, il fischio dei tubolari larghi pochi millimetri, occorre aver visto la danza macabra dei corridori sull'orlo dell'abisso. La discesa del Galibier, da qualunque parte la si affronti, è sempre a tomba aperta. C'è chi se la cava, come Horrillo, come Van Est. C'è chi rimane in un burrone come un fantoccio spezzato, come Francisco Cepeda, giù dal Galibier al Tour del '35. In discesa è più facile farsi molto male, perché si va più forte, ma la morte non ha preferenze, può colpire anche in volata, dove pure si va forte: Sandro Fantini, detto il tamburino di Fossacesia, morto al Giro di Germania. E Agostinho, il toro, fatto cadere da un cane al Giro dell'Algarve dell'84. Serse, il fratello di Fausto Coppi, cade dentro la città di Torino e picchia il capo contro un marciapiede, al Giro del Piemonte del '51. Finisce la corsa, va a complimentarsi col suo amico Bartali, il vincitore, poi va a farsi bello in albergo. Ha un vestito scuro, camicia bianca e cravatta in valigia. Ha un appuntamento galante. E' il vestito che gli metteranno nella bara. Un'auto mette sotto Monseré, un grande talento belga, un venditore di programmi provoca la caduta mortale di Josè Samyn, un francesino dal sorriso largo, a Zingem. Stan Ockers, sopravvissuto a tutte le strade, muore sulla pista di Anversa.

Una moto fa fuori Camille Danguillaume a Monthléry. Alla prima tappa del Giro cadono muoiono Juan Manuel Santisteban nel '76, subito, e dopo due settimane Emilio Ravasio nell'86. E' un lungo elenco, com'è lungo quello dei morti sul lavoro, dei muratori che cadono da un'impalcatura, degli operai schiacciati da una pressa, agganciati da un ingranaggio, avvelenati dalle esalazioni. Di sport, come di tutto, si può morire. Il ciclista sa che può morire e corre per vivere. Il suo paradiso è in pianura.





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