La Lavagna Del Sabato 15 Marzo 2008

UN'IDEA DI RACCONTO

Guido Guglielmi





C'è la narrazione breve e c'è la narrazione lunga. Tuttavia non è al livello dell'estensione che si oppongono i tipi di narrazione. O comunque non soltanto a questo livello. Bisognerà piuttosto parlare di strutture. E il racconto assume una particolare importanza nel Novecento perché diventa la struttura di base del romanzo formalmente più innovativo. Se per esempio pensiamo a un libro come l' Ulysses che pure è di grandi dimensioni, notiamo che è costituito di episodi assolutamente autonomi, ognuno dei quali può essere letto come un "pezzo" conchiuso. Volendo far un esempio italiano si potrebbe richiamare uno scrittore che ha certamente imparato da Joyce, vale a dire Svevo, che quando scrive l'ultimo suo romanzo lo compone di otto episodi, ognuno dei quali sviluppa pienamente il suo tema, un po' come una novella del Boccaccio. Certo il Decameron è un'opera unitaria, ma ogni sua novella ha un significato autonomo. Il suo significato unitario si coglie a un più alto livello di comprensione ma resta aperto. Le singole novelle sono autosufficienti; e il tutto articola un significato complesso. Allo stesso modo possiamo considerare (e leggere) come un'unità a sé stante ogni episodio dell' Ulysses o della Coscienza di Zeno . Le legge della loro consecuzione è la coordinazione, non la subordinazione (l'ordinamento gerarchico rigido).
Questo non sarebbe possibile con i grandi romanzi che in particolare l'Ottocento ha prodotto. Non possiamo leggere un capitolo di Guerra e pace , il romanzo più grandioso del secolo scorso; siamo obbligati a leggerlo per intero. Nell'Ottocento ci sono grandi scrittori di racconti, però l'ambizione dello scrittore ottocentesco è il romanzo come grande unità funzionale. Il racconto è considerato un genere minore. Ed anche nel Novecento, soprattutto in Italia, quante volte non si è parlato di un passaggio al romanzo, come di una necessità per superare la dimensione ristretta del racconto? Quante volte non si è rimproverato agli scrittori di non sapere andare al di là della misura breve, della short story ? Lo scrittore di racconti si è teso a considerarlo scrittore di respiro corto, incapace di dare il grande affresco, di crescere alla dimensione del romanzo. Ora io credo che per il romanzo nuovo del Novecento il discorso vada rovesciato. Perché lo scrittore che diciamo novecentesco (e non importa qui che il romanzo di tradizione ottocentesca continua a sopravvivere) non si propone di riempire l'intero spazio del narrabile, che è poi l'intero spazio del mondo. Riassumere la totalità del mondo in una prospettiva delle prospettive: questo è il grande mito dello scrittore dell'Ottocento. Si pensi al romanzo storico, realistico e naturalistico, alle grandi serie produttive di Balzac e Zola, allo stesso Verga che progettò un ciclo di romanzi che non gli riuscì poi di realizzare. Lo scrittore novecentesco al contrario rifugge dal tutto configurato. E risale a modelli più antichi. Riscopre lo humour di Swift. E piuttosto disperde la storia (alla maniera di uno Sterne) in una pluralità di incidenti narrativi, la fa continuamente deviare, le impedisce di assumere una configurazione.

Per uscire fuori da un'argomentazione astratta, portiamo l'esempio di Gadda. E prendiamo il suo romanzo più noto: Il pasticciaccio . Il romanzo è costituito da pezzi o frammenti narrativi. Il sistema di Gadda è quello di un'officina narrativa, dalla quale escono pezzi che trasmigrano da un libro a un altro, si combinano ogni volta diversamente, e sono in permanente elaborazione. Ciò che conta è il processo del narrare piuttosto che la forma (sperimentale) in cui viene ad assestarsi. Se lo scrittore che chiamiamo genericamente naturalista produce una narrazione che procede per connessioni di causa ed effetto di modo che il personaggio va incontro a trasformazioni che ne definiscono la forma (o il destino), Gadda è lo scrittore da leggersi tutto e sempre episodicamente. I particolari in Gadda si impongono sulla definitività della forma. Egli si è definito «dissociato noetico». Chiediamoci che cosa ciò significhi. Quando noi ci riferiamo a una personalità dissociata, pensiamo a una psicologia patologicamente turbata, a una sensibilità lacerata, a un personaggio delirante. Gadda però non parla della dissociazione psichica, che la scienza psicologica conosce e studia, ma della dissociazione noetica che vuol dire tutt'altra cosa. Egli chiama in causa la noesi, cioè la formatività, la condizione formale dell'immaginare, del produrre storie. Siamo fuori dalla psicologia. E osservando il suo stile notiamo infatti che è uno scrittore che riprende le parole altrui e le altera, le riprende e le distorce e soprattutto le mette in conflitto. L'oggetto della quête non è definito, e attorno ad esso si scontrano diversi tipi di enunciazione, diversi tipi di punti di vista. Può essere un punto di vista basso-mimetico, burocratico-borghese, alto-mimetico, sempre riarticolato nei modi di una pronuncia distanziante, sempre cioè relativizzato. E la dissociazione allora non è psicologica, non è patologica: è una dissociazione di punti di vista, di modi di intenzionare l'oggetto, una dissociazione appunto noetica. Non c'è un punto di vista che abbracci i punti di vista parziali e li ricomponga unitariamente. La pretesa di dominare il reale è lasciata cadere. E reale diventa ciò che sfugge a questa pretesa.
In un romanzo come Il processo di Kafka c'è una struttura di giallo perché la ricerca riguarda la colpa, senonché noi conosciamo il colpevole che fin dalla prima pagina ci viene presentato, ma non la colpa. Il romanzo si apre come enigma, e questo enigma nel corso del romanzo si ispessisce. Il personaggio non viene a definirsi, e il romanzo, come si sa, non ha una conclusione. In luogo della compiutezza della configurazione c'è un oggetto - la colpa - sempre promesso e sempre differito. Il romanzo racconta il sottrarsi del rappresentato. Tornando al Pasticciaccio , la situazione è inversa e simmetrica: c'è la colpa, non c'è il colpevole. Alla maniera di un giallo, il romanzo inizia con due delitti invece che uno, con una specie di replica dello stesso delitto, e si chiude interrompendosi. Alla fine il colpevole non viene fuori. I fili si aggrovigliano, invece di districarsi. Della coerenza interna dei vari elementi resta solo la parodia. E si ha l'impressione di una materia estremamente elaborata nei particolari, e incoesa nel quadro d'insieme. Allo stesso modo, nella Coscienza di Zeno , ogni episodio (si tratti del fumo, o dell'amante, o della situazione commerciale) racconta l'intera vita del personaggio, la replica a partire da una particolare angolazione, la risolve in una somma di totalità parziali. I particolari prevalgono sul tutto.

Un discorso che abbiamo sentito fare è che lo scrittore contemporaneo si trova davanti ad una realtà complessa per cui parte da un progetto (tradizionale) di narrazione, ma non è in grado di realizzarlo. Così, ancora per modo d'esempio, Gadda ambirebbe ad uno sguardo panoramico sull'esistenza, ma fallirebbe nella sua impresa per la resistenza dei materiali. La stessa tesi di Contini è che Gadda potrebbe riscattare il dato negativo dell'intelletto solo grazie alla sua estrema vitalità. La passione vitale lo salverebbe dalle conseguenze del pessimismo della ragione. In realtà la narrazione novecentesca si inserisce in una tradizione che non è quella ottocentesca, ma è più antica (l'abbiamo detta swiftiana e sterniana) e che comporta altri principi costruttivi. Lo scrittore contemporaneo rinuncia alla totalità, non la progetta più, e fa appunto della dissociazione noetica il suo principio costruttivo. La sua tradizione è quella umoristica in cui il mondo si presenta nella forma di un problema. Non come un problema da risolvere, da esaurire in una risposta, ma come un problema che apre a una più ampia serie problematica, allo stesso modo che quanto più amplio un angolo di illuminazione, tanto più si estendono i confini dell'oscurità. E la narrazione quindi procede non solo senza incontrare un orizzonte degli orizzonti, ma senza neppure presupporlo idealmente. E dunque è il frammento, l'episodio, il racconto la sua cellula vitale.
Scriveva Musil che è del tempo di Socrate dirsi ignoranti, del nostro tempo essere ignoranti. E ciò spiega perché la tradizione umoristica sia divenuta dominante. In effetti Socrate è colui che comincia con il sottovalutarsi, col riconoscere la maggiore eccellenza delle ragioni altrui, per poi rovesciare le parti e confondere l'interlocutore. Socrate è un eiron . Mentre parla ironicamente mettendosi al di sotto del suo interlocutore, non dubita di occupare una posizione più alta (e più prossima alla verità). L'ironico presenta un significato rovesciato, dice "a" per intendere "non a", ma negativamente identifica l'oggetto. E lo identifica secondo verità. È questa verità che sospende al contrario la dissociazione noetica di Gadda, la quale corrisponde abbastanza esattamente al principio dell'umorismo di Pirandello. L'umorismo pirandelliano infatti non è una strategia del dire, qual è l'ironia, ma un modo di cogliere la fluttuazione dell'oggetto tra le sue possibilità estreme, un modo di dissociare (Pirandello parla di scomposizione) la sua identità o la sua apparenza di identità. Ma come scomporre l'oggetto se non dissolvendolo nella sua pluralità (nelle sue parti), riconoscendo una legge della disparatezza o della dissonanza? Non è che dell'oggetto non si dà definizione perché esso sfugge, ma perché esso è strutturalmente indefinito. Non dobbiamo quindi dire che lo scrittore umorista tenta disperatamente di avvicinarsi a un oggetto che per la sua complessità risulta inaccessibile. È questo pathos che egli nega. Ciò che nega è che l'oggetto sia identificabile, che sia una forma. Lo humour si applica all'inganno della rappresentazione. E crea situazioni comiche e drammatiche che lo svelino.

C'è un racconto di quello stupendo scrittore che è Antonio Delfini, che s'intitola Il fidanzato . E ci riferiamo per una volta ad un racconto vero e proprio, inteso come genere, ma pienamente rispondente all'idea di racconto che si sta proponendo. È la storia di un personaggio (Teodoro Gondaro) che viaggia alla volta della sua fidanzata, che lo sta aspettando, e lungo la strada rivive tutti i deliri della sua vita. Naturalmente il racconto finisce prima che l'incontro si realizzi. C'è l'avvicinamento alla meta, non la meta. In genere nel racconto il cammino è un'allegoria della vita, una rappresentazione spaziale del tempo. Nel racconto di Delfini è la strada che ha la struttura del tempo. Lo spazio è temporalizzato. E si capisce che non ci sia mieta. Il fidanzato va incontro alla sua identità futura e non potrà incontrarla. Questo è l' explicit del racconto: «Così Teodoro Gondaro che ancora riprendeva nei ricordi tutti quegli incontri che potessero accostarlo al suo amore, si avvicinava alla casa della sua fidanzata, che lo stava aspettando, occupata anche lei a ricordare, a far gli stessi pensieri». La fidanzata è un doppio del fidanzato, e gli rimanda i suoi stessi pensieri. Il personaggio viaggia alla volta di se stesso; il cammino non può finire. E tutti i racconti (maggiori) di Delfini parlano di questo stesso personaggio, di un unico personaggio destinato a un percorso avventuroso che come il tempo non conosce punti d'arresto o di soluzione. La narrazione è interminabile. E Delfini può ripetere lo stesso racconto. Non è il personaggio che misura il tempo, ma il tempo che misura il personaggio. È quello che si intende, quando si parla di narrazione aperta.
Potremmo anche dire che Delfini ha scritto un romanzo - l'unico suo romanzo - scandito in racconti. Ed è un romanzo che consente al nostro discorso di compiere un passo avanti. Perché, come Teodoro Gondaro, il personaggio umoristico non ha destino. È «un uomo senza qualità». E come potrebbe essere interamente raccontato un personaggio senza destino? Come potrebbe avere fine la storia di Zeno Cosini? Tocchiamo qui il problema del tempo. Ci sono due modi di considerare la temporalità di un oggetto: la temporalità può investirlo e cambiarlo, o presentarsi come la sua condizione d'essere. Nella narrazione ottocentesca il personaggio entra nel divenire ed è messo alla prova. Egli progetta la propria avventura e tenta di realizzarla. La realizza con un compromesso con il mondo; o soccombe agli ostacoli che incontra nel suo percorso. È un'identità che, arricchendosi o corrompendosi, attraversa il tempo. Nel modello umoristico, al contrario, il personaggio ha al proprio interno la potenza del mutamento, del fluttuare, della non coincidenza con se stesso. Non è messo alla prova del divenire perché non ha identità. E può accadere che nel corso della narrazione cambi nome. Il suo nome è uno pseudonimo. Il personaggio insomma è strutturalmente indefinito, irrealizzato, non un'identità ma il rischio della propria identità. Come nell'arte figurativa contemporanea la figura non sta nello spazio, ma costituisce lo spazio, così in questo tipo di narrazione il personaggio non sta nel tempo, ma lo costituisce. E ogni stazione narrativa - episodio o racconto - non si connette saldamente e logicamente all'altra, ma è lasciata alla sua libertà e sta per l'altra. Il divenire non è teleologico.

E qui il discorso può tornare sulla Coscienza di Zeno , che pur ripetendo la stessa materia di fondo di Una vita o di Senilità , ha una struttura profondamente nuova in cui ogni episodio è un diverso taglio temporale in profondità, un riepilogo provvisorio di una vita ancora in fieri , e quindi suggerisce un ritmo dell'esperienza, ammette una organizzazione libera (musicale) tra le parti, una costruzione a mosaico, non una concatenazione causale. Ma il romanzo di Svevo è interessante perché si deve leggere anche come una metanarrazione, e in particolare come un dialogo tra due tipi di narrazione. Il primo è rappresentato dal dottor S., il quale pensa che si è sani o malati. La cura è un'azione; e questa deve avere un esito positivo o negativo. Il suo modello di romanzo è naturalistico, perché l'azione deve seguire un cursus , una traiettoria di fatti e conseguenze, e giungere a compimento. Ora il dottor S. rimprovera a Zeno di averlo derubato del suo successo, interrompendo la cura proprio nel momento in cui la guarigione era in vista e stava per essere raggiunta. Il secondo tipo di narrazione è rappresentato da Zeno, il quale pensa che la cura è la vita stessa, e quindi non può finire se non con la morte. La vita è una cura che non può essere a sua volta curata. L'alternativa tra salute e malattia è illusoria. Rileggiamo il celebre brano: «La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non appena curati». Da una parte dunque la cura è un processo che si conclude con la guarigione o con il suo fallimento. Dall'altra la cura non ha fine (Zeno la continuerà commerciando), e la guarigione sarebbe la morte. Da una parte la narrazione a percorso fisso; dall'altra la narrazione fluida, «per crisi e lisi», divagante, in progress .
Ma La coscienza di Zeno (per fermarsi ancora un momento su questo romanzo) dice qualcosa di più. Dice che il narrare, come la cura, è un differimento della morte. Come si sa, Svevo fa sconfinare la scena privata nella scena pubblica. A un certo punto Zeno passa dalla narrazione memorialistica alla notazione diaristica e introduce il tema della guerra. La metanarrazione si allarga a critica della civiltà. E la volontà di concludere - non è di ogni guerra dirsi sempre ultima? - diventa la malattia dei moderni, e anzi della civiltà tout court . Anche della storia si vuole insomma la guarigione. Ed ecco il finale del romanzo che ha giustamente attirato l'attenzione dei lettori, un finale densissimo e di splendida ambiguità: «Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. E un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' più ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie».
La grande cura della civiltà - conclude il narratore - ci sta portando al disastro, alla terra come pianeta morto («ritornata alla forma di nebulosa»). Quello che avevamo letto qualche periodo prima, Svevo torna a ripeterlo. Ci stiamo avviando a «turare i buchi» del corpo del mondo. È proprio del grande umorismo nero presentare la cosa più indesiderabile come la cosa più desiderabile. E Svevo ripete la stessa proposizione in un discorso allargato e in chiave più polemica e ironica, ma grandiosamente umoristica. C'è una sola definitività per Svevo, ed è quella della morte (verso la quale la civiltà è incamminata). La parola che conclude è quindi esclusa dal campo noetico. Al quale appartiene solo la parola che "letteraturizza" la vita, la ritarda, la trattiene al di qua della sua fine (o, umoristicamente, della sua perfezione). E si tratterà allora (torniamo al nostro discorso) di quella narrativa che non pretende più di riassumere il mondo in un quadro totale, e i personaggi in unità di significato - in destini -, ma si abbandona ad un ritmo discontinuo, rapsodico, fondato appunto sul pezzo staccato, l'episodio, il racconto.

 
( Tratto dal sito Bollettino ‘900)



Guido Guglielmi





        
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