La Lavagna Del Sabato 28 Giugno 2008

SETTE TESI CONTRO L'UOMO GLOBALE

– Perché lo strapotere capitalista può essere sconfitto dal «cosmopolitismo» –

Ulrich Beck





La prospettiva nazionalistica - che equipara la società con i cittadini della nazione stato - ci rende ciechi davanti al mondo in cui viviamo. Per poter afferrare la correlazione tra popoli e popolazioni di tutto il globo, occorre innanzitutto una prospettiva cosmopolita. Il comun denominatore del nostro pianeta così densamente popolato è la "cosmopolitizzazione", che sta a indicare l'erosione dei confini che si frappongono tra mercati, stati, civiltà, culture e non da ultimo tra le esperienze di vita dei vari popoli. Il mondo non ha perduto certamente le sue frontiere, ma questi tracciati si fanno sempre più sfocati e indistinti, e diventano permeabili al flusso di informazioni e capitali. Un po' meno quando si tratta del flusso delle persone: i turisti sono ammessi, gli immigrati no.

Nei vari ambiti di vita e di istituzioni a livello nazionale e locale si verifica un processo di globalizzazione interna, che va ad alterare le condizioni che consentono la costruzione dell'identità sociale, non più caratterizzata dalla dicotomia negativa del "noi" e "loro". A mio avviso, è importante che la cosmopolitizzazione non avvenga in qualche dimensione astratta o generica, al di sopra della testa delle persone, ma che prenda corpo nella vita di tutti i giorni degli individui ("cosmopolitizzazione quotidiana"). Lo stesso vale per le operazioni interne della politica, ormai globali a tutti i livelli e persino nel campo della politica nazionale, proprio perché devono tener conto della dimensione globale delle interdipendenze reciproche, dei flussi, delle reti, delle minacce e via dicendo ("politica interna globale"). Dobbiamo chiederci, per esempio: come si modifica la nostra comprensione del potere e del controllo in un'ottica cosmopolita? Per rispondere a questa domanda, vorrei proporre sette tesi. La globalizzazione è una forma di controllo anonimo.

PRIMA TESI - Nel rapporto tra economia globale e stato si va delineando un meta gioco di forze, una vera lotta nel cui contesto si riscrivono le regole attinenti al potere nel sistema di stati nazionali e internazionali. L'economia in particolare ha sviluppato una sorta di meta potere, sottraendosi ai rapporti organizzati in termini di territori e nazione stato, per conquistare nuovi meccanismi di intervento nello spazio digitale. Il termine "meta gioco di potere" significa che si combatte per il potere e al tempo stesso si alterano le regole della politica mondiale, abbandonando lo stretto orientamento finora in vigore, focalizzato sulla nazione stato. Se ci si chiede qual è la fonte del meta potere delle strategie del capitale ci si imbatte in una circostanza straordinaria. L'idea di base era stata formulata nel titolo di un giornale dell'Europa dell'est, in occasione della visita nel 1999 del cancelliere tedesco, in questi termini: "Vi perdoniamo per le Crociate e aspettiamo i vostri investimenti". E' il preciso rovesciamento del calcolo delle teorie classiche sul potere e sul controllo ad accrescere il potere delle imprese transnazionali: il mezzo di coercizione non è la minaccia di invasione, bensì la minaccia di non invasione da parte degli investitori, oppure la loro partenza. Come a dire, c'è solo una cosa peggiore di essere sommersi dalle multinazionali, e cioè quella di non esserlo.

Questa forma di controllo non è più associata all'espletamento degli ordini, bensì alla possibilità di realizzare investimenti più redditizi in altri paesi, e alla minaccia velata introdotta da queste opportunità, vale a dire la minaccia di non fare nulla, di rifiutarsi di investire in un determinato paese. Il nuovo potere delle imprese non si basa sull'uso della violenza come ultima ratio per costringere gli altri ad adeguarsi alla propria volontà. E' molto più flessibile, perché in grado di operare indipendentemente dalla località, e pertanto globalmente. Non parliamo di imperialismo, ma di non-imperialismo: non invasione, ma ritiro degli investimenti, questo è il nocciolo del potere economico globale. Un potere economico disgiunto dal territorio, che non esige né attuazione né legittimazione politica. Nell'insediarsi, riesce a scansare le istituzioni delle democrazie evolute, tra cui parlamento e magistratura. Il meta potere non è né legale né legittimo: è "translegale". Eppure interviene ad alterare le regole dei sistemi di potere sia nazionali che internazionali. L'analogia tra la logistica militare del potere dello stato e la logica del potere economico è davvero sorprendente. Il volume del capitale di investimento corrisponde al potere di fuoco dell'arsenale militare, seppur con la fondamentale distinzione che in questo caso il potere si accresce con la minaccia di non fare fuoco. Lo sviluppo dei prodotti è l'equivalente dell'aggiornamento dei sistemi di armamento. L'insediamento delle filiali di grandi multinazionali in molti paesi si sostituisce alle basi militari e al corpo diplomatico.

La vecchia regola militare che l'offesa è la miglior difesa oggi si traduce in: lo stato deve investire in ricerca e sviluppo per saper reagire all'offensiva globale del potere del capitale. Quanti più fondi sono assegnati alla ricerca e all'istruzione, tanto più forte sarà la voce di quello stato nell'arena della politica mondiale (o almeno così si spera). Il potere della minaccia di non-investimento oggi si avverte quasi ovunque. La globalizzazione non è una scelta: è un potere anonimo. Nessuno l'ha avviata, nessuno può fermarla, nessuno se ne accolla la responsabilità. La parola "globalizzazione" sta difatti a significare l'assenza organizzata della responsabilità. Si cerca qualcuno a cui rivolgersi, per presentare un reclamo, per esporre le proprie ragioni. Ma non esiste una struttura da interpellare, nessun numero di telefono, nessun indirizzo e-mail. Tutti si sentono vittima, nessuno colpevole. Persino i presidenti delle multinazionali (questi "principi moderni" di stampo machiavellico), che amano farsi corteggiare, devono per definizione sacrificare pensiero e comportamento sull'altare degli azionisti, se ci tengono a conservare la poltrona. Una nuova prospettiva per un nuovo approccio.

SECONDA TESI - L'ironia insita nella teoria di questo meta potere vuole che le occasioni di azione tra i co-protagonisti siano già inserite nel gioco. Esse dipendono essenzialmente da come gli attori definiscono e ridefiniscono la politica, e queste definizioni sono i prerequisiti del successo. Solo una critica decisa dell'ortodossia della nazione stato, accompagnata dall'emergere di nuove categorie orientate alla prospettiva cosmopolita, sarà in grado di spalancare nuove opportunità di potere. Chiunque aderisca ancora al vecchio dogmatismo nazionale (al feticcio della sovranità, per esempio, e alla politica unilaterale che ne deriva) verrà travolto e sorpassato. Sono precisamente i costi che gli stati si sobbarcano come conseguenza della loro fedeltà alle vecchie regole della nazione stato sui rapporti di potere, che obbligano al passaggio a un punto di vista cosmopolita. In altre parole: il nazionalismo - la rigida aderenza alla posizione che i meta giochi di potere nella politica mondiale sono e devono restare nel campo nazionale - si rivela estremamente costoso. Questa è stata la recente lezione impartita in Iraq a una potenza mondiale come gli Stati Uniti. La confusione tra politica nazionale e globale altera la prospettiva, e allo stesso tempo ostacola ogni riconoscimento e comprensione delle nuove caratteristiche dei rapporti e delle risorse di potere. Questo significa rinunciare a sfruttare l'occasione per trasformare le regole dei vincenti-perdenti e perdenti-perdenti del meta gioco di potere nelle regole dei vincenti-vincenti, dalle quali lo stato, la società civile globale e il capitale possono approfittare simultaneamente. Si tratta di rovesciare l'idea fondamentale di Marx: non è l'essere che determina la consapevolezza, bensì la consapevolezza che sfrutta al massimo le nuove possibilità di azione (la prospettiva cosmopolita) da parte degli attori coinvolti nei rapporti di potere politico a livello globale. Esiste una via maestra alla trasformazione della propria situazione di potere. Ma prima occorre cambiare la nostra prospettiva sul mondo: sarà una visione scettica e realistica, ma pur sempre una visione cosmopolita! Solo al capitale è consentito contravvenire alle regole.

TERZA TESI - Per ironia della storia, la visione del mondo screditata dal collasso del comunismo in Europa è stata oggi adottata dai vincitori della Guerra fredda. I neoliberali hanno elevato le debolezze del pensiero marxista a fede incrollabile, in particolare la sua cocciuta sottovalutazione dei movimenti nazionalistici e religiosi, come pure il suo modello storico lineare e unidimensionale. Dall'altro lato, invece, hanno chiuso gli occhi davanti all'intuizione marxista secondo la quale il capitalismo libera forze anarchiche e autodistruttrici. Resta un mistero perché i neoliberali siano tanto convinti che le cose possano evolvere diversamente nel ventunesimo secolo. Ad ogni modo, le varie minacce di catastrofi ambientali e rivoluzioni imminenti parlano oggi un linguaggio molto diverso. I principi neoliberali rappresentano un tentativo di generalizzare a partire dalle vittorie storiche di breve durata del capitale mobile. La stessa prospettiva del capitale si qualifica come assoluta e autonoma, e spinge il potere strategico e lo spazio delle possibilità delle economie classiche verso una sete di potere sub-politica e mondiale. Successivamente, quello che va bene per il capitale diventa la migliore opzione per tutti. Per dirla ironicamente, la promessa è che la massimizzazione del potere del capitale resta, in ultima analisi, la strada preferita verso il socialismo. I neoliberali, tuttavia, insistono sul seguente: nei nuovi meta rapporti di potere, il capitale ha due pezzi e dispone di due mosse. Tutti gli altri invece hanno sotto mano, come prima, un unico pezzo e una sola mossa. Il potere del nuovo liberalismo si fonda, pertanto, su una disuguaglianza radicale: non a tutti è consentito contravvenire alle regole. Infrangere o cambiare le regole resta la prerogativa rivoluzionaria del capitale. La prospettiva nazionalistica della politica cementa il potere superiore del capitale. Questa superiorità, peraltro, scaturisce essenzialmente da uno stato inadempiente, da una politica che si rinchiude nel guscio eterno delle regole tra i rapporti di potere nazionali. Chi incarna dunque il contro-potere, chi è l'antagonista del capitale globalizzato? Il contro-potere siamo noi, i consumatori.

QUARTA TESI - Nella coscienza pubblica dell'Occidente, il ruolo del contro-potere al capitale, capace di infrangere le regole, non appartiene allo stato, bensì alla società civile globale e alla molteplicità dei suoi protagonisti. In breve, si potrebbe dire che il contro-potere della società civile globale si incarna nella figura del consumatore politicizzato. Non diversamente dal potere del capitale, questo contro-potere è la conseguenza del poter dire - sempre e ovunque - "no", rifiutandosi di fare un acquisto. L'arma del non acquisto non può essere delimitata, né nello spazio, né nel tempo, né in termini di un oggetto specifico. Dipende tuttavia dall'accesso al denaro da parte del consumatore, e dall'esistenza di un'eccedenza di beni e servizi disponibili tra i quali il consumatore può scegliere. Fatale per gli interessi del capitale risulta il fatto che non esiste strategia per contrastare il crescente contro-potere del consumatore. Persino alle imprese globali onnipotenti manca l'autorità di licenziare il consumatore. Perché, a differenza dei lavoratori, i consumatori non appartengono all'azienda. E anche la minaccia ricattatoria di spostare la produzione in un paese diverso, dove i consumatori sono ancora sottomessi, si rivela uno strumento del tutto inefficace. Grazie a una rete informatica e adeguatamente mobilitato, il libero consumatore, non legato a nessun marchio, può organizzarsi transnazionalmente e trasformarsi in un'arma letale. Sacrificare l'autonomia, riaffermare la sovranità.

QUINTA TESI - La politica dello stato va ridefinita, a questa esigenza ormai non si sfugge. Indubbiamente, i rappresentanti e i protagonisti della società civile globale sono indispensabili ai rapporti di meta potere globale, specie per l'attuazione dei valori cosmopoliti. Voler ottenere uno spazio astratto di possibilità sulla base di politiche statali e proiettarlo nella costellazione cosmopolita, tuttavia, conduce a una gigantesca illusione. Vale a dire che le contraddizioni, le crisi e gli effetti collaterali della seconda "grande trasformazione" oggi in corso potrebbero essere civilizzati da nuovi portatori di speranza, dal coinvolgimento nella compagine della società civile, e per di più su scala vastissima. E' una linea di pensiero che appartiene invece alla galleria dei ritratti degli antenati del non politico. Se vogliamo sottrarci alla struttura del nazionalismo nel contesto della teoria e dell'azione politica, è essenziale operare una distinzione tra sovranità e autonomia. Il nazionalismo si fonda invece sull'equazione tra sovranità e autonomia. Da questo punto di vista, la dipendenza economica, la diversificazione culturale e la cooperazione militare, legale e tecnologica tra gli stati conduce automaticamente a una perdita di autonomia, e pertanto di sovranità. Se, d'altro canto, la sovranità si misura dal grado in cui uno stato è capace di risolvere i suoi problemi nazionali, allora la crescente interdipendenza e collaborazione che riscontriamo oggi - e cioè, la perdita di autonomia - conducono in realtà a un'affermazione di sovranità. Nell'ottica del cosmopolitismo, questa intuizione è cruciale: la perdita di autonomia formale e l'incremento di sovranità di contenuto potrebbero rafforzarsi a vicenda. La globalizzazione significa entrambe queste cose: un accrescimento di sovranità da parte degli attori, per esempio, in virtù del fatto che tramite la cooperazione, gli scambi e le interdipendenze essi sono in grado di acquisire una capacità di azione a grandi distanze, accedendo così a nuove opzioni - mentre il rovescio della medaglia di questi sviluppi è che interi paesi rischiano di perdere la propria autonomia. La sovranità di contenuto degli attori (collettivi e individuali) viene ribadita quanto più si riduce l'autonomia formale. In altre parole: sulla scia della globalizzazione politica assistiamo alla trasformazione dell'autonomia, in base all'esclusione nazionale, in sovranità, in virtù dell'inclusione transnazionale. Una nazione indifferente nei confronti dello stato.

SESTA TESI - Una risposta politica alla globalizzazione è lo "stato cosmopolita" che si apre al mondo. Questo stato non nasce dalla dissoluzione o sostituzione dello stato nazionale, ma da una trasformazione interiore, attraverso una "globalizzazione interna". Le potenzialità legali, politiche ed economiche a livello locale e nazionale sono ristrutturate e spalancate al mondo. Questa creatura ermafrodita - uno stato allo stesso tempo cosmopolita e nazionale - non si definisce con criteri nazionalistici nei confronti degli altri paesi. Sviluppa invece una rete di scambi sulla base del reciproco riconoscimento dell'altro e dell'uguaglianza tra le diversità, al fine di risolvere le problematiche transnazionali. Il concetto di stato cosmopolita si basa sul principio dell'indifferenza della nazione nei riguardi dello stato. Ciò rende possibile la coesistenza di varie identità nazionali, in base al principio della tolleranza costituzionale all'interno del paese e dei diritti cosmopoliti all'esterno. Con il Trattato di Westfalia del 1648, la guerra civile del sedicesimo secolo, innescata da conflitti religiosi, si concluse con la separazione tra stato e credo religioso. Analogamente (questa è la mia tesi), le guerre mondiali e civili del ventesimo secolo potevano risolversi con la separazione dello stato dalla nazione. Proprio come fu uno stato non religioso a rendere possibile la pratica di diverse religioni per la prima volta, la rete di stati cosmopoliti deve garantire la coesistenza di identità nazionali ed etniche tramite il principio della tolleranza costituzionale. Così come si dovette reprimere la teologia cristiana all'inizio dell'era moderna in Europa, oggi l'azione politica deve puntare a sottomettere la teologia nazionalistica. Se questa possibilità fu del tutto esclusa alla metà del sedicesimo secolo da una prospettiva teologica, e addirittura paragonata alla fine del mondo, un cambiamento di questo genere oggi è totalmente impensabile per i "teologi del nazionalismo", poiché costituisce una rottura con il concetto fondamentale e costitutivo del sistema politico, ovvero lo schema amici-nemici. L'esempio storico di tutto questo è l'Unione Europea. Grazie all'arte politica di creare interdipendenze, i nemici di un tempo si sono trasformati in vicini affiatati. Legati gli uni agli altri dalle "catene d'oro" dei vantaggi nazionali, gli stati membri devono ribadire continuamente il riconoscimento e l'uguaglianza reciproca per mezzo del dibattito. Così facendo essi caratterizzano l'Unione Europea nel senso di una federazione cosmopolita di stati che collaborano al fine di gestire la globalizzazione economica mentre assicurano il riconoscimento della diversità dell'Altro (che sono gli altri stati membri, ma anche i partner europei a livello mondiale): questa potrebbe essere una descrizione realistica, anche se fino a un certo punto ancora utopica. La teoria e il concetto di uno stato cosmopolita devono differenziarsi da tre posizioni: dall'illusione dello stato nazionale autonomo; dalla nozione neoliberale di uno stato economico minimo e deregolato; e infine dalle lusinghe irreali di un governo globale unificato, reso invincibile dalla concentrazione di potere. Trasformare i muri in ponti!

SETTIMA TESI - Da parecchio tempo non si sente parlare d'altro che di relativismo culturale, multiculturalismo, tolleranza, internazionalismo, fino a globalizzazione e globalità. Spunta quindi la seguente obiezione: il concetto di cosmopolitismo non significa semplicemente mettere vino vecchio in botti nuove? E forse non è neppure questione di botti nuove, poiché il termine è in vigore sin dall'epoca degli Stoici nell'antica Grecia, per non parlare poi di Emmanuel Kant, Hannah Arendt e Carl Jaspers? E a queste domande rispondo che la mia teoria della "prospettiva cosmopolita" descrive realtà diverse ed è strutturata diversamente. Tutte le idee già citate si basano sul presupposto di diversità, emarginazione ed estraneità dell'Altro. Il multiculturalismo, per esempio, significa che vari gruppi etnici convivono uno accanto all'altro in un singolo stato. Tolleranza significa accettazione, ma questa potrebbe essere anche di malavoglia, quando la differenza è sopportata come un peso inevitabile. La tolleranza cosmopolita invece va ben oltre. Non è difensiva né passiva, ma attiva e propositiva: significa cioè aprirsi al mondo dell'Altro, percepire le differenze come arricchimento, considerare e trattare l'Altro come nostro pari. Concettualmente, significa sostituire la logica di "o l'uno o l'altro" con la logica del "sia l'uno che l'altro". Pertanto il cosmopolitismo non conduce affatto a uniformità o appiattimento. Gli individui, i gruppi, le comunità, le organizzazioni politiche, le culture e le civiltà desiderano ribadire la loro diversità, e spesso anche unicità, che hanno ogni diritto di preservare. Ma per farlo, occorre trasformare in realtà la metafora, i ponti devono sorgere al posto dei muri. E ancor più importante, questi ponti devono spuntare non solo nella testa delle persone, nella mentalità e nell'immaginazione (la cosiddetta "visione cosmopolita"), ma anche in seno a nazioni e località (la "globalizzazione interna"), nei sistemi normativi (i diritti umani), nelle istituzioni (l'Unione Europea, per esempio), come pure nella "politica interna globale", che intenda fornire una risposta alle problematiche transnazionali (quali la politica energetica, lo sviluppo sostenibile, la lotta contro il riscaldamento del pianeta, la battaglia contro il terrorismo).





(Questo articolo è apparso in tedesco nel numero di novembre 2007 di Literaturen. Traduzione di Rita Baldassarre.)



Ulrich Beck insegna Sociologia alla Ludwig-Maximilians- Universität di Monaco di Baviera e alla London School of Economics.
 





        
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