La Lavagna Del Sabato 23 Agosto 2008


LE MURA DI ESSAOUIRA

Gabriele Bianchi






Tutte le grandi civiltà nascono
dall’incrocio di culture

(L. Senghor)



Se esistesse un tono tra l’ocra e la ruggine, tra il carminio e il fango, allora quello sarebbe il colore delle mura di Essaouira.

Il mare le frusta ogni giorno, da lontano perché ci sono gli scogli di mezzo, impregnando d’umido ogni mattone al punto che l’intero bastione rivolto all’orizzonte sembra lì lì per sbriciolarsi. Ma poi il miracolo si ripete, giorno dopo giorno, mentre all’interno le case bianche spuntano come piante selvatiche, una più alta dell’altra, scrutando con le loro finestre azzurre che il sole scenda anche quella sera. Una foschia imprecisata alla fine dell’Atlantico racchiude il tramonto in un pallore misterioso, al punto che si può solo supporre che il sole non ci sia più, dato che una luce sempre più tenue continua ad esserci ancora a lungo. L’isola della Porpora è lì davanti, in controluce.

Dalla porta della Marina, costruita da un rinnegato inglese nell’anno dell’Egira 1136 (il 1806), a passi lenti si giunge nella grande piazza Moulay Hassan, oltre la quale, sulla sinistra, giacciono le mura della Sqala della Casba. Ho camminato a lungo su quel bastione portoghese rivolto a ponente; molte volte mi sono fermato sulle mura merlate, accanto a uno dei cannoni verderame che qualche volta devono pure aver sparato. E poi ho guardato il mare.


Sotto quelle mura antiche e immobili vive la città, con i classici suk e i tanti mercati nelle piccole piazze: ciò che avvolge il viaggiatore è la mescolanza di odori e colori intensi, che lo investono a ondate – le spezie, il pesce, le pelli lavorate, la carne appesa per la strada; ma anche gli uomini e le donne sembrano avere un aroma diverso.

Intanto il vento sibila tra le vie, portando lontano le parole di una lingua sconosciuta, ma che ti accoglie con i suoi accenti lunghi e strascicati, le consonanti dure e spesse, i modi di dire e i saluti che si possono solo immaginare.

Ahmed mi offre del tè alla menta, non importa se poi mi proporrà l’acquisto di tutto il suo negozio: non c’è fretta, si vedrà. Insh’Allah, se Dio vuole. Soprattutto c’è il tempo di parlare, è questo che stupisce di più: il tempo. Il tempo è ancora parte della vita, non ne scandisce solo il passaggio. Passa un attimo e Ahmed mi spiega già della sua famiglia, della vita in questo pezzo di Marocco, parliamo delle donne marocchine; entra Samir, il suo socio, e mi saluta come se mi conoscesse. Nei loro occhi, c’è ancora intatta l’abilità millenaria del commercio, quell’”arte del prezzo” in Europa ormai perduta, affidata com’è alle cifre indicate sui cartellini e al suono delle casse dei supermercati; ma qui tutto questo non è solo commercio, è anche conoscenza dell’altro, sfida continua fatta di rilanci e controfferte per arrivare ad un accordo, che la stretta di mano finale va a saldare.


Di lontano arriva una nénia, ad un ritmo fino a quel momento sconosciuto.

Au revoir Ahmed devo proprio andare, insh’Allah mi risponde. Perché è la musica a scandire il passo di queste giornate africane: è l’atmosfera del Festival Gnaoua, che si tiene ogni anno a fine giugno nelle piazze di Essaouira. Una moltitudine di genti, proveniente da ogni angolo del nord Africa, e non solo, giunge qui sulla costa atlantica per ascoltare i concerti dei grandi maâlèm, i “maestri”, in un contesto che fonde in sé storie e tradizioni lontane. Si potrebbe parlare di magia, perché magica è la storia del popolo gnaoua (“originario della Guinea” in lingua araba), identificando i discendenti degli antichi schiavi provenienti dall’Africa sub-sahariana, che giungevano a Essaouira in carovane per poi essere imbarcati alla volta delle Americhe, oppure impiegati nelle fabbriche di zucchero della regione. Schiavi contro tè, perché Essaouira era la porta del tè per l’Africa e l’Europa, ed anche uno degli ultimi avamposti prima del Grande Sud e del suo deserto: il Sahara. Proprio dalle sabbie provengono questi ritmi ipnotici, che hanno la stessa finalità della macumba brasiliana o del vudù haitiano: la guarigione del malato, l’esorcismo dagli spiriti maligni tramite l’esercizio della trance. Organizzati in confraternite (a Essaouira se ne contano circa duecento, fondate a partire dal XVII secolo da Mohammad ibn Allah), gli gnaoua rappresentano un insieme di credenze e di miti a se stante rispetto alla religione musulmana, in grado comunque di accompagnarsi a quest’ultima, rimanendone tuttavia distinto e autonomo dal punto di vista spirituale, ma in ogni caso tollerato e rispettato dalle locali gerarchie sunnite. Convivono, quindi, un lato spirituale, legato alla guarigione dalle infermità durante i lila, una delle cerimonie sacre per gli gnaoua insieme alla derdeba, composto di tre elementi fondamentali: la musica, suonata dalla confraternita; il ballo, di gruppo o singolo; la trance, come risultato, ai fini di guarigione. C’è poi un lato profano e giocoso, relativo alla sola dimensione musicale: questa diviene espressione di gioia e di ringraziamento, dei quali il maâlèm ne è l’autorità indiscussa. Le prime note partono dal suo guenbri, una sorta di liuto a tre corde, poi sta al resto della confraternita seguirlo con i krakeb e la ganga (rispettivamente crotali e grossi tamburi), donando alla musica un ritmo veloce e ossessivo, attraverso repentine variazioni di tempo. La voce del maâlèm si fa spazio sul palco, accolta dalle urla della folla, attraverso molteplici invocazioni dirette non solo ad Allah, ma anche al dio del mare e della terra, ai santi cristiani e così via. La forza del rito collettivo sta nel sincretismo racchiuso in sé, assommando differenti esperienze spirituali, come animismo, islamismo, sciamanesimo, cristianesimo.

Il tempo cede il posto allo spazio, occupato dalle danze corali dei suonatori di krakeb: pare di “vederla” la musica, sentirla sarebbe troppo poco. Sicuramente la si vede nelle strade, dove accade quello che non ti aspetti, e cioè che la musica gnaoua sia entrata così profondamente nel cuore della gente, al punto da essere seguita da qualcosa come 400mila persone durante le quattro giornate del festival. Ogni fascia d’età è coinvolta, ma sono soprattutto i giovani a portare avanti la tradizione, e questo è un paradosso se raffrontiamo questa situazione con quella europea. Mi passano davanti altri ragazzi, tutti armati di strumenti e guidati da un giovane di colore improvvisatosi maâlèm; ne trovo altri in spiaggia, a notte fonda, tutti a fare lo stesso ritmo incalzante, con le mani che battono tra loro come schiaffi, a imitare i krakeb. E sono felici.

È il maâlèm Abdeslam Alikane a parlare del rapporto tra modernità, tradizione e creatività nella musica gnaoua: «C’è un grande movimento giovanile: la necessità di trarre spunto dalla tradizione si accoppia con la possibilità di sperimentare ritmi e variazioni altrimenti impossibili; è sul ritmo che si basa la musica, ed è con questo che i giovani esprimono la propria visione» (ad agosto, sempre a Essaouira, si tiene il festival dei giovani talenti gnaoua).

Gli occhi scuri di Ahmed Bakbou, uno dei migliori performer di krakeb, si incastonano in un volto nero e tirato, splendendo di una luce particolare e ignota, come diamanti: forse un ricordo lontano di riti ancestrali, forse è la passione. Provo a fissarlo per un attimo negli occhi, ma mi prendono i brividi; ne rimango affascinato, e anche se mi nega l’intervista non me la prendo più di tanto.

Nella musica gnaoua c’è parola, movimento, entrambi sono strumenti di dialogo con il soprannaturale; c’è anche il respiro del vento ascoltando bene. Al gioco del guenbri da parte del maâlèm, risponde la danza impazzita dei piedi, che sbattono per terra alla ricerca di un’armonia e di un linguaggio comune nel ritmo. Anche nella cultura dei griots - cantastorie e depositari della cultura del popolo Mandingo nel Mali - la parola è fondamentale e i punti di contatto con la gnaoua sono molteplici; Bassekou Kouyaté, tra poco sul palco con la sua band, proviene da una famiglia di griots del Mali: «È come entrare in biblioteca: le storie si tramandano di padre in figlio, sin dall’VIII secolo. C’è una “funzione sociale” della memoria.»


È un filo rosso che corre in questo spicchio d’Africa, congiungendo esperienze, storie, drammi e leggende. Mi siedo per terra ad ascoltare la musica; attorno a me tante persone. Sorrido, devo sembrare stupido, ma nessuno mi dice nulla: mi sento accolto. Sul taccuino un’ultima impressione: il tempo, sto recuperando il tempo. Il tempo per camminare, per sorridere, per parlare fino a notte fonda con un amico. Il tempo di aspettare l’occasione buona.




Per contattare l'autore Gabriele Bianchi scrivete a ga.bianchi@libero.it


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