La Lavagna Del Sabato 30 Maggio 2009


RIFLESSIONI SUL ROSPO

George Orwell





Prima della rondine, prima della giunchiglia, e non molto dopo il bucaneve, il rospo saluta a suo modo l’arrivo della primavera: emergendo, cioè, dalla buca nel terreno in cui è rimasto sepolto dall’autunno precedente e trascinandosi il più velocemente possibile verso la più vicina pozza d’acqua a disposizione. Qualcosa – un fremito nella terra o forse solo l’aumento di pochi gradi della temperatura – gli ha comunicato che è tempo di svegliarsi (anche se sembra che di tanto in tanto qualche rospo dorma sodo e salti un anno intero. Non so come stiano le cose, però più di una volta ne ho dissotterrato uno, vivo e apparentemente in buona salute, in piena estate).

In questo periodo dell’anno, dopo il lungo digiuno, il rospo ha un’aria molto spirituale, come un anglocattolico osservante verso la fine della Quaresima. Ha movimenti fiacchi ma risoluti e il corpo è talmente rattrappito che gli occhi, per contrasto, sembrano sproporzionatamente grandi. Questo permette di notare, come non si può fare in nessun altro periodo, che l’occhio del rospo è forse il più bello fra quelli di tutte le creature viventi. E’ simile all’oro, o più esattamente a quella pietra dura di colore dorato che talvolta si vede negli anelli col sigillo e che credo che si chiami crisoberillio.

Una volta tornato in acqua, il rospo si dedica per qualche giorno a ritemprarsi mangiando piccoli insetti. Rapidamente riacquista le dimensioni normali e quindi attraversa una fase di intensa sessualità. Se è maschio, sa solo che vuole mettere le braccia intorno a qualcosa, e se gli offrite un bastoncino, o persino un dito, vi si aggrappa con forza stupefacente, e ci mette un bel po’ a capire che non si tratta di una femmina di rospo. Capita spesso di imbattersi in masse informi di dieci o venti rospi che si rotolano nell’acqua, avvinghiati tutti insieme senza distinzioni di sesso. Gradualmente, però, si dividono a coppie, col maschio opportunamente seduto sul dorso della compagna. Ora diventa possibile distinguere i maschi dalle femmine, perché i primi, più piccoli e scuri, stanno sopra la femmina e tengono le zampette anteriori strettamente allacciate intorno al suo collo. Dopo un paio di giorni le uova vengono deposte in lunghe strisce che serpeggiano tra le canne e presto diventano invisibili. Ancora poche settimane e l’acqua si anima di un’enorme quantità di minuscoli girini che crescono rapidamente; prima appaiono le zampe posteriori, poi quelle anteriori, infine perdono la coda. Più tardi, verso la metà dell’estate, una nuova generazione di rospi, meno grandi dell’unghia di un pollice ma perfetti in ogni dettaglio, striscia fuori dall’acqua e la danza ricomincia.

Parlo della riproduzione dei rospi perché è uno dei fenomeni primaverili che mi attraggono di più e perché, diversamente dall’allodola e dalla primula, il rospo non è mai stato molto celebrato dai poeti. Ma mi rendo conto che molti non amano i rettili o gli anfibi, quindi non voglio suggerire che per godersi la primavera sia necessario provare interesse per i rospi. Ci sono anche il croco, il cuculo, il tordo, il prugnolo e molte altre cose. Ma quel che importa è che i piaceri della primavera sono disponibili per tutti, e non costano niente. Persino nella più squallida delle strade l’arrivo della primavera si manifesta con qualche segnale, fosse solo quell’azzurro più intenso che appare fra i comignoli o il verde scuro di un sambuco che spunta in un’area bombardata. E’ davvero notevole come la natura continui a esistere abusivamente, per così dire, proprio nel cuore di Londra. Ho visto un gheppio volare sopra gli impianti del gas di Deptford e ho ascoltato l’impeccabile assolo di un merlo a Euston Road. Devono esserci centinaia di migliaia, per non dire milioni, di uccelli residenti nel raggio di quattro miglia, ed è bello pensare che nessuno di loro paga un soldo d’affitto.

Quanto alla primavera, neppure le stradine anguste e tetre intorno alla Banca d’Inghilterra riescono a tenerla fuori del tutto. Arriva e s’insinua ovunque, come quei nuovi gas venefici che attraversano ogni filtro. Normalmente la primavera viene definita “un miracolo”, e negli ultimi cinque o sei anni questa consunta figura retorica ha ripreso vigore. Se pensiamo a quali inverni abbiamo dovuto sopportare ultimamente, la primavera sembra davvero un fatto miracoloso, perché ogni volta è stato più difficile credere che sarebbe tornata. A ogni febbraio, dal 1940 in poi, mi sono sorpreso a pensare che quella volta l’inverno sarebbe durato per sempre. Ma Proserpina, come i rospi, risorge sempre dal mondo dei morti, e più o meno nello stesso periodo dell’anno. Di colpo, verso la fine di marzo, avviene il miracolo e lo slum degradato in cui vivo si trasfigura. Giù in piazza i ligustri fuligginosi sono ormai d’un verde brillante, le foglie si addensano sui castagni, le giunchiglie sbocciano, i rampicanti germogliano, le giubbe dei poliziotti assumono una sfumatura d’azzurro decisamente gradevole, il pescivendolo saluta i clienti con un sorriso, e persino i passeri cambiano colore perché, avvertita la mitezza dell’aria, hanno preso il coraggio, per la prima volta da settembre di farsi un bagno. Ma è forse un delitto provare piacere per la primavera e per gli altri cambi di stagione? O, per essere più precisi: è politicamente censurabile, mentre tutti gemiamo, o perlomeno dovremmo gemere, sotto il giogo capitalista, far notare che spesso la vita è resa più degna d’esser vissuta dal canto di un merlo, dal giallo di un olmo in ottobre o da qualche altro fenomeno naturale che non costa nulla e non presenta ciò che i direttori dei giornali di sinistra definiscono una “prospettiva di classe”? Non c’è dubbio che molti risponderebbero di sì. So per esperienza che se in qualche articolo accenno favorevolmente alla Natura mi tiro addosso lettere ingiuriose, e sebbene in esse la parola-chiave sia di solito “sentimentale”, sembra che contengano due idee fuse insieme. La prima è che provando piacere nei semplici processi vitali si incoraggerebbe una specie di quietismo politico. Secondo questa logica, la gente dovrebbe mantenersi costantemente insoddisfatta, e il nostro compito sarebbe quello di moltiplicare i bisogni piuttosto che incrementare semplicemente il godimento di ciò che già possediamo. L’altra idea è che, essendo questa l’epoca delle macchine, coloro che provano avversione nei loro confronti, o anche semplicemente desiderano arginarne la supremazia, sarebbero arretrati, reazionari e lievemente ridicoli. Questo concetto viene spesso rafforzato dall’asserzione che l’amore per la Natura è un’eccentricità da persone urbanizzate che non hanno la minima idea di che cosa la Natura sia in realtà. Quelli che hanno veramente a che fare con la terra, questo è l’argomento usato, non la amano affatto, e non nutrono il minimo interesse per gli uccelli o per i fiori, se non da un punto di vista strettamente utilitaristico. Per amare la campagna bisogna vivere in città, limitandosi a compiervi qualche sporadica escursione di fine settimana nei periodi più caldi dell’anno.

Quest’ultima è un’idea manifestamente falsa. La letteratura medievale, per esempio, comprese le ballate popolari, trabocca di un entusiasmo quasi georgiano per la Natura, e l’arte di popoli come cinesi o i giapponesi, di cultura rurale, è sempre incentrata sugli alberi, gli uccelli, i fiori, i fiumi, le montagne. L’altra idea mi sembra contenere un errore più sottile. Certo che dovremmo essere insoddisfatti, e non limitarci a fare buon viso a cattiva sorte; se però sopprimiamo ogni piacere nei semplici processi vitali, che tipo di futuro ci attende? Se un uomo non può godere del ritorno della primavera, perché dovrebbe essere felice in un’Utopia che gli garantisca una riduzione del lavoro? Che cosa farà nel tempo libero concessogli dalle macchine? Ho sempre immaginato che se mai i nostri problemi economici e politici troveranno soluzione, la vita diventerà più semplice e non più complessa, e che il piacere che si ricava dalla scoperta di una primula appena sbocciata sarà molto superiore a quello che si può ottenere mangiando un gelato col sottofondo musicale di un Wurlitzer. Io credo che se conserveremo un amore infantile per cose come gli alberi, i pesci, le farfalle e – per tornare al mio esempio iniziale – i rospi, renderemo un po’ più probabile l’ipotesi di un futuro pacifico e decoroso, mentre predicando che non bisogna ammirare nulla tranne l’acciaio e il cemento armato, rafforzeremo la possibilità che agli esseri umani non restino altro che l’odio e l’adorazione del Capo per dare sfogo alle loro energie eccedenti.

Comunque, la primavera è arrivata, anche nel cuore di Londra, e non possono impedirci di goderne. È un pensiero che fa star bene. Quante volte, fermandomi a osservare i rospi accoppiarsi, o due lepri fare la boxe in mezzo al grano verde, ho pensato a tutte le persone importanti che vorrebbero impedirmi di farlo, se solo potessero. Ma fortunatamente non possono. Finchè non si è davvero malati, affamati, spaventati o segregati in una prigione o in un villaggio turistico, la primavera è sempre la primavera. Le bombe atomiche si ammassano nelle fabbriche, la polizia si aggira per le città in cerca di prede, le menzogne escono a fiotti dagli altoparlanti, ma la Terra continua a girare intorno al sole e, per quanto possano disapprovare il fatto, dittatori e burocrati non riusciranno certo a impedirglielo.



(Tratto dal libro Romanzi e Saggi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2000. Traduzione di Guido Bulla.)


George Orwell, (pseudonimo di Eric Arthur Blair; Motihari, 1903 – Londra 1950) č l’autore di alcuni classici della letteratura del Ventesimo secolo, come 1984 e La fattoria degli animali.



 


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