La Lavagna Del Sabato 24 Ottobre 2009


UN MINIMO ASSAGGIO


Valerio Morucci





(…) Chiacchiera riflessiva di galera dice – quelle di stomaco allo stomaco ritornano, con il manico di un coltello in evidenza – che ogni giudice si dovrebbe fare almeno un mese di galera prima di poter pronunciare una condanna. Altrimenti sarebbe come se condannasse a scontare la pena su Marte senza sapere che lì si può respirare solo anidride carbonica. Come per tutti quelli finiti in galera quella riflessione ha il respiro corto dell’immediatezza che tutto semplifica. I giudici non fanno la galera e nemmeno la Legge. Si limitano ad applicarla. Sarebbe semmai qualcun altro a doversi fare quel mese propedeutico di carcere.

Ma forse anche un mese di carcere sarebbe una esagerazione. Potrebbe bastare un giorno. Il primo. Con la trafila dell’ingresso. Dal portone che si chiude con clangore alle spalle, alla perquisizione dove nudi come vermi ci si deve flettere sulle gambe per dimostrare di non avere niente infilato su per il culo. Al passaggio in matricola dove le mani imbrattate di inchiostro vengono premute a forza sul registro, e poi stare lì a guardarsele annerite mentre il brigadiere scrive e scrive, finché non si degna di fare un cenno con la testa indicando sul termosifone una pezza più nera delle mani. Poi il passaggio al magazzino dove viene deposta sulle braccia la “fornitura”: coperta, lenzuola e federa rigide come stoccafissi, bicchiere e brocca in plastica, carta igienica, posate in plastica e alluminio sbrecciato, che ogni volta che te le sfili dalla bocca lasciano il segno. Da lì la consegna passa a un altro custode che conduce per un dedalo di corridoi e cancelli, con dietro una guardia che saluta chi ti accompagna e a te neanche ti vede. Altri mazzi di chiavi che tintinnano e poi sgranano rumorosamente nelle serrature, e altri clangori alle spalle le cui vibrazioni rimbalzano sui muri e da lì fino alle tue ossa. È molto probabile che nel lungo percorso si incontri un lavorante, oggi sicuramente un extracomunitario, che sta passando uno straccio sul pavimento. Anzi due stracci se non tre, al fondo di due scopettoni tenuti assieme da una corda e con legato al centro un altro bastone, cosicché l’attrezzo è abbastanza lungo da percorrere la larghezza del corridoio in una sola passata. Quando tu e la guardia siete a qualche metro ritrae il bastone poggiandolo contro la spalla. E lui ti guarda. Ma non leggi nel suo sguardo un segno di saluto bensì di commiato. E alla fine, smarrito ormai dietro di te l’orientamento nei corridoi e negli angoli retti, ma questa non è che la parte spaziale di un disorientamento ben più profondo, la tua guida ti lascia in consegna alla guardia del piano di destinazione. La prima si ferma terminata la sua missione e l’altra apre il cancello. E tu, che hai seguito la prima come le oche il dottor Lorenz, puoi avere come inconsapevole desiderio che non ti lasci, che ti riporti a ritroso di quel lungo viaggio, e rimani immobile, catatonico. E l’altra allora fa un cenno deciso con la testa, e quando hai superato come un automa l’ultimo varco, anche questo chiuso con clangore alle tue spalle, quella procede con te fino a fermarsi davanti alla porta grigia di una cella. La apre e aspetta il tuo ingresso per poi richiuderla alle spalle. Altro clangore e l’enorme chiave che gira con forza nella serratura: cra, cra,cra. Guardarsi intorno in quei pochi metri quadri con le braccia offerenti che ancora tengono la “fornitura” in cerca magari del Dio cui farne offerta. Ma il ripiano infisso nel muro, lo sgabello e la branda col materasso impregnato di macchie indelebili, la finestra polverosa e dietro questa le sbarre rifiutano di dare indicazioni. Se non quella muta della spoliazione. In tutta la trafila le guardie non parlano , se non per salutarsi tra loro, al massimo indicano. Per loro è una noiosa routine che conoscono a menadito, mentre tu puoi sentirti come fossi finito dentro il castello stregato che da bambino non hai mai neanche avuto i coraggio di sognare. E, solitamente, è assente ogni forma di violenza. Umana per lo meno. Perché quella dei muri, dei cancelli, dei rumori, dell’indifferenza e dell’annichilente spaesamento in quel mondo coatto e sconosciuto, è presente a ogni passo che metti avanti sospeso come andassi alla forca.

Potrebbe bastare questo minimo assaggio per farsi un’idea del carcere. Anche se è probabile che, a causa del dover essere, nulla questo modifichi nella funzione pubblica del delegato alla prova. Ma probabilmente starà molto più attento di lì in poi a non finirci dentro. Una persona “normale”, che non abbia avuto abbastanza forti motivazioni per finirci, o non abbia conosciuto tutti i passaggi preliminari fino a introiettare quella del carcerato come una sua natura parallela, difficilmente può reggere la galera. I suicidi sono all’ordine del giorno. E l’incidenza degli autolesionismi pari a quella dei soldati contadini buttati nelle trincee della Grande guerra.



(Brano tratto dal libro “Patrie Galere – cronache dall’oltrelegge” – Valerio Morucci – Adriano Salani Editore, Milano, 2008.)



Valerio Morucci (Roma, 22 luglio 1949) è uno scrittore e un ex militante nelle Brigate Rosse.


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