La Lavagna Del Sabato 12 Dicembre 2009


DAL NEOFASCISMO AL NAZIONALPOPULISMO

– La parabola dell'estrema destra europea –


Marco Tarchi





Il populismo è spesso considerato sinonimo di estrema destra. O la sua variante attualizzata, più presentabile di quella classica. Chi sostiene questa interpretazione enfatizza le analogie esistenti fra i programmi di formazioni come il Front national, la FPÖ, i Republikaner, il Vlaams Blok, il Partito del Popolo danese, la lista Pim Fortuyn, l’Unione di Centro svizzera, la Lega Nord, e quelli dei movimenti ascrivibili all’orbita neofascista, sottolinea le frequentazioni estremistiche giovanili di qualche leader populista o crede di poter individuare maîtres à penser che fungano da raccordo culturale fra la vecchia e la nuova estrema destra e ne spieghino, nel contempo, l’evoluzione strategica. C’è però chi, come Yves Mény e Yves Surel, ha messo in dubbio questa linea di lettura, mostrando le discontinuità che i due fenomeni presentano sotto molti aspetti: programmi, stile, organizzazione, caratteristiche della leadership e dell’elettorato. La natura composita dell’oggetto di analisi non facilita la scelta fra le due opzioni.

Esistono argomenti validi a sostegno sia dell’una che dell’altra ipotesi. Sia i partiti neopopulisti sia quelli più legati alla tradizione neofascista, come la NPD o la DVU in Germania o il MS-FT in Italia, si offrono all’elettorato come strumenti politici di risposta ad alcune preoccupazioni condivise: la paura di smarrire, per effetto della globalizzazione, i codici di riconoscibilità e appartenenza inclusi nell’identità nazionale; il conseguente timore della commistione fra culture e razze diverse; la minaccia di un calo dei livelli di consumo e di ricchezza dei ceti meno «protetti»; il rischio di disoccupazione, acuito dalla possibile concorrenza di una manodopera immigrata non più destinata, con l’avvicendarsi delle generazioni, a confinarsi alle mansioni servili. Ma da questo punto di vista l’asse che congiunge questi partiti serve anche a dividerli da quelli che li hanno preceduti nella storia dell’est rema destra dal 1945 in poi. Manca infatti alla maggior parte di essi quel retroterra ideologico nostalgico e/o «nazional rivoluzionario» che a suo tempo tenne a battesimo partiti come il MSI in Italia, Fuerza nueva in Spagna, Ord renouveau o il Partides forces nouvelles in Francia, il National front inglese, il VMO fiammingo e molti altri minori. Di conseguenza, se anche non ci troviamo al cospetto di due tipi incompatibili di aggregazione politica – poiché, per fare l’esempio più noto, il Front national è gradualmente transitato dall’uno all’altro campo – dobbiamo almeno registrare l’esistenza di due forme distinte e successive nate dallo stesso ceppo. Resta da stabilire se la seconda sia solo il frutto di un adattamento ai tempi della prima oppure un modello concorrente, ormai emancipatosi dalla cultura politica d’origine.

Per capirlo si deve risalire al periodo in cui il nuovo populismo è comparso nell’ Europa occidentale. Non tanto gli anni Settanta, quando il pionieristico movimento di protesta anti-tasse di Mogens Glistrup riuscì, entrando nel Parlamento danese, a rinverdire il ricordo di Guglielmo Giannini e Pierre Poujade, suscitando per imitazione la nascita di analoghi «Partiti del Progresso» in altri paesi scandinavi, quanto piuttosto il decennio successivo, lungo il quale il fenomeno iniziò ad estendersi ad un’area geografica più ampia e ad assumere connotati più delineati. Gli anni Ottanta sono stati per l’estrema destra europea, ancora in gran parte legata a un’ideologia neofascista, un decennio di occasioni perdute. Né il crollo dei regimi comunisti ad Est né la crisi del Welfare State socialdemocratico ad Ovest, che pure configuravano la fine di quel lungo dopoguerra che l’aveva costretta all’emarginazione, l’hanno rilanciata. Ad avvantaggiarsi del nuovo scenario è stata invece la componente liberalconservatrice della destra, sua concorrente e antagonista diretta. In debito di analisi e di realismo politico, i partiti di estrema destra hanno subìto dalla crisi del comunismo un danno, invece del vantaggio in cui avevano a lungo sperato. Venendo a mancare lo spauracchio di un’invasione militare sovietica o dell’espropriazione collettivistica, è caduto infatti il più solido argomento su cui avevano puntato per attrarre i settori delle classi medie ancora sensibili agli echi del clima di guerra fredda.

A determinare l'impasse del radicalismo di destra negli anni Ottanta è stata in primo luogo la deradicalizzazione dei conflitti politici internazionali e interni. L’esaurirsi del clima di emergenza che gli aveva permesso di inserirsi nella grande politica in alcuni momenti particolari di crisi (la questione algerina in Francia, la transizione di regime in Spagna, l’inasprirsi delle rivendicazioni sindacali in Italia, la contestazione studentesca, il terrorismo) ne ha ridimensionato di nuovo il ruolo. Di fronte alla trasformazione dei conflitti sociali e alla stabilizzazione del processo di modernizzazione, la destra neofascista si è smarrita. Ha allentato i rapporti con il ceto medio, da sempre suo referente sociale privilegiato, che per oltre mezzo secolo era stato unificato dalla volontà di difendere il proprio status economico e psicologico dalle ambizioni del proletariato e adesso, rassicurato, si era frammentato in piccoli gruppi coinvolti in un’aspra competizione. Ha visto calare l’attrattiva della dottrina su cui fondava la pretesa di originalità delle sue proposte economiche e sociali, il corporativismo, nel momento in cui i governi socialdemocratici se ne appropriavano e ne operavano una profonda revisione attraverso le politiche di concertazione. Si è trovata, insomma, priva di interlocutori a cui offrire voce o rappresentanza. Per procurarsi un margine di manovra ha rincorso, senza selezionarle, quasi tutte le proteste che si presentavano sulla scena, cercando di farne strumenti di contestazione al sistema e, nel contempo, leve per fomentare una situazione di disagio generalizzato dalla quale potesse partire una richiesta d’ordine. Ma la ricetta, che aveva funzionato sporadicamente in altri momenti, questa volta si è rivelata inefficace, perché le istanze che ne stavano alla base – le rivendicazioni corporative di alcuni sindacati minori e la richiesta di efficienza degli utenti dei servizi pubblici, l’ostilità di commercianti e professionisti al sistema fiscale e la lotta al debito pubblico, le richieste di maggiore occupazione e le politiche deflazionistiche ecc. – apparivano incompatibili e contraddittorie.

Da questa incapacità di offrire rappresentanza a settori sociali coerenti e di annodare solide alleanze con qualcuno dei gruppi di interesse che in passato si erano dimostrati disposti a sollecitarne il sostegno, è nata la crisi di funzione che ha portato la componente neofascista del radicalismo di destra, egemone sino alla metà degli anni Ottanta, a subire l’insidiosa concorrenza dell’ala xenofoba e populista. Per quanto sia stato da sempre uno degli ingredienti ideologici della destra radicale, di cui ha influenzato lo stile e i messaggi, solo in questa fase il populismo inizia ad assumere una fisionomia autonoma e abbastanza stabile, che lo porta in breve tempo a configurarsi come un modello alternativo al neofascismo o come uno dei suoi possibili approdi, nella prospettiva di una trasformazione e di un aggiornamento che appare non più rinviabile a molti dirigenti dei partiti di quest’area. Per l’elasticità dei riferimenti culturali e per i forti connotati emotivi dello stile comunicativo, il populismo ha il vantaggio di offrire soluzioni apparentemente semplici ai problemi degli individui e dei gruppi che vivono con incertezza o paura l’espansione della conflittualità sociale che accompagna lo sviluppo tecnologico e la crescita economica nei paesi più sviluppati. Dalla sua visione del mondo, che fa della volontà del popolo – rappresentato come se fosse un aggregato sociale omogeneo, depositario esclusivo dei valori positivi – il termine costante di riferimento e la fonte principale di ispirazione per i comportamenti degli individui, i conflitti di interessi vengono rimossi, oppure attribuiti all’incapacità della corrotta classe politica o all'interferenza di soggetti esterni ostili.

Caratteristica del populismo, che è stato giustamente descritto da Ludovico Incisa di Camerana come un’ideologia «di sintesi, globale e cicatrizzante», è una lettura schematica e manichea della realtà, di facile circolazione, nella quale predominano le figura di capri espiatori, gli agenti «antipopolari» che sarebbero alle radici dei mali di cui soffre la comunità nazionale. Questo ruolo è stato a lungo attribuito dal radicalismo di destra ad alcuni soggetti classici della polemica antidemocratica o antiparlamentare, come la «casta» dei politici di professione, l’alta finanza, la massoneria, le centrali sovversive internazionali, gli ebrei, sino a diventare un Leitmotiv di relativo successo della sua propaganda, già prima dell’apparire dei movimenti fascisti. Soltanto a partire dagli anni Settanta la figura del capro espiatorio ha però nuovamente raggiunto i livelli di efficacia dei primi decenni del XX secolo incarnandosi nell’immigrato dal Terzo Mondo, estraneo per eccellenza alle popolazioni autoctone e immediatamente riconoscibile anche per i suoi tratti somatici.

L'incontro tra populismo nazionalista e xenofobia si è trasformato in una ricetta politica di successo – il nazionalpopulismo – in virtù di una serie di condizioni favorevoli. Il massiccio, incontrollato e spesso illegale afflusso di immigrati nei paesi dell’Europa occidentale ha alimentato collateralmente alcune gravi patologie sociali – aumento del lavoro nero, dello sfruttamento e dell’evasione fiscale, sovraccarico e dequalificazione retributiva del mercato del lavoro in alcuni settori produttivi, sovraffollamento delle periferie urbane, crescita dell’emarginazione e della delinquenza, insicurezza diffusa soprattutto nelle metropoli – che sono state trascurate o affrontate in modo inefficace dai governi conservatori o socialdemocratici. Il disagio conseguente agli insuccessi delle politiche liberali ha consentito ai movimenti populisti di ottenere consensi con proposte che forniscono alla crisi una risposta irrazionale, istintiva e semplificante. La concentrazione e lo scarico su un unico presunto colpevole delle tensioni sociali e culturali che si accumulano all’interno di un paese resuscitano infatti quella radicalizzazione della conflittualità che si era attenuata su altri piani e creano una nuova frattura politica, trasversale rispetto ai cleavages lungo i cui margini si erano formate le identità di partito preesistenti. In questo modo il tema dell’identità nazionale, declinato prima di tutto come motivo di esclusione degli «estranei» e non più, come accadeva nella versione neofascista, come fattore di aggregazione di una comunità lacerata dai conflitti intestini, assume una funzione politicamente vincente, rassicurando i settori sociali meno protetti. Ciò serve fra l’altro a spiegare perché il voto riscosso dai movimenti nazionalpopulisti provenga da ceti meno elevati di quelli che tradizionalmente hanno assicurato consensi ai partiti neofascisti.

Forte dell’immediatezza e della concretezza delle sue parole d’ordine, che spesso si riducono – anche se con intonazioni diverse a seconda dei casi – alla richiesta di una «bonifica» del panorama politico e sociale, il nazionalpopulismo non si limita comunque a sottrarre spazio alla tradizionale ideologia neofascista, ma esercita anche un fascino diretto sui movimenti che ad essa si sono sempre richiamati. In Francia, questa capacità di attrazione ha calamitato un poco alla volta attorno al Front national, che ha lasciato sempre meno spazio alla corrente «nazional rivoluzionaria», quasi tutte le formazioni concorrenti. In Germania i Republikaner, nati nel 1983, hanno sorpassato quasi subito elettoralmente la NPD, salvo poi dover subire la concorrenza della più nostalgica DVU. In Italia, sino a quando è stato diretto da Almirante, il MSI-DN ha proseguito sulla strada consueta, ma quando Fini gli è subentrato la deriva verso il modello Le Pen si è accentuata, bloccandosi solo per l’opposizione della corrente di Rauti. E con l’ascesa di Haider alla presidenza del partito liberale austriaco nel 1986 le tesi nazionalpopuliste hanno iniziato a conquistare terreno in ambienti dove il neofascismo non era mai riuscito a farsi ascoltare.

Costretta a fronteggiare l’imprevista sfida populista, agli inizi degli anni Novanta l’estrema destra classica si è trovata perciò di fronte a tre alternative fra le quali, se non intendeva rassegnarsi alla scomparsa, era costretta ad operare una scelta: l’adozione di una linea di protesta antisistemica più dura, l’avvicinamento a posizioni conservatrici o la modernizzazione. La radicalizzazione, traducendosi in un’accentuazione della polemica contro la partitocrazia e nell’enfatizzazione di problemi come l'insicurezza e l’immigrazione, si è scontrata con la concorrenza dei partiti populisti di matrice non fascista, più credibili nel ruolo di collettori di una protesta antisistemica in nome dei diritti e delle aspirazioni dell’uomo qualunque, stanco di tutte le ideologie e interessato a soluzioni per i problemi della sua vita quotidiana. Nell’ambito dell’estrema destra europea solo il Front national si è incamminato in questa direzione, e nel discorso dei suoi esponenti la difesa dei piccoli contro i potenti, degli onesti contro i corrotti e dei diseredati contro le élite politiche e burocratiche ha preso gradualmente il sopravvento sui toni aggressivamente nazionalisti e statalisti delle origini. Benché gli immigrati siano diventati il bersaglio principale della propaganda, e talvolta delle azioni violente, dei gruppuscoli che si rifanno apertamente all’ideologia fascista in molti paesi europei, su questo terreno i neofascisti sono stati scavalcati dai populisti, che spesso ne deplorano le intemperanze e li considerano scorie folcloristiche di un’epoca ormai tramontata.

La svolta conservatrice ha ottenuto maggiori successi. Gli iniziali exploits dei Republikaner sembravano dimostrare che partiti borghesi di ispirazione nazionalista disposti a far proprie, attorno ad alcune limitate tematiche, suggestioni radicali e istanze di protesta potevano raccogliere l’eredità dei movimenti neofascisti e superarne i risultati sul piano elettorale. Per trovare l’auspicato terreno di intesa con i partiti conservatori i programmi di queste formazioni si sono quindi aperti alle politiche economiche liberali. L’esaltazione dell’indipendenza dell’ Europa è stata sostituita dalla scelta atlantica-occidentale e da un ritorno a toni nazionalisti, mentre l’accentuazione di posizioni tradizionaliste in materia di etica individuale e collettiva è stata pensata per conquistare consensi negli ambienti cattolici integralisti. Sebbene abbia incontrato resistenze in molti paesi, dove tutt’al più ha favorito l’inserimento di alcuni temi cari all’elettorato della destra estrema (insicurezza, immigrazione, difesa delle tradizioni nazionali) nell’agenda di partiti conservatori, questa strategia si è dimostrata proficua nel 1993 nel caso italiano. È vero che finora l’Italia è il solo paese che ha visto nascere un’alleanza di governo fra un partito di origini neofasciste e partner centristi (la FPÖ appartiene ad una tradizione diversa), ma all’esempio di Alleanza nazionale si ispirano altri movimenti appartenenti alla stessa famiglia, come il Mouvement national républicain di Bruno Mégret, frutto di una scissione del Front national.

Quanto all’ipotesi modernizzatrice, essa ha oscillato per anni fra due prospettive inconciliabili: da un lato la rivalutazione in forme rinnovate delle correnti minoritarie, eretiche e di sinistra, del fascismo, con la ripresa del mito del ritorno alle origini e del culto di una «diversità» che non trova modelli o referenti attuali; dall’altro il ripensamento critico dell’identità neofascista e l’attenzione verso altre forze politiche interne al sistema democratico. La prima scelta è stata compiuta dal MSI-DN nel breve periodo in cui ne è stato segretario Pino Rauti e dal Partides forces nouvelles, con risultati deludenti perché il tradizionale elettorato di estrema destra non ha accolto con favore né l’ambizione di conquistare consensi fra i delusi dal comunismo né l’abbandono dei consueti riferimenti retorici e simbolici, e la sua defezione non è stata compensata dal sostegno di altri settori della pubblica opinione. La seconda via è stata imboccata prematuramente in Italia da Democrazia nazionale, portandola alla scomparsa nelle elezioni del 1979, e per questo ha avuto pochi imitatori. Solo molto più tardi, e sotto la spinta di circostanze eccezionali, stimoli modernizzatori di questo tipo hanno concorso alla fondazione di Alleanza nazionale.

Scarsa fortuna ha avuto anche l’ipotesi di modernizzazione del radicalismo di destra sostenuta dagli intellettuali della Nuova Destra, nata in Francia alla fine degli anni Sessanta sotto la guida di Alain de Benoist e propagatasi in seguito ad altri paesi europei, anche se sempre in forme elitarie e minoritarie. Essi hanno cercato di storicizzare l’esperienza del fascismo e di collocarne l’ideologia al di fuori dello schema oppositivo sinistra/destra e rifiutando l’autoritarismo, il razzismo e la sindrome anticomunista si sono prefissi di modificare le linee degli antagonismi politicoculturali dominanti nel secondo dopoguerra. Prefigurando nuove alleanze strategiche, hanno appuntato le loro critiche sul liberalismo e sollecitato gli ambienti dai quali provenivano ad abbandonare i consueti temi ed affrontarne di nuovi, come la creazione di un’Europa neutrale estesa dall'Atlantico agli Urali, il rifiuto degli automatismi del mercato economico, la critica dell’occidentalizzazione del mondo e del neocolonialismo, la creazione di un asse preferenziale di cooperazione fra Europa e paesi in via di sviluppo, l’opposizione al modello di sviluppo industrialista e consumista, la valorizzazione delle specificità etnoculturali, il regionalismo. Si trattava tuttavia di idee troppo lontane dalla sensibilità della leadership dei partiti e movimenti della destra radicale, che, dopo aver cercato di sfruttarne a proprio vantaggio l’eco massmediale, le hanno respinte o hanno cercato di adattarle in misura limitata ai propri programmi, stravolgendole .

A partire dal 1984, il panorama dell’estrema destra si è modificato. Il Front national, primo partito della famiglia ad aver subito il richiamo del discorso xenofobo, ha superato in quell’anno, nelle elezioni del Parlamento europeo, i risultati raggiunti dal MSI-DN, che incarnava il vecchio modello continuista. Poi è iniziata la breve ascesa dei Republikaner e quella meno effimera del Vlaams Blok. Ma l’ampliarsi di un’area di consenso elettorale non ha smorzato i dissidi e le invidie da sempre tipici di questi ambienti; al contrario, li ha rafforzati. La costituzione di un gruppo comune delle destre al Parlamento di Strasburgo si è rivelata impossibile. La caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS hanno frammentato ancor più il quadro. Senza il collante anticomunista, gli orientamenti programmatici si sono divaricati. Sono emerse forti differenze di atteggiamenti verso il processo di formazione dell’ Unione europea in un mondo non più diviso in due blocchi, perché, al di là della denuncia dello strapotere degli «eurocrati» di Bruxelles e dell’elogio di un’Europa delle patrie dove gli Stati nazionali potessero mantenere buona parte delle prerogative di sovranità, i pareri sui rapporti fra Europa occidentale e orientale, Europa e USA, Europa e paesi mediterranei ecc., erano eterogenei. C’è stato chi ha paventato il peso cruciale che la Germania unita è destinata ad assumere nell’Unione europea e chi lo ha apprezzato; chi ha avversato l’alleanza occidentale contro l'Iraq e chi l’ha sostenuto; chi, nella guerra che ha accompagnato la dissoluzione della Jugoslavia, ha preso le parti di Slovenia e Croazia e chi ha guardato con simpatia ai serbi. Insomma, l’unità del microcosmo dei vinti del 1945 è venuta meno non appena l’assetto internazionale creato dall’esito della seconda guerra mondiale si è modificato.

Negli anni Novanta le posizioni dei partiti di estrema destra si sono discostate anche sul piano socioeconomico e istituzionale, contrapponendo aperture e chiusure al liberismo, accettazioni e rifiuti del federalismo. Il nazionalismo difensivo, la diffidenza per le società multietniche, il culto dell’ordine, la preferenza per una morale tradizionalista e l’ostilità verso la partitocrazia non sono state più sufficienti a diffondere la sensazione di appartenere a un ceppo ideologico comune. Non solo non si è più parlato di creare organizzazioni di coordinamento a livello continentale, ma anzi ciascun partito ha dichiarato di volersi preoccupare esclusivamente dei problemi della propria nazione e ha tenuto a sottolineare le distanze verso i movimenti che un tempo considerava affini, per non attirarsi accuse di estremismo.

L’imprevedibile metamorfosi del MSI-DN a partire dal 1993 è stato il punto di svolta di questa evoluzione. Dovendo colmare nel minor tempo possibile il deficit di legittimità che gli era di intralcio nel passaggio dall’opposizione antisistemica di protesta al governo, la leadership del partito neofascista per eccellenza si è affrettata a recidere ogni legame con tutto ciò che poteva ricordare alla pubblica opinione moderata il suo passato estremista. Al momento della nascita, Alleanza nazionale ha proclamato di guardare, come partner preferiti, al Partido Popular spagnolo, al RPR di Chirac e ai tories britannici e, per segnalare con maggiore enfasi la rottura non solo con le tradizioni fasciste ma anche con i movimenti nazionalpopulisti, ha inserito in statuto l’antirazzismo come principio fondamentale e ha mandato in soffitta il corporativismo. La svolta culturale e ideologica del partito è rimasta incompiuta e molti dei suoi militanti di base, specie i più giovani, sono tuttora legati all’iconografia e alla mitologia del fascismo, ma il peso crescente che vi hanno assunto deputati, senatori, consiglieri delle amministrazioni locali, sindaci, assessori – una classe di politici di professione, che si stanno trasformando rapidamente da «credenti» a «carrieristi», per dirla con Panebianco, – la indirizza verso posizioni moderate e conservatrici.

Questo formale cambio di campo del decano dei partiti neofascisti europei segna probabilmente, dopo mezzo secolo di vita travagliata, la fine di questa famiglia politica. Le ipotesi degli osservatori che, impressionati dal successo di Vladimir Zhirinovskij in Russia, paventavano pochi anni orsono una rinascita del fascismo ad Est non sembrano, all’alba del XXI secolo, confortate dallo svolgersi degli eventi. Rimangono, sì, numerosi gruppuscoli che rivendicano in tutti i paesi europei un’eredità fascista, ma la loro sterile agitazione non giustifica l’opinione di chi, come lo storico inglese Griffin, ha scritto che oggi «il fascismo continua a cambiare e prosperare».

È vero piuttosto il contrario. Se dalle bande skinhead passiamo ai partiti politici organizzati, il panorama del radicalismo di destra classico appare simile a un deserto. In Italia, culla del fascismo, il solo partito che rivendica apertamente radici mussoliniane, il Movimento sociale Fiamma tricolore, è inchiodato su percentuali elettorali inferiori all’1% e ha un solo rappresentante in Parlamento, ottenuto grazie all’accordo con la coalizione di centrodestra. Le simpatie nostalgiche di molti dirigenti locali di Alleanza nazionale trovano sfogo in iniziative estemporanee e provocatorie, come la proposta di intitolare strade o piazze ad esponenti del regime fascista, ma non possono più manifestarsi sul terreno politico, pena la rottura dei rapporti con gli alleati di governo, tanto che su molti temi, a partire dalla lotta all’immigrazione clandestina, AN appare schierata su posizione più moderata della Lega Nord. In Germania NPD e DVU, in eterna concorrenza, raramente riescono ad eleggere rappresentanti nei parlamenti o consigli locali. In Gran Bretagna, il British National Party ha conquistato in tutto tre consiglieri in una piccola località del nord, non riuscendo a progredire neppure in zone dove sono frequenti i conflitti etnici. Altrove, la presenza di movimenti analoghi è ancor più marginale e clandestina. Se, seguendo l’indicazione di uno studioso come Geoffrey Harris, si considerano di tendenza fascista i partiti che uniscono nell’ ideologia un nazionalismo estremo, il rifiuto del pluralismo e della democrazia parlamentare, l’opposizione al liberalismo, al comunismo, al capitalismo e all’economia di mercato, l’uso della violenza, gli attacchi ad obiettivi particolari come le minoranze sessuali o razziali, la difesa della discriminazione e il rigetto dell’idea che esistano diritti umani universali, si può affermare con certezza che, al di fuori delle patologiche lunatic fringes, l’estrema destra neofascista non dispone più di una presenza organizzata in Europa e non è quindi in grado di influenzare la politica dei partiti concorrenti o dei governi europei, come talvolta si paventa.

Questa possibilità è invece alla portata dei partiti nazionalpopulisti, che non si identificano in mitologie fasciste, non sono statalisti pur valorizzando l’autorità dello Stato, non esibiscono nostalgie corporative, esaltano l’identità nazionale ma in chiave prettamente difensiva contro la temuta invasione degli immigrati, indulgono alla xenofobia ma rifiutano le suggestioni imperialiste o neocolonialiste, sfruttano un clima di paura invece di rievocare atmosfere eroiche o belliciste e stigmatizzano i deficit di democrazia dei regimi liberali chiedendo l’adozione di strumenti di consultazione diretta dei cittadini senza ricorrere alla retorica antidemocratica. Paradossalmente, è proprio la capacità di prendere le distanze dall’ideologia e dall’immagine del fascismo a permettere a questi partiti di attirare l’attenzione dei media sulle campagne che promuovono, conquistare consensi elettorali in ampie fasce di popolazione e costringere i partiti rivali e i governi a includere nella propria agenda i temi che sollevano. All’alba di questa nuova incarnazione del radicalismo di destra corrisponde dunque l’inevitabile tramonto di quella che l’ha preceduta; considerare l’una alla stregua di una replica mimetica ed eufemistica dell’altra sarebbe un errore, politico e scientifico.


(Saggio tratto dal sito Italianieuropei.net)




Marco Tarchi insegna Scienza politica e Comunicazione politica all’Università di Firenze



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