La Lavagna Del Sabato 02 Gennaio 2010


DIRE TRA ME


Gianpietro Scalia





La facoltà della critica è generata dall’educazione e dall’allenamento. Si tratta di un abito mentale oltre che di una capacità. Essa è condizione prima dello sviluppo umano. È la nostra unica tutela contro la delusione, l’inganno, la superstizione e la misconoscenza di noi stessi e del mondo a noi circostante.

(da Sumner, W. G. 1940. Folkways: A Study of the Sociological Importance of Usages, Manners, Customs, Mores, and Morals. New York: Ginn and Co., pp. 632, 633.)

 

Definizione di pensiero critico

Il pensiero critico è un processo mentale che consiste nell’analizzare o nel valutare delle informazioni. Tali informazioni possono essere ottenute tramite l’osservazione, l’esperienza, il ragionamento o la comunicazione. Il pensiero critico si fonda sul tentativo di andare al di là della parzialità del singolo soggetto: i suoi valori fondamentali sono la chiarezza, l’accuratezza, la precisione, l’evidenza.



Intorno a questi due concetti si concentreranno le mie riflessioni e il mio modo di ragionare, con l’intendo di mantenere sempre un grande rispetto nell’indirizzo di quei critici portatori di un pensiero critico, ma concedendomi un briciolo di irriverenza verso tutti gli altri critici, portatori di un pensiero e basta.

Comincerei perciò in maniera molto semplice, soffermandomi sulla definizione di pregiudizio e affermando che il termine pregiudizio può assumere diversi significati, tutti in qualche modo collegati alla nozione di “giudizio prematuro” (in quanto parziale e basato su argomenti insufficienti).

Può essere allora il pensiero critico pregiudiziale? Intendo dire: un pensiero pregiudiziale anche se ben strutturato si potrebbe definire pensiero critico? E ancora: può definirsi un pensiero critico pregiudiziale “ben strutturato”?

Io credo di no, almeno per quanto concerne l’ultima domanda.

La critica pregiudiziale obbliga coloro che ne fanno uso ad alzare i toni della discussione. Bene lo lascia intendere in questo articolo pubblicato nel 2005 il signor Paolo Di Stefano, che attraverso le pagine del quotidiano Repubblica credo si sia espresso come portatore di un pensiero critico.

L’articolo si intitolava “Romanzi del Secolo a Getto Continuo”, ed era il seguente.

Diciamo la verità: o questo 2005 è un anno letterario formidabile o c'è qualcosa che non quadra. A giudicare dagli annunci più recenti, la narrativa italiana non ha mai sfornato capolavori come in questi due o tre mesi. Ora, Tullio Avoledo, su Il Giornale, battezza il nuovo libro di Piersandro Pallavicini, Atomico dandy, come «il miglior romanzo di quest' anno». Possibile che nessuno se ne sia accorto?, si chiede Avoledo. Ebbene sì, ahinoi, è incredibile, ma nessuno se n'era ancora accorto. Perché a leggerlo, il libro di Pallavicini è davvero un buon romanzo (insolitamente funambolico), ma proprio «il migliore dei migliori»... E poi perché pensavamo di poter stare tranquilli per il prossimo secolo, dopo l'uscita del romanzo di Piperno, visto che molti ci avevano assicurato che la letteratura italiana non avrebbe saputo proporre niente di meglio fino al 2100 o giù di lì. Invece è passato appena un mesetto e arriva un romanzo ancora migliore. Un altro dandy dopo Piperno. Incredibile, ma nessuno se n'era accorto. Anzi, a dire il vero, nessuno se lo sarebbe aspettato.

E pensare che siamo solo all'inizio di aprile. Vengono i brividi a pensare che mancano nove lunghissimi mesi alla fine dell'anno: se continueremo così, quanti capolavori, migliori dei migliori, ci cadranno addosso ancora tra capo e collo? Il sospetto, a dirla tutta, è che qualcosa non quadri. La critica italiana ha mal di dandy? D'accordo, ma soprattutto la critica soffre di iperbolite acuta. E va bene una volta, va bene la seconda, va bene la terza e pure la quarta va bene e mettiamoci anche la quinta e la sesta ma alla fine viene un dubbio: non è che, per caso, qualcuno ci sta prendendo in giro? Oppure: non è che, per caso, il divertente giochetto del «migliore dei migliori» rischia di sfuggire di mano? Che cos'è quest'ansia di iperboli? Che cos'è questa voglia di gridare: al capolavoro, al capolavoro! Non sta forse capitando, alla critica come alla politica, quello strano fenomeno per cui, finiti (o sfiniti) gli argomenti, si comincia a urlare per farsi sentire? Attenzione: non per far sentire i propri argomenti (finiti, sfiniti o mai esistiti), ma semplicemente la propria voce un po' sguaiata.  (articolo di Paolo Di Stefano)

In riferimento a quanto riportato dall’articolo appena citato, c’è una cosa, secondo me, che un critico letterario non dovrebbe mai dire, ma che in senso più ampio non si dovrebbe dire mai quando si esprime un giudizio critico.

Adoperare il termine “il miglior libro…”

Dico ciò perché penso che si possa definire un libro come il migliore solo quando si sono letti tutti gli altri e questo, onestamente, lo ritengo impossibile. Evitare quindi simili espressioni può ritenersi una forma di rispetto, perché nel momento che si definisce una cosa migliore delle altre si riduce inevitabilmente il valore di ciò che non si conosce ancora. Si finisce per fare una critica positiva volontariamente, ma nel frattempo si realizzano moltissime critiche negative involontariamente. Purtroppo si cade spesso in un simile errore, e non solo in letteratura, senza  capire se il giudizio è stato espresso in buonafede o in malafede.

Se è stato fatto in buonafede si potrebbe considerarlo un bias.

Il bias (definizione presa da wikipedia) è una forma di distorsione causata dal pregiudizio verso un punto di vista o una ideologia. La mappa mentale d'una persona presenta bias là dov'è condizionata da idee preconcette. Un sistema decisionale, come per esempio un algoritmo, può presentare dei bias. Come la distorsione in generale, non è possibile eliminarli ma si può tenerne conto a posteriori, correggendo la percezione per diminuirne gli effetti.

Il bias è endemico nella critica letteraria dei media di comunicazione a maggiore diffusione, ma meno evidente invece nei canali a diffusione minore.

Si potrebbe pensare perciò che l’assenza di pregiudizio è in antitesi con la capillarità dell’informazione? O meglio: l’informazione capillare è pregiudiziale?

Bene lo sanno i più colti frequentatori della rete, attraverso la quale si può raccogliere una informazione più ampia riducendo al minimo il rischio di bias, mentre una risposta alquanto sensata alla domanda se l’informazione capillare è pregiudiziale viene data dal professor Mario Perniola, il quale asserisce (il testo riportato è tratto da www.criticamente.com):

«Di tutte le mistificazioni della comunicazione, indubbiamente la più grande è stata quella di presentarsi sotto le insegne del progressismo democratico, mentre costituisce la configurazione compiuta dell'oscurantismo populistico».

Di questa energia è vergato il biglietto da visita che abbiamo ritagliato dalle prime pagine del libro di Mario Perniola dal titolo inequivoco “Contro la comunicazione” (Edizioni Einaudi, pp. 114, euro 7,00).

La comunicazione massmediatica, la cui influenza travalica i confini del mercato per estendersi alla cultura, alla politica e all'arte è nella realtà del contemporaneo globalizzato una novità non più recente. Lo è da un punto di vista storico generale perché data soltanto da alcuni decenni, e cioè dal periodo in cui la tecnologia ha reso possibile la selezione di strumenti capaci di imporre le loro ragioni apparentemente senza arroganza. Anzi, la comunicazione massmediatica attraverso la televisione e internet, nel suo saltare ogni intermediazione, rivolgendosi direttamente a un pubblico enorme, mima un'apparenza democratica che in realtà nasconde l'arroganza di un sistema in grado di disarticolare ogni differenza.

Ma Perniola evidentemente non è preoccupato solo di questo. E' preoccupato anche e soprattutto degli effetti che l'ipercomunicazione produce sulla società da lui definita "cognitiva" e cioè su quella parte di opinione pubblica ancora in grado di elaborare un'attività cognitiva, di esprimere pensiero ed eventualmente pensiero critico. «La nostra società - dice Perniola - non sarebbe (…) affatto caratterizzata dal tramonto delle ideologie (…) ma semmai da una loro semplificazione e banalizzazione estrema che fa cadere l'aspetto concettuale a favore dell'emozionalità». Con queste parole l'autore riporta una tesi dell'economista francese Jean-Paul Fitoussi il quale asserisce la natura ideologica della nuova comunicazione, insieme all'assoluta impossibilità di verificarne la veridicità.

«La comunicazione infatti - continua Perniola - aspira ad essere contemporaneamente una cosa, il suo contrario e tutto ciò che sta in mezzo tra i due opposti. E’ quindi totalitaria in una misura molto maggiore del totalitarismo politico tradizionale, perché comprende anche e soprattutto l'antitotalitarismo. E’ globale nel senso che include anche ciò che nega la globalità».

Come si vede, si tratta di posizioni forti e duramente polemiche nei confronti di un sistema che per decine di anni ha dato l'impressione di svolgere una funzione positiva, di diffusione di una cultura popolare ridotta al minimo ma spalmata orizzontalmente sull'eterogenea popolazione dei consumatori di immagini e di notizie. Una funzione del genere, per lo meno in Italia, la televisione l'ha sicuramente svolta, contribuendo alla diffusione della lingua e ad una alfabetizzazione di base fino allora sconosciuta. Ma esaurita questa funzione iniziale, ha finito per rendersi esclusivamente veicolo di una specie di aerosol pseudoculturale dagli effetti clinicamente soporiferi e dalle conseguenze culturali e politiche difficilmente calcolabili.



E’ condivisibile il pensiero del prof. Perniola? Egli afferma che la comunicazione di massa costringe a una cultura popolare ridotta al minimo e spalmata su tutta la popolazione contribuendo, al massimo, a produrre una alfabetizzazione (dove non c’è), e trasformandosi in seguito in una espressione pseudoculturale. Io penso che una condivisione con questo pensiero si possa trovare se ci si sofferma sulla definizione di cultura.

La definizione di cultura viene data da Edward Tylor (1832-1917), antropologo britannico tra i più noti della corrente evoluzionista, nel suo famoso testo Cultura primitiva:

«La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’ insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società».

Ipotizzando quanto detto come veritiero si dovrebbe condividere l’idea che non esiste una critica portatrice di pensiero critico attraverso le fonti di informazione di massa, e quindi condividere l’opinione di molti, e cioè che il meccanismo di massa che muove la critica non è la ricerca di una crescita culturale, ma la ricerca di una stabilità politica o economica. “Non dico ciò che penso in quanto ci credo, ma dico ciò che mi assicura visibilità e ricchezza”. Ecco spiegato allora anche il bisogno, spesso endemico, di alzare i toni della discussione, trasformandosi da critici portatori del pensiero critico a imbonitori portatori di un pensiero e basta. Se si accetta la definizione di cultura, si deve ammettere che la critica a diffusione capillare non sfrutta le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine che è arrivato ad acquisire oggi l’uomo. La critica di massa tende a fare pseudocultura, spalmando su tutti la conoscenze (scarse) di pochi.

Verrebbe quindi da pensare che non ci si può e non ci si deve fidare del pensiero critico dei media ad ampia distribuzione.

Il prof. Noam Chomsky esprime il suo giudizio in merito con le seguenti parole:

«L'Europa e gli Stati Uniti - afferma Chomsky - non sono poi molto diversi. Negli Usa la maggior parte dei media sono essenzialmente aziende, corporation, o parte di corporation ancora più grandi. I loro omologhi in Europa, i principali quotidiani internazionali, sono in gran parte aziende che vendono un pubblico privilegiato ad altre aziende e non è sorprendente se l'immagine del mondo che presentano riflette l’interesse degli acquirenti, dei venditori. Ci sono altri fattori, ad esempio i forti legami con il governo. C’è un grande interscambio tra il governo, i media, il mondo economico, il mondo accademico. Esiste una sorta di classe politica in tutti i paesi, circa il 20% della popolazione, attivamente coinvolta in una qualche forma di gestione, politica, economica o accademica dei media e nell'ambito di questa classe ci sono più o meno gli stessi interessi. Voglio dire che condividono ampiamente gli stessi interessi, quelli dei privilegiati che sono al potere e le loro pressioni esterne sui media tendono a condurre i mezzi di comunicazione in una certa direzione».

Ciò che ci viene servito come pensiero critico è invece un potente e disarmante spot pubblicitario che si avvale dei critici rendendoli a loro volta immuni al pensiero critico della massa. Rendendoli, in un certo senso, degli “eroi”. La forza del giudizio critico non risiede perciò nel giudizio, ma nella valenza che si riesce a dare alla voce critica che lo esprime, in modo che la massa possa affermare: “se lo ha detto lui…”. L’eroe diventa il portatore di un giudizio asservito al consumo di chi detiene il potere e non si interessa più alla forma del suo giudizio, ma alla creazione del personaggio eroe che dovrà trasmettere il suddetto giudizio. Il critico eroe si trasforma in un buffone di corte, umiliando la sua intelligenza e i propri ideali. Paradossalmente, però, all’eroe vengono forniti i mezzi per credere veramente nel pensiero che esprime, e questo accade per un meccanismo perverso che si viene a determinare, e cioè per il fatto che tutti saranno costretti a credere nelle sue parole. Si raggiunge, in altri termini, un paradosso. Colui che dovrebbe illuminare le coscienze viene illuminato dalle coscienze.

In poche parole si è abolita la possibilità della controcritica, senza immaginare (!) di avere abolito in questo modo la possibilità del giudizio critico.

E allora mi verrebbe da domandare:

Ciò che ci circonda è cultura o monocultura?

Sia ben chiaro che il termine “monocultura” in realtà non esiste, se non in campo agricolo. Il suo stesso significato, altrimenti, sarebbe un controsenso, in quanto non può esistere una cultura illuminata da un unico pensiero. E questo una critica all’altezza del pensiero critico dovrebbe tenerlo sempre presente, anche se spesso non lo fa, preferendo inseguire il miraggio del successo, del capolavoro precostruito. Praticamente ragiona partendo dalla fine: ci offre ciò che noi abbiamo già innalzato ad espressione di piacere per dirci che potrebbe piacerci. Stimola i sentimenti già stimolati dalla nostra curiosità. Esalta il nostro gusto e insinua subdolamente il pregiudizio che oltre non si può andare. Perché oltre si rischierebbe di vedere ciò che non si vuole venga visto.

Si leggano allora queste bellissime parole di Julio Cesar Monteiro Martins, che per certi aspetti fanno venire i brividi. Lui si che può parlare a ragione di monocultura.

È così che mi vedo: un cronista del limbo. Attorno a me, da sempre, non una di quelle città-giocattolo dove agli scrittori piace annidarsi nella loro fase matura, ma una città vera, terribile, divoratrice, superpopolata; l’anti-utopia del millennio che finisce. Un parco divertimenti assediato da un parco di atrocità. Una grande città brasiliana.

Sono il cronista di un limbo, da dove nessuno porta notizie - territorio senza definizione, più che dimenticato nemmeno concettualizzato, dove vanno i senza nome, spazzati via dalla memoria collettiva dell’occidente, quelli che "non esistono" a migliaia. Si tratta di un miraggio al rovescio; l’inquinato immaginario dell’Europa di oggi fa spazio alla fantasia di un Brasile caricato di virtù rurale, di dolce spensieratezza sulle spiagge, di alberi da banano in fiore al centro del festival del colore. E sono colori vivaci, addirittura sgargianti, come le tonalità del verde e giallo della frutta in un mercato. Mai come il rosso-sangue dei cadaveri che albeggiano in strane posizioni sul cemento crepato dei marciapiedi. Mai il verde umido che ricopre le pareti dei palazzi di cemento nel paesaggio penitenziario dove sopravviviamo: cartolina di una morte prossima.

Da dove proviene il senso di sconforto causato dalle dure parole delle "cronache del limbo" ? Nasce in primo luogo perché, là dove ogni vita è a uno stadio critico e ogni situazione è una situazione limite, si sa molto dell’uomo, forse più di quanto convenga sapere. E non si tratta di un "altro uomo", ma dello stesso uomo che si incontra ovunque. È a Rio o a San Paolo che l’Europa ha rivelato i suoi segreti perché è lì che ha peccato e continua a peccare. Per l’Europa, il circo delle moltitudini in estasi o disperazione, a Niterói, a Brasília o a Vitória, non è tanto un limbo, quanto un purgatorio segreto. I bordi dell’Europa, l’America Latina e l’Est europeo, sono i suoi specchi, dove lei, contrariata, si vede senza trucco, sotto il fascio di una luce cruda. Le moltitudini brasiliane sono il finale di un certo valzer ballato nella penombra.

Non è più possibile che le tematiche filosofiche, metafisiche, psicologiche, esistenziali e ideologiche continuino ad essere in letteratura una prerogativa esclusiva dei paesi ricchi quando, da tempo oramai, non lo sono più nella vita. La condizione umana è messa alla prova nello stesso modo a Belo Horizonte o a Bruxelles, a Curitiba o a Los Angeles, quando è confrontata con le relazioni in crisi, con la mancanza di senso, con le prospettive di una morte precoce, con lo schiacciamento dell’identità o con l’assedio implacabile dello spirito da parte dei media. La povertà, il rumore e la violenza delle megalopoli tropicali smascherano o aggravano appena i problemi che oggigiorno sono gli stessi ovunque ci troviamo.

Le opere che rappresentano quel mondo non sono opere esotiche, ma stranamente familiari. Sono il volto sfigurato, eppure ancora riconoscibile, di un vicino parente. E negare, per scomodità o codardia intellettuale, l’esistenza e la potenza di queste opere è lo stesso che tentare di fuggire inutilmente da un pianeta che si è evoluto in una direzione indesiderata.

C'è ancora un’altra questione: ai paesi del mio continente sono state imposte le monoculture, come quella della canna da zucchero, del cotone, del caffé, della banana e della gomma. La regione poteva produrre soltanto ciò che interessava all’Europa in quel momento, e dall’Europa sarebbe dipesa per tutto il resto. La monocultura è stata l’imposizione di una strategia della miseria.

Ma fino a che punto questo atteggiamento mentale colonialista si è modificato? Abbiamo oggi un sottoprodotto di quei tempi di frusta e catene, che è la monocultura della cultura. Gli scrittori dell’America tropicale devono scrivere di un certo continente desiderato dalla fantasia europea, fornire il prodotto immaginario che oggi interessi all’Europa, che apra le finestre nel sogno, che inviti all’evasione e ai sapori e odori di eccessi affascinanti, di un cosmetico sempre diverso per il mondo che chiamiamo "esotismo". È questa l’origine del successo del "realismo magico e meraviglioso", della lotta politica dei guerriglieri edulcorata, ridotta ad un "cappa e spada", delle nuvole di farfalle, dei tiranni lacrimosi, e delle mulatte dalle labbra di miele e dai sudori al gelsomino che viaggiano verso l’Emisfero Nord tutti i giorni, imballate in containers astratti, in cambio di rimesse occasionali in marchi, franchi o lire, viaggiando fianco a fianco a containers concreti, pieni di balle di cotone, sacchi di caffè o pezzi di automobili. In questo nostro nuovo mondo del tempo libero e dei servizi, del consumo culturale su larga scala, la fantasia è diventata un prodotto nobile, una spezia della post-modernità. La cultura della monocultura si fa sentire ancora una volta: - noi compriamo quello che è diverso da ciò che abbiamo qui, e che sia abbastanza curioso da intrattenerci e sedurci, per aiutarci ad ingannare allegramente il tedio, il resto non ci interessa, non vogliamo comprarlo, né vogliamo saperne niente, confermando così che l’immaginario mondiale, con le sue "fazende" di idee ed immagini, è soggetto alle stesse leggi implacabili del mercato, ed è nello stesso mercato che, purtroppo, cerca la sua definizione e le sue vie di sviluppo.

Ma anche la verità ha la sua forza. E’ come un polline ricolmo di semi, soffiato da molti venti, ribelle alla monocultura pianificata, e che germina dove vuole. Ed è solito germinare molto e bene. La reale vita brasiliana produce per lo meno da quattro decadi una letteratura profonda, enigmatica, brutale e sublime come la vita. Produce i suoi "cronisti dal limbo", un universo letterario spaventoso, dove l’uomo appare al meglio e al peggio di se stesso, dove i suoi atti e gesti sono epifanie che emanano dalla sua essenza, così come dal tessuto umano sciupato, consumato, strappato da forze che ignora. Porta nelle sue mani le viscere che offre al secolo, senza sapere che nessuno le riceverà, che nessuno è disposto a guardarle.

E’ per questo che gli scrittori del Brasile urbano di oggi sono tutti martiri oscuri della letteratura, al servizio della più incomoda delle verità. Si perdono tra gli uomini più persi. Dicono quello che il resto del mondo ha paura di sentire. Vivono torturati dalla propria sensibilità, loro ferramenta di lavoro, e muoiono come vivono, descrivendo le sensazioni estreme del limbo.

Perché, mi chiedo, una gran parte della critica ha così tanta paura di guidarci con toni pacati attraverso i percorsi di questo limbo.

Forse perché ci vuole coraggio, e il coraggio, attualmente, è una espressione per molti versi desueta.

Uno degli errori che commette la critica ad ampia distribuzione, infatti, è senza dubbio quello di alzare i toni, ma anche quello di abbassare la qualità del giudizio a considerazioni sterili e spesso populistiche. Secondo me l’originalità principale della critica dovrebbe trovarsi nella ricerca, nello stimolo verso il nuovo, ancor prima che nell’analisi dei contenuti. La critica del pensiero critico dovrebbe stimolare, ancor prima di giudicare. E la stimolazione trova origine nella scoperta, nell’analisi di ciò che ancora non è giunto alla conoscenza dei molti. Determina sconcerto vedere nello stesso periodo una gran mole di mezzi mediatici occuparsi tutti insieme dello stesso evento. Il pensiero critico, anche se bene espresso, diventa in questo caso un tam tam martellante e nevrotico. Una imposizione psicologica che “obbliga” il lettore a un interesse passivo, utile per non rimanere tagliati fuori dal meccanismo. E il meccanismo funziona. Funziona perfettamente perché, trasformandosi in uno spot pubblicitario, ha tutta la forza dirompente che caratterizza qualsiasi spot pubblicitario. Il problema che tenta di affrontare la critica di massa non è più la scoperta, la novità o la ricerca. Ma una gara dal temperamento ruffiano per scrivere il testo migliore sullo stesso titolo. Non vince chi rischia proponendo una novità insolita, ma chi per primo raggiunge visibilità con la stessa novità. E per fare in modo che la novità rimanga una novità, si continua a riciclarla con meccanismi a volte anche crudeli e spesso ridicoli. Si prenda il caso dell’ultimo capitolo dei libri di Harry Potter, con i quali si è tentato di creare una aspettativa e un fermento che non è per niente tipico dei lettori del nostro paese. Pur non volendo togliere nulla al romanzo, che rimane un ottimo romanzo (e le vendite lo confermano), non sarebbe stato più interessante se la critica avesse cercato una alternativa, avesse insinuato il sospetto che esistono altri romanzi di uguale fattura e che meriterebbero di essere letti e analizzati? Invece no. Si è preferito parlare per mesi di un libro sul quale, non essendo ancora pubblicato, non si aveva nulla da dire. Così per arrivare a coprire questo nulla si sono inventati isterismi e si è giunti ad intervistare il ragazzino che era riuscito a comprare la prima copia. Questa, duole ammetterlo, ma è una critica dal pensiero stanco e pigro. Una critica che intontisce o, al massimo, si compiace di se stessa.

Esprimo un simile parere con riserva, consapevole che il mio giudizio critico sul modo di intendere la critica rischia inevitabilmente di acquisire dei connotati soggettivi, trasformando me stesso in un portatore di pensiero e basta. Per mantenere un punto di vista che si avvicini il più possibile all’oggettività riprendo spesso riferimenti che mi hanno colpito e hanno stimolato in me un percorso di analisi. Tento di trasferire in me i dubbi che riconosco in un certo tipo di pensiero critico, e cerco in continuazione certezze esplorando i punti di vista alternativi. E’ per questo che voglio riportare di seguito una breve pagina che ho letto sul sito www.filosofico.net, la quale analizza il pensiero di Ortega Y Gasset e della critica. Credo si possa definire una sintesi del mio pensiero sul modo di fare critica, e che purtroppo è distante anni luce dal pensiero che ci viene proposto quotidianamente attraverso i media a più ampia distribuzione.

Si è accennata l' importanza della critica, soprattutto se in qualche modo pregiudizievole, quale metodo spontaneo di fare scienza . Ma in che senso la critica è necessaria, o meglio, qual è la critica necessitata nel raggiungimento della verità?

A 19 anni, il primo dicembre del 1902, nella rivista "Vida Nueva" scrive e pubblica il suo primo articolo: "Glosas". Così inizia: " parlavo ieri con un amico, uno di quegli uomini ammirevoli che si dedicano seriamente alla caccia della verità e vogliono respirare certezze metafisiche: un pover’ uomo ". Tagliente, sottilmente ironico come sempre, il filosofo madrileno. Questo "pover’uomo" in realtà, aveva chiesto al giovane Ortega un' opinione su una critica, non meglio precisata, di un tale che, secondo il giudizio del suo interlocutore, mancava di imparzialità: " lo lasciai perdere e non risposi. Se avessi infranto la sua credenza nell' imparzialità, avrei ottenuto solo di fargli versare qualche lacrima sul nuovo idolo morto. E' un uomo che si nutre di certezze indubitabili ". Prescindendo ora dal notare quanto già sia presente il suo pensiero non ancora formulato, soffermiamoci ora sulla modalità in cui il giovane (e poi maturo) Ortega intende il termine "imparzialità". E' freddezza, personalità annullata a favore di un punto di vista che tralasci la soggettività e l' unilateralità specifiche dell' interpretazione, a favore dell' oggettivo punto di vista della maggioranza. E qual è la critica che ne deriva? " Inchiodare sul davanti delle cose e dei fatti un distintivo bianco o uno nero; trascinarli nella parte dei cattivi o nella parte dei buoni. Sempre inchiodare, sempre trascinare ". Il punto di vista della massa; la massa non è che un " innumerevole serie di zeri ", ciò che la fa essere è l'unità, dietro la quale i singoli individui sono vuoti: mero raggruppamento, grande numero, insomma. Criticare secondo l'opinione della massa, cercare a tutti i costi una verità apatica e poi lavarsene le mani è l'impegno della critica oggettiva : costruire una normalità di bello, di giusto, di bene e accattivarsi la simpatia e il benestare della maggioranza. Eppure, sottolinea il giovane madrileno, la critica impersonale non ottiene l'affermazione della massa di cui tale critico esprime il parere, " non entra nel cervello plumbeo della folla ". E' interessante notare la scelta orteghiana di questo termine. La gamma di sinonimi che l'aggettivo ingloba in sé spazia metaforicamente in diverse direzioni: grigio, pesante, ottuso, lento, noioso. La massa, quindi, come simbolo che incarna l'oggettività, l'impersonale e morta trasposizione della vivacità personale del singolo. La scelta del termine lascia certamente trasparire il giudizio del giovane Ortega, che poi verrà sviluppato e portato a maturazione, nei confronti dell' universalizzazione, l'astrazione, il sistema. E' un esempio pratico di cosa intenda veramente per critica. E ora lo vedremo attraverso le sue parole: " bisogna essere personalissimi nella critica se si vogliono creare affermazioni o negazioni possenti; personale forte e buon giostratore. Così le parole sono credute, così si fanno rimbalzare nel tempo e nello spazio i grandi amori e i grandi odi. Ah! Dimenticavo! Bisogna anche esser sinceri (…) Morale: non si può far critica senza sporcarsi le braghe ". E' difficile staccarsi dal coro, dissociarsi, esprimere con passione la propria critica: " quando vedranno nell'appassionarsi una cosa magnifica e buona? 'Paradossi', esclamano. Tutti gli uomini si giudicano capaci di passione; ignorano che le passioni sono dolori immensi, purificatori… ". La critica è una lotta.



Bisogna essere personalissimi nella critica, scriveva Ortega, se si vogliono creare affermazioni o negazioni possenti. Così le parole sono credute, così si fanno rimbalzare nel tempo e nello spazio i grandi amori e i grandi odi.

Credo che questa possa essere giudicata una verità inconfutabile: essere personalissimi…

Come si fa a essere personalissimi quando si ricerca l’omologazione e la gratificazione a tutti i costi? Come si fa a essere personalissimi quando si ha l’arroganza per mettere da parte la propria personalità e riportare un pensiero improprio, vassallo del pensiero altrui? Quale passione o dolore potrebbe spingere il giudizio critico di chi scrive solo per riempire uno spazio già predefinito con parole vuote di pathos.

Paradossalmente è la stessa società che tende a emarginare il pensiero originale, confinandolo in nicchie: luoghi di crescita culturale forti, ma lontani dalla visibilità comune a tutti. Accade quindi che il pensiero personale della critica debba essere ricercato con pazienza, spulciando tra gli articoli e le officine di pensiero più libero da tendenze o interessi economici. Si rischia in questo modo di perdersi, e ci vuole una cultura di base già forte per trovare ciò che si cerca, col rischio di smarrire sempre più spesso la notizia veramente illuminante, quella che si desidera scoprire da sempre, e che potrebbe finalmente arricchire le nostre coscienze. La cultura non esiste più, per molta gente stanca di cercare o impossibilitata a cercare, se non attraverso la sua diffusione capillare; ma la diffusione capillare è diventata monoculturale e per questo sterile e incapace di proporre cultura.

Il meccanismo è più o meno il seguente: ciò che non è rappresentato o visto attraverso la lente dell’immaginario collettivo, finisce per non esistere realmente. Quella che Ortega definisce la “massa”, finisce allora per incarnare l’oggettività (preparata a tavolino, aggiungerei io), finalizzata a sostituire la vivace personalità del singolo.

Se il critico acconsente alla vivace personalità del singolo perde di visibilità. Se si perde di visibilità non si esiste più, come pensiero critico, sopraffatti da un pensiero stanco e costantemente statico. Si è creata una “saturazione” della critica soggettiva per oggettivare la deficienza del pensiero critico.

Si è creato un mostro da tanti insignificanti mostriciattoli.

E allora non è improprio dire che la miopia culturale ha contribuito a determinare il fenomeno della monocultura o, meglio, della cultura dell’intrattenimento. Ha consegnato nelle mani degli editori il mezzo per strumentalizzare i lettori. Un tempo molte case editrici potevano lavorare su un doppio binario, che era quello della cultura e quello del guadagno. I libri che assicuravano altissime vendite compensavano l’impegno economico nella distribuzione dei libri che offrivano cultura anche se a bassa tiratura. L’equilibrio permetteva alla nobile professione dell’editore di esprimere il proprio ideale culturale. L’attenzione della critica verso quei testi forti di un contenuto culturalmente alto assicurava una vendita delle copie sufficiente per offrire ai lettori un lento ma progressivo accrescimento culturale. Dopo è avvenuto che le case editrici più forti, inglobando le altre forti solo dei loro ideali, hanno imposto il guadagno a percentuali elevate non più sul programma editoriale, ma sul singolo volume pubblicato. Non hanno quindi imposto direttamente cosa pubblicare: lo hanno fatto in maniera più subdola.

Compito della critica sarebbe stato a quel punto di ribellarsi, invocando l’arte come primaria espressione dell’editoria che non avrebbe dovuto guardare solo al mercato. La critica si sarebbe dovuta rifiutare di promuovere il bestseller  (il termine “promuovere” non è un errore…)

Anzi, la critica avrebbe dovuto contrastare questo fenomeno, prendendo una posizione forte. Avrebbe dovuto demotivarne la lettura, boicottare le vendite, ridicolizzare il meccanismo.

E invece…

E invece è diventata la cassa di risonanza di un meccanismo così estremamente pericoloso da diventare una specie di regime.

Il pensiero critico che si preoccupava di analizzare il testo, che lo sezionava fino a spremerne i più reconditi contenuti, ha cominciato a strizzare l’occhio all’editore che gli passava le dritte in base alle proprie esigenze. Un meccanismo ancora per certi versi accettabile. Criticabile, certo, ma ancora accettabile. Alla fine però il critico si è allontanato pure dalle pacche sulle spalle che gli dava l’editore e si è concesso anima e corpo al distributore. E’ il distributore, oggi, che passa le informazioni al critico. Ma il distributore, quando guarda un libro, lo valuta per il peso, per il tipo di carta e per il prezzo di copertina. A volte qualcuno gli rammenta che all’interno le pagine non sono bianche ma c’è scritta qualcosa. Lui allora guarda stupito, come a voler chiedere: “potrebbe diventare un problema?”.

Si! Potrebbe diventarlo, verrebbe voglia di dire. Ma per fortuna c’è sempre un certo tipo di critica che lo rassicura…

Un simile meccanismo conduce inevitabilmente verso quello che si potrebbe definire un culturicidio di massa.

Un tempo la critica si divertiva a inventare le parole.

Oggi lo fa ancora, ma è solo la critica portatrice del pensiero critico, e quindi quella che è stata confinata a riviste selettive o a spazi ricchi di contenuti ma poveri di visibilità. Compito della critica fine a se stessa è stato anche quello di inculcare nella credenza comune l’opinione che scarsa visibilità è sinonimo di scarsi contenuti. La critica ha messo in pratica il mezzo che gli è più consono: non considerare alcun pensiero oltre al proprio come degno d’attenzione. In questo modo si è uccisa la cultura. Per eutanasia, senza colpo ferire. Il pensiero non si è accorto di questo genocidio culturale perché è stato nutrito con false illusioni. E’ stato edulcorato e riempito con così tanta pseudocultura da andare in overdose.

Prendiamo allora la definizione generica di eutanasia, come si potrebbe trovare in qualsiasi vocabolario, e inseriamo tra parentesi quadre i riferimenti alla cultura e al pensiero, rendendoci conto di come calza alla perfezione con quel che oggi accade nel mondo culturale.



L'eutanasia [culturale] (dal greco euthanasìa, "morte felice") è una pratica che procura la morte [del pensiero] in maniera non dolorosa alle persone, in genere allo scopo di eliminare la [conoscenza]. Essa consiste in genere nella somministrazione di sostanze tossiche che portano alla cosiddetta "dolce morte" del [pensiero]. È attualmente ammessa nella legislazione di pochi paesi d'Europa e del Mondo, mentre nei rimanenti è in genere equiparata all'omicidio [ideologico].

Il suo contrario è l'accanimento culturale, ossia cercare di tenere in vita una [ideologia] morente. L'accanimento culturale è considerata un'attività che prolunga l'agonia, infliggendo maggiore dolore, rispetto al bene che procura e perciò dal punto di vista etico è in genere considerata un'attività contro la dignità umana e contro l'interesse del [singolo], al quale dovrebbe venire riconosciuto il diritto di [pensare] tranquillamente.

 

E’attraverso simili meccanismi che pian piano, forte della globalizzazione, ha preso sempre più forma il mercatino della critica.

Il prof. Noam Chomsky, ho già scritto, ha modo di dire che i media negli Stati Unito sono corporation o parti di corporation e che i loro omologhi in Europa, i principali quotidiani internazionali, sono in gran parte aziende che vendono un pubblico privilegiato ad altre aziende. E non è sorprendente, aggiunge, se l'immagine del mondo che presentano riflette l'interesse degli acquirenti.

La dichiarazione del prof. Noam Chomsky secondo me è una verità inconfutabile che andrebbe analizzata con attenzione, per capire quali sono i meccanismi culturali che possono spingere un critico che scrive sulle riviste ad ampia diffusione.

Si nota infatti che anche nella sua libertà ideologica il critico è costretto a “vendere” un prodotto che rispecchia l’interesse degli acquirenti. Il critico deve domandarsi (paradossalmente) se ciò che si prepara e recensire non possa essere considerato di cattivo gusto dal suo lettore, o non possa offendere la sua suscettibilità. L’attenzione che il critico mette nel suo lavoro è simile a quella del negoziante: deve trovare il prodotto giusto per i suoi clienti. Deve capire quali sono i desideri della clientela per poterli poi esaudire con eleganza e gusto. Deve fare, obbligatoriamente, l’interesse dell’azienda che sta dietro il giornale. Un modello simile ha spinto la recensione critica verso una attenzione inevitabile nei riguardi del bello, ipotizzando che non può esserci bellezza nella crudeltà del linguaggio o nell’analisi della parte più oscura del vivere sociale. Si accetta la negazione solo quando è un messaggio per esaltare i parametri confermati del vivere moderno.

Il punto cruciale della critica è quello di individuare il target di clienti del giornale.
Questo meccanismo, un tempo diffuso solo in certi mensili o settimanali, si è ormai diffuso anche nelle pagine dei quotidiani lasciando scomparire un fenomeno che invece era caratteristico della critica: e cioè la recensione negativa. Ormai non c’è più spazio per una recensione che parli negativamente di un libro, perché parlarne è diventata inevitabilmente una promozione. Anche parlarne male. Perché “ciò di cui si parla esiste…”

A immaginare tanti giornali, tutti aperti sulla pagina della cultura, viene in mente uno di quei mercatini del sud, dove ogni venditore urla più forte per esaltare il gusto del proprio prodotto. Si sa che da li non si scappa. Qualcosa, alla fine, si riesce a vendere in ogni caso. L’importante è offrire ciò che la gente desidera comprare. E questo per una critica del pensiero critico non è un effetto negativo, ma è molto peggio. E’ un pericolo, trasformandosi in una miopia culturale

A dimostrazione di quanto finora detto si potrebbe riportare una futile quanto infantile discussione che si è instaurata attraverso le pagine di Repubblica in merito alla scrittura e alla critica, e che, in maniera direi quasi perversa, tende ad autocelebrare ancora una volta il pensiero critico fine a se stesso, perdendo una buona occasione (l’ennesima) per proporre qualcosa di originale, confermando la teoria che oramai attraverso le pagine di cultura ad ampia diffusione non è possibile aspettarsi una critica del pensiero critico…

Attraverso le pagine del quotidiano il signor Baricco scrive una lettera sfogo con la quale si lamenta per il trattamento che riceve da alcuni critici che, a suo vedere, ironizzano sui suoi libri senza averli, forse, neanche letti. Una bella lettera, scorrevole e a tratti ironica, ma del tutto simile a centinaia di altri sfoghi simili a questo, scritti da altri autori, e pubblicate o recensite in vari blog o siti di interesse letterario. Con una differenza, però. Che la lettera del signor Baricco, appunto perché pubblicata da Repubblica, esiste veramente, mentre le altre è come se non fossero mai esistite ed è come se nessuno le avesse mai lette. Per chi è abituato a raccogliere il pensiero come un elemento che esiste solo se determinati canali ne danno visibilità, la lettera del signor Baricco appare come un lampo a ciel sereno. Scandalizza, scuote le coscienze, avvia discussioni, rompe un muro di omertà… Tutte cose già viste insomma, delle quali non è importante neanche parlare, per ora.

E’ interessante invece la risposta, sempre attraverso le pagine di Repubblica, del signor Berselli. Egli inizia l’articolo dicendo che «la polemica innescata da Alessandro Baricco contro i critici parlanti di sbiego, “recensite o tacete”, può anche riportare al pensiero confortevole che esistano ancora figure capaci di dominare e plasmare il panorama letterario».

Dopo questa prima amenità ne sciorina tante altre citando autori e editori. Scopre l’acqua calda, insomma. Senza rendersi conto che tutto il suo discorso assume la consistenza di un discorso incredibile, ed è lo stesso recensore che conferma ciò quando afferma che «il non mercato editoriale è diventato un quasi mercato e l’editoria si è trasformata in un fenomeno di massa modellato dal marketing».

Ebbene, non è anche il giornale attraverso il quale egli scrive un fenomeno culturale di massa, e quindi un prodotto di marketing? Non sono, allora, anche le sue considerazioni un prodotto di marketing? Non è un prodotto di marketing il tentativo di prendere le distanze, con questo articolo, dagli spot pubblicitari ai quali ci hanno abituato, e fingere di scandalizzarsi per un fenomeno che invece, per chiunque è abituato a guardare un po’ più lontano, appare chiaro e lampante già da tempo?

Se avesse voluto dare forza e credibilità al suo articolo non avrebbe dovuto scriverlo sulle pagine di uno di quei giornali che appartiene al circuito del marketing. Ma se lo avesse scritto in un circuito alternativo e desponsorizzato non avrebbe avuto visibilità, e se non si ha visibilità, lo sappiamo, è come se non si esistesse. E allora ecco la frase d’effetto, quella che dovrebbe pulire le coscienze e rendere giustificabile qualsiasi opinione, purché asservita al mercato portatore di un pensiero fine a se stesso.

«Che si tratti di una concezione premoderna è sancito non tanto dall’assenza di critici e imprenditori culturali come Elio Vittorini, quanto dal semplice sguardo alle classifiche dei libri più venduti».

Non è così! I critici e imprenditori culturali ci sono, e sono tantissimi, solo che non hanno spazio nei circuiti di comunicazione dai quali attingono molte di queste persone, e allora per queste stesse persone, e solo per esse, è come se non esistessero.

Miopia culturale.

E poi, cosa vuol dire concezione premoderna?

Il signor Gian Paolo Serino, attraverso le pagine di un quotidiano, ha presentato un articolo di critica letteraria abbastanza polemico nei riguardi di certi trucchetti promozionali finalizzati alla sponsorizzazione di un romanzo. Inventa, in questo articolo, la parola Marchetting, da sostituire alla parola originale marketing. Indipendentemente dal notare un’altra occasione persa per fare della critica portatrice del pensiero critico, mi è sembrata un po’ una trovata ridicola questa “guerra tra critici” che cerca di enfatizzare o distruggere un testo non sui contenuti, ma sul piano più televisivo possibile, nel senso peggiore della parola.

Marchetting rimane una bella trovata. Originale nell’espressione ma non certo nel significato. Che si inventi il caso letterario non è una novità, che si cerchino sempre formule nuove per farlo è la conseguenza inevitabile di questo gioco perverso e afinalistico. Ignorare il pericolo di questa rete di marchettari (o marchettingari?) resta impossibile, perché il marketing è e rimane il mezzo più potente a disposizione di una società globalizzata. E noi siamo una società globalizzata. Il gioco non vale la candela ma diventa indispensabile per sopravvivere. Veniamo irretiti, che ci piaccia o no, e la nostra attenzione viene rapita dalla critica decente che giudica la critica peggiore.

Ovviamente scegliamo la decenza. Terrorizzati da quella peggiore immaginiamo di abbracciare il pensiero appena decente con una sorta di eroismo. Siamo i combattenti di una guerra appena meno sporca di una guerra sporca, e per questo ci illudiamo di essere nel giusto. Vediamo nel nostro rivelatore di sporcizia il nuovo eroe e lo seguiamo acriticamente.

E così anche l’ultima frontiera, per ora, è stata abbattuta. Non ci si limita più a creare il caso letterario, ora si è inventata anche la distruzione del caso letterario. L’oggetto libro si sposta sempre più ai  margini di queste inutili discussioni, rischiando di diventare addirittura perverso.

I critici cominciano ad avere i loro fans, che ascoltano e criticano a loro volta. Peccato che non si capisca di cosa, perché spesso, com’ebbi modo di scrivere in precedenza, sotto le spoglie del progressismo democratico si cela in realtà un oscurantismo populistico.

Avvenimenti di quotidiana frequenza confermano, se mai ce ne fosse bisogno, come questa espressione – non mia tra l’altro – sia da considerare sempre più veritiera.

Puntualizzo che esprimendomi in questo modo mi riferisco sempre e comunque alla situazione letteraria, nonostante qualcuno non perda occasione per ricordarmi che è così anche nella vita sociale. Ma della vita sociale in queste mie riflessioni me ne interesso ben poco, lasciandogli altri spazi della mia vita relazionale.

Quando si parla di oscurantismo populistico in campo letterario la più frequente opposizione che viene posta in campo dai signori che dell’oscurantismo populistico se ne fanno (inconsciamente, direi) portavoce, è sempre la stessa: esprimendosi in questo modo, dicono, si insinua negli altri il terrorismo psicologico di una libertà condizionata.

Anch’io sono condannato per questo come illiberale, anche se non ho ben capito come possa anche solo esistere il termine libertà condizionata.

Alle volte, quando la voglia di discutere vien meno, tento di rassegnarmi a una tale situazione. Mi domando comunque se non sia meglio passare per indifferente piuttosto che per rivoluzionario, e tento disperatamente di cercare nella letteratura un progressismo che comunque stento a trovare.

Continuerò per questo a parlare di oscurantismo populistico, anche se poi, come accade quasi sempre, mi viene negato il diritto di parola.

Mi piacerebbe allora concludere ricordando questi versi di Pier Paolo Pasolini, tratti da “Affabulazione”, e ringraziare chi ha avuto la pazienza di leggere sin qui.

Colui che vi parla è l'ombra di Sofocle. 

Sono qui arbitrariamente destinato a inaugurare 

un linguaggio troppo difficile e troppo facile: 

difficile per gli spettatori di una società 

in un pessimo momento della sua storia, 

facile per i pochi lettori di poesia. 

Ci dovrete fare l'orecchio. 

Basta. Quanto al resto, 

seguirete come potrete le vicende un po' indecenti 

di questa tragedia che finisce ma non comincia 

fino al momento in cui riapparirà la mia ombra. 

A quel momento le cose cambieranno; 

e questi versi avranno una loro grazia,

dovuta, stavolta, a una certa loro oggettività”






Gianpietro Scalia: Sono nato nel 1960 a Soverato, un paese marino situato in Calabria, a pochi chilometri da Catanzaro. Già da ragazzino, per via del lavoro di mio padre che è stato maresciallo dei carabinieri, con il resto della famiglia abbiamo vissuto in varie città spostandoci periodicamente tra la Calabria e la Sicilia. Ho completato gli studi liceali a Reggio Calabria e mi sono quindi iscritto all'università di Pavia, facoltà di medicina e chirurgia. A Pavia ho vissuto per dieci anni circa, prendendo la laurea e la prima specialità in malattie dell'apparato respiratorio, tra l'altro affrontando quasi tutti gli esami di laurea e specialità insieme a una compagna di studi che in seguito è diventata la mia compagna di vita. Infatti terminato il corso di specialità ci siamo sposati, e per motivi di lavoro ci siamo trasferiti a Varbania, sul lago Maggiore, dove abbiamo vissuto altri dieci anni e dove tra il novanta e il novantadue sono nati i nostri due figli. Intanto che i nostri figli venivano al mondo ho acquisito la seconda specialità presso l'università di Torino in anestesia e rianimazione, attività alla quale in seguito mi sono sempre rivolto e mi rivolgo ancora. Attualmente viviamo a Piacenza, luogo natale di mia moglie, e alla famiglia si è aggiunta una gatta che per quanto di frequente disturbi il nostro riposo notturno, dà comunque sempre meno grattacapi di quanti non se ne abbiano a dover crescere due figli. La letteratura, i libri che scrivo così come quelli che leggo, hanno sempre occupato gli spazi liberi che la vita mi è riuscita a regalare.



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