LA SCUOLA DI BEM-TE-VIS

 

Cecilia Meireles

 

Sono in molti ormai a non credere più nell’esistenza degli uccelli, se non nelle stampe o impagliati nei musei – cosa perfettamente naturale dato il nuovo corso della terra dove, anziché alberi, si producono blocchi di cemento armato in abbondanza. Però ce ne sono ancora di uccelli. Ce ne sono talmente tanti intorno a casa mia che finora non ho avuto il tempo (né credo l’avrò) di conoscere i loro nomi, i colori, di comprenderne il linguaggio. Perché evidentemente gli uccelli parlano.
Molti anni fa, nel mio primo libro di inglese, si leggeva: “Dicono che il sultano di Mamud comprenda il linguaggio degli uccelli…”
Quando odo un gorgheggio nelle mangueiras e nei cipressi, penso subito al sultano e al linguaggio che lui comprendeva. Sto attenta, ma non riesco a tradurre niente. Però so benissimo che gli uccelli stanno parlando.
Il pappagallo e l’arara imparano ciò che gli insegnano e parlano come dei dottori. E c’è il bem-te-vi che parla portoghese dalla nascita, ma purtroppo dice solo il suo nome, di sicuro senza sapere che si chiama così.
Anno dopo anno i bem-te-vis del mio quartiere sono nati, cresciuti, hanno brigato, parlato… - dopo non si sono più sentiti: non so se sono caduti nella padella dei sibariti, se hanno trovato lavoro, se viaggiano, se hanno preso le ferie, se fanno del turismo. Non so.
Ma, finché si trovavano qui, sono stati pazientemente istruiti dai loro padri o dai loro professori e pare che appena cominciavano a volare andassero a lezione, al contrario di tanti bambini che, prima ancora di andare a scuola, già volano.
I genitori e i professori di questi uccelli devono insegnare loro molte cose: a distinguere un uomo da un’ombra, i semi dalla frutta, gli uccelli amici da quelli nemici, i gatti – ah! soprattutto i gatti…Ma questo insegnamento sembra essere tutto pratico e silenzioso, quasi segreto: una specie di iniziazione. Quanto all’insegnamento orale, pare che sia proprio solo: “Bem-te-vi! Bem-te-vi!”, che gli uni dicono con voce roca, altri con voce dolce e i più piccoli, ancora alquanto esitanti, senza fiato per tre sillabe.
Così fino a qualche tempo fa. Ma ora le cose sono cambiate. Quando il padre, o il professore, insegna con la più pura dizione: “Bem-te-vi”, l’alunno pigro, neghittoso o turbolento, risponde appena “Te-vi!”. Grande scandalo! Una pausa nella verde scuola aerea.
“Bem-te-vi! Bem-te.-vi!”, ripete l’istruttore, con un’irrequietezza che si avvia a diventare furiosa. Ma i cattivi esempi vengono subito seguiti. E tutta la classe trova divertente quella mancanza di rispetto, quella moda nuova, quell’invenzione pazzerella e fa un coro di “Te-vi! Te-vi! Te-vi!” lasciando la stessa eco interdetta.
Questa rivoluzione è durata un certo tempo. Lo stormo, poco studioso, volava da est a ovest a farsi beffe degli anziani. “Bem-te-vi” dicevano questi, severi e puristi, cercando di richiamarli alla ragione. “Te-vi! Te-vi!”, gridavano gli altri, buontemponi, ribelli, fuori di testa.
Trascorse il tempo necessario per far apparire una nuova generazione. E allora fu sensazionale! Gli uccelli più giovani, udendo il fraseggio classico dei nonni: “Bem-te-vi! Bem-te-vi! – dovettero pensare che si trattasse di una lingua morta: qualcosa come latino o sanscrito. Dopo, udendo l’abbreviazione dei genitori: “Te-vi” Te-vi!”, la trovarono ancora troppo lunga. (Che impiastro la famiglia!) e passarono a rispondere “Vi! Vi!”. Molto più economico.
Adesso in cielo non volano più angeli ma aerei e jet…
“ Bem-te-vi!” esclamano gli anziani, offesi nella loro dignità. “Te-vi!” rispondono i figli ribelli. E i nipoti, inariditi: “Vi! Vi!”
Quanto ai pronipoti, vedremo che cosa succederà. Forse i professori cambieranno metodo. Forse cambierà il ministro dell’istruzione. Forse i tempi saranno diversi e gli uccelli torneranno a essere normali o smetteranno di parlare, solo per capriccio, o inventeranno – chissà – un’espressione geniale.
E può anche darsi che non ci saranno più bem-te-vis.

 

(Traduzione dal Portoghese di Mirella Abriani).

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