DANZA DEGLI AVOLTOI INTORNO ALL'EFEBO
(Un bagno turco in un albergo di via Mercaderes)

 Roger Salas

In uno dei vecchi quartieri della città, dietro un portone stretto e anonimo, c'erano i bagni turchi. Vi si accedeva da una vecchia scala di legno consunto, con i gradini infossati al centro, come per il peso insostenibile di molti piedi. Un odore acre e persistente assaliva chi entrava, simile a un'ebrezza o un sopore dove la morale sociale e il disagio per la nudità erano le prime cose da dimenticare. In fondo, nella penombra, un travasare di traspirazioni lasciava intuire l'ansiosa attesa. Perte metalliche conducevano ai bagni di vapore dove avvenivano gli incontri. Fu lì che vidi per la prima volta l'efebo che, confidando nella distanza abissale dai suoi compagni di viaggio, riposava sulle panche untuose, anch'egli in attesa o semplicemente alla mercé degli sguardi voraci dei più anziani.
Forse non era un efebo ma solo un giovane, delicato, flessuoso, dalla figura slanciata, la vita stretta, lo sguardo basso e tranquillo, i capelli corti che mettevano in risalto il collo. Gli anziani attorno a lui ansimavano come buoi infoiati, grondando sudore che puzzava di spezie irrancidite; fischiavano, simulavano gemiti.
Con il passare delle ore, il calore non provocava più affanno né bruciore agli occhi ma una sensazione di volo rasente, pulsazione alle tempie, ronzio interno per una tensione sempre più insostenibile. Il giovane entrava e usciva dalle saune placando al suo passaggio qualsiasi affanno, guardandosi attorno con la sicurezza distratta della giovinezza e gli anziani sfregavano le loro pance contro le pareti di caucciù della stanza buia.
Alla fine qualcosa in lui cedette automaticamente e obbedendo a un'assenza d'impulso si prostrò il quel recinto dell'odio. Il pavimento era cedevole e lercio, imbrattato di tracce veneree. Gli anziani non ebbero bisogno di guardare, lo sapevano; aspettavano la sua caduta e allora, guidati da un tacito spiegamento di desideri, scacciarono ogni residuo di resistenza. Si mossero in circolo attorniando il giovane e lo cosparsero con un antico unguento di saliva e immaginazioni represse. Uno riuscì ad aggrapparsi a lui e, dimenandosi come in un'onda notturna che trascina verso la morte, si strinse alla carne tersa effondendo il suo piacere impossibile al contatto con la giovinezza, privando dell'ultima libertà quelle forme rilassate.
La danza continuò per un po'. Mentre qualcuno trafficava tra le cosce, altri semplicemente si buttavano sulle sue spalle e qualcun altro riusciva a guadagnare una mano, il tocco lieve delle dite intorpidite. Il giovane sentì le membra farsi più pesanti (una sonnolenza che saliva dal pavimento sotto forma di fetore) e dopo aver chiuso gli occhi alle dense tenebre della stanza, si addormentò. Sul suo ventre pesavano scariche seminali acri come l'aloe, e tutte quelle sostanze gli bruciavano in una confusione di piaceri tutt'a un tratto sfumati.
Un po' alla volta gli anziani si ripresero e si accorsero che non stava più partecipando (non avrebbero mai saputo se in qualche momento aveva partecipato). Nessuno si offese e, alcuni sbuffando, altri canticchiando, si sdraiarono in quello stesso luogo, l'arena in cui si affrontava un nuovo esemplare. Uno si alzò appoggiandosi goffamente al muro, un altro si accovacciò sulle atrofiche ginocchia. L'età, un odio profondo per il tempo, li ammutoliva ma li teneva inchiodati. Il cumulo die sperienze negative li spingeva a rassegnarsi, subire pazientemente e rimanere lì fino a che uno di loro, spinto da un improvviso pensiero crudele verso i suoitestimoni, disse:
- Si è addormentato - erano avvolti in grandi panni bianchi e sbrindellati che aprevano clamidi oltraggiate o toghe senatoriali da operetta.
- Non possiamo saperlo, potrebbe benissimo fingere - ribatté quello che era in piedi, nel buio dell'angolo più nascosto.
- Sì, sembra che dorma - disse il più vecchio sorridendo al nulla e poi aggiunse - ma non importa, possiamo parlare anche se il suo sonno è una finzione.
- Parlare di cosa? - disse il primo.
- Di lui - rispose il più vecchio affondando il mento nel grasso del collo. - È inutile negarlo, quello che vogliamo è parlare di lui.
- Vuoi sempre parlare! Sei un inetto, fai svanire ogni incanto con le tue chiacchiere.
Questa volta la voce giunse dall'altra parte della stanza, qualcuno che aveva morso la stessa mela.
- Dovrebbe essersi addormentato - si ostinò il più vecchio senza far caso al rimprovero. - Si sente al sicuro con il padre vicino.
- Cosa dici? Immaginazioni, giustificazioni!
- È vero, occorre una grande immaginazione per abbracciarti - rispose l'altro anziano senza nemmeno girarsi.
- Sembra una lezione di anatomia ma è un corpo vivo! - questa voce pareva sensata, padrona di sé.
- È solo un corpo, l'apogeo dell'inganno, secondo quello scrittore grassoccio.
- Se ti ascoltassi mentre parli! Blasfemo, effeminato, vecchia...
- Non importa, il bimbo dorme sotto la nostra insaziabile aureola, e se finge di dormire (non lo sapremo mai) godrà della nostra ingenuità, la nostra volgare credulità...
- Ha bisogno di noi, dal portafoglio all'estasi...
- ...ci ama... - aggiunse una timida vocina dal fondo della paura.
- Per Dio, non confondere le cose! Lui è qui per sfiancarci, per bruciare una nave di ira, per non ritornare.
- È già passato di qui, l'ho visto molte volte, qui e dalle parti del Malecón.
- Anch'io! Frequenta i gabinetti pubblici del Prado.
- È sempre la prima volta. E ogni volta sfianca il padre, ha bisogno di crearlo e distruggerlo.
- Questa spiegazione è facile, inutile e soprattutto teatrale.
- Non la sua bellezza - era un'altra voce, arrochita dall'alcool.
- Sì, anche senza una luce che gli conferisca esistenza, rilievo. - Con il tatto, il filosofo indovinò i suoi muscolosi avambracci, le vene azzurre che salivano verso il centro di irrorazione, le sue grosse caviglie...
- Esiste e non lo accettiamo con naturalezza. Siamo così meschini e così stanchi...
- Parliamo, parliamo! Non ha senso! - replicò un altro professore.
- Può arrivare qualcuno... e ascoltare. Gli verrebbe da ridere - una risata scosse il fumo rossastro.
- Felici i mortali, mio caro. Non capisci il tuo privilegio? Non capisci che puoi sfinire il fantasma anche in presenza del suo riferimento più reale? Che snobismo!
- Non dorme, ne sono sicuro.
- Non esiste - qualcuno rise sotto i baffi. Si udiva un battito, un flebile respiro.
- Esiste per noi, siamo noi che gli concediamo un posto, il ruolo umiliante degli adoratori, il nostro ruolo.
- Ma perché viene qui? Cosa cerca? E tu di cosa cavolo parli, troia?
- Non di noi, ma del nostro risultato, quello che alla fine siamo capaci di rappresentare. Non le nostre persone, ma il nostro simbolo, scendendo si purifica.
- Non puoi capirlo. È molto giovane, anche se ha esperienza, ha niente a che afre con l'età e il talento. Parlo di un dono, qualcosa che si riserva alla bellezza e a chi non ha obblighi...
- Viene per qualche motivo, ci sceglie per qualcosa... soldi a parte.
- Si fa scegliere, compie, chiude un circolo, lavora.
- Non lotta minimamente.
- Qui non ci sono avversari (sarebbe ridicolo); è una lotta per dare vita a qualcosa di morto sin dal principio. È un lavoro.
- A chi lo vogliamo far credere? Che caratteraccio!
- Al diavolo! È servito per calmare la nostra voracità, questo è tutto. Siamo avvoltoi intorno all'efebo.
Il più grosso tossì e sputò nell'angolo.
- Questo giovane ha risposto alla repulsione lasciandoci fare e così cura in anticipo un male di cui già soffre e che lo perseguiterà per sempre. Prima o poi sarà al nostro posto. Quello che è certo è che questa specie, rinnovata senza interventi miracolosi, è eterna e ogni tentativo di occultare una determinata natura si trasforma in uno stimolo dell'istinto anormale. Basta, questo intervento mi ha stroncata!
- Oppure non si oppone per lasciare un po' se stesso dentro di noi. Rimanere con noi, in qualche insana maniera, nella nostra caduta - era la vocina più tremula che tornava a opinare.
- Si tortura torturandoci. Il suo guadagno è vederci soffrire.
- Quanto sei patetica, bagascia!
- Ci dimenticherà, non sa chi siamo...
- Se almeno ci avesse detto il suo nome.
Le ultime voci si fecero più basse, morse da una sconfitta dei sensi, pronunciate da una bocca piena di stracci.
- Non importa - sospirò il più anziano - non importa. Un coro... greco, di saggi. La gazzella abbassò lo sguardo per non anticipare la freccia. Un gabbiano d'argento in un salotto di specchi burleschi, aleggiando sulle rappresentazioni dell'innocenza... Lo capite, finalmente? Cirno! Ci ha visitato Cirno! - ancora risate, sputi. - Sarà meglio proteggerlo con la costruzione babilonica della nostra menzogna...
- Attenzione! Si muove! - osservò il più robusto.
- Non abbiamo finito, non abbiamo nominato la madre.
- Per Dio, no! - una luce gialla emerse dal labirinto, lo scintillio di un occhio, un qualcosa. - Questo no!
- Me ne vado.
- Anch'io.
- Aiutami ad alzarmi.
- Andiamo, fuggiamo.
Il più anziano rimase vicino al corpo stremato. Le ombre si erano spostate e la figura stilizzata del giovane mostrava ora uno scorcio di morte e perfezione. La mano del vecchio, tremante, si avvicinò e frugò nella generosità di un tocco provocatorio, ingiusto, addormentandosi anch'egli ma non senza aver prima ricordato un passato in cui la nebbia aveva già sostituito azioni per niente gloriose. Gli occhi dell'anziano rimanevano aperti e le pupille dilatate creavano immagini di un movimento, di una reazione dolce. Il sonno sopraggiunse con l'ultima meditazione, l'ultima scusa possibile, così che addormentarsi era una difesa dalla sordida tela, quel tableau vivant che sapeva di carne masticata e del sottile veleno prodotto da sudori chimicamente antagonisti. Il vecchio non sentì il bisogno di sdraiarsi, le spalle appoggiate alla parete di caucciù nero scivolarono fino alla smorfia corporale più lamentevole, la testa inclinata, perdutamente pendula, come sul punto di staccarsi dall'affaticato sostegno del collo, mentre il giovane, in un rimpianto di soddisfazione, si rifiutava di aprire gli occhi, prolungando inutilmente un risveglio ominoso.

 (Tratto dalla raccolta Gelati di passione, Voland, Roma, 2002, traduzione di Teresa Visceglia.)

Roger Salas è nato a Holguín, Cuba. ha lavorato al Museo di Belle Arti dell'Avana fino al 1981, anno in cui ha lasciato l'isola per stabilirsi prima in Italia e poi in Spagna. Da quindici anni è il critico di danza e balletto del giornale spagnolo El Pais, e alterna questa attività con quella di scenografo e costumista.

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