CIMITERO D'AUTOMOBILI

Rafael Menjívar Ochoa

 

Il Matto sapeva che sarebbe morto. Il dottore glielo disse:
"O ti taglio la mano, o crepi."
Lui si alzò e uscì dall'ambulatorio. Non storse neanche la bocca, come soleva fare a volte. Semplicemente si alzò e se n'andò. Aveva lasciato passare troppo tempo e l'unico modo di curarlo, era tagliare. Non gli piacque l'idea.
"Fattela tagliare, Matto," gli dissi sulla porta. "È la sinistra, non te ne fai niente.”
"È la mia mano," disse.
Erano quatto giorni che il Matto non andava a lavorare e il commissario mi chiamò.
"Portami quello stronzo o vi butto fuori entrambi. C'è un operativo e vi voglio qui alle sette."
Certe volte il Matto spariva per diversi giorni, poi tornava, come se niente fosse. La cosa più probabile è che restasse in casa a lavare i panni o andasse a puttane ad Acapulco, ma gli piaceva fare il misterioso. Non era strano che sparisse quando mancavano tre giorni a Natale.
Era nel suo appartamento. Dentro la tele urlava a tutto volume. Voci di cartoni animati. Era pallido e sembrava che non si fosse lavato da un anno, lui, sempre così pulito. Grondava sudore da tutte le parti.
"C'è puzza di topo morto," dissi.
"Sul serio?"
Un tanfo simile significa che c'è qualcosa in decomposizione. Di solito sono persone. Assassini passionali, vecchiette che cadono nella vasca da bagno, suicidi, un po' di tutto. Spiai nel bagno.
"Smetti di cercare," disse
Mi mostrò la mano sinistra avvolta in un fazzoletto con macchie nere. L'odore veniva da lì. Era gonfia, con le dita grosse come salsicce, e dello stesso colore.
"Mi hanno fottuto," disse
Si sedette davanti al televisore e bevve un sorso da una bottiglia di brandy. "Vuoi un goccio?" mi disse.
"No."
"Hai visto gli Antenati?"
"Ti porto dal medico."
"Hai visto i merdosi Antenati?"
"Sì."
"Assomigli a quel cazzone di Barney" disse, e cominciò a ridere. Accesi una sigaretta.
"Smetti di fumare. Quella roba uccide," mi disse.
"C'è l'operativo. Ti porto dal medico che ti veda e ti metta in mutua." Barney l'Antenato era vestito da Babbo Natale e usciva da un camino. "Hai visto gli Antenati?" tornò a chiedere.
Non riuscivo a staccare gli occhi dalla mano bendata. Lo stomaco mi andò sottosopra.
"Che t'è successo?"
"Mi hanno fottuto," ripeté.
"Chi?"
"Cosa importa?" disse in un soffio. "Mi hanno fottuto. Succede." "Una pallottola?"
"No," disse.
Non riuscii a smuoverlo da lì. Era strano che non volesse dirmelo. Gli piaceva parlare di quanto gli accadeva. Era bravo a raccontare storie.
Si guardò la mano con compatimento. Un rivolo di sangue nera scivolò da sotto il fazzoletto.
"Ti sta marcendo," dissi. "Ti porto dal dottore."
"Ormai non serve piangere," iniziò a svolgersi il fazzoletto. "Non mi fa neanche più male."
Me la mostrò. Dovetti correre a vomitare. Non perché non avessi visto cose peggiori, ma perché era la mano del Matto. Scoppiò a ridere e quando tornai stava finendo l'ultimo sorso della bottiglia.
"Vediamo se arrivo a Natale," mi disse.
"E chi te lo ha fatto?"
"Che vada affanculo."
"Ti porto dal dottore."
"Mi prenderanno in giro," disse, ma venne con me.
Lo portai con la sua macchina, non volevo che la mia s'impestasse. Quest'odore non lo dimenticherò, pensai.
"La vita è come una puttana di lusso," disse il Matto a un semaforo. "Come?" domandai, per dargli corda.
"Non lo so, ma è così."
Non parlò più.
"Cancrena," disse il medico legale. “Bisogna amputare. O ti taglio la mano, o crepi.”
"Fin dove?" chiese il Matto.
"Fino qui," e indicò sotto il gomito.
Allora il matto si alzò e se n'andò via correndo. Quando giunsi al parcheggio non c'era più la sua macchina.
"Perché c'è puzza di morto?" mi chiese il Turco, uno della squadra omicidi.
"Io non sento nessun odore," risposi.
Presi una delle auto sequestrate e me ne andai a Cuemanco. Lì c'era un posto che piaceva al Matto, con alberi e prati pieni di fiori. Il Matto era strano. Certe volte passavamo di lì e mi diceva: facciamo un salto.
Anni prima ci avevano trovato un cimitero d'automobili. Tutte rubate e saccheggiate, ordinate in file uguali. Erano circa settanta. Al Matto piaceva camminare in mezzo alle auto e sedersi dentro a qualcuna a guardare i prati.
"Voglio che mi seppelliscano qui," diceva, e mi raccontava storie di suo padre.
Lo trovai lì, infilato in una LTD senza sedili. Teneva la pistola con la destra e guardava attraverso il parabrezza con gli occhi ben aperti. Mi parve puzzasse ancora di più. Accesi un'altra sigaretta e tacqui.
"Smettila di fumare," mi disse.
Gettai la sigaretta.
"Stai male," gli dissi.
"Fa molto freddo. Niente va in cancrena quando fa freddo. Eppoi nei climi secchi non si va in cancrena."
"E i vermi?"
"Che si fottano."
Andai a pisciare contro un albero.
"Mio padre aveva una cicatrice nelle costole, di questa misura. Era brutta, come una bruciatura."
"Che gli era successo?"
"Non lo so." Stava sudando e aveva la voce impastata. "Quando andavamo in spiaggia passavo tutto il tempo a guardargli la cicatrice. Non capivo come mia mamma lo potesse abbracciare con quella cicatrice. Mi vergognavo che lo vedessero in costume da bagno."
Provai a toccargli la fronte, ma si ritrasse e mi puntò la pistola. "Stai male," gli dissi.
"Sai perché mi chiamano il Matto?" mi domandò.
"Perché sei matto," gli risposi.
Scoppiò a ridere e abbassò la pistola.
"Una volta ho disarmato quattro banditi con solo le manine. Avevano delle pistolone grandi così. Con le manine nude, e rincoglionendoli a furia di botte. Ero di servizio in banca. Mi hanno dato quattromila pesos di ricompensa. Ci ho comprato il televisore e delle camicie."
S'appoggiò con la testa sul volante e si mise a piangere.
"Ti fa male?"
"No."
"Sono le cinque," gli dissi. "Alle sette devo essere in commissariato per l'operativo e tu vai dal medico."
Fu allora che udimmo il motore. Sembrava una macchina sportiva smarmittata. Il Matto alzò la testa.
"Che vadano affanculo," disse.
Usci dall'auto impugnando saldamente la pistola, vigile, come quando dovevamo svolgere qualche lavoro delicato. Andò correndo fino dov'erano gli alberi.
Lo seguii.
"È un maggiolino," mi disse da dietro un pino. "Romba come una Ferrari. "
"Andiamocene," gli dissi.
"Sono due donne."
Dall'auto scesero due ragazze e un cucciolo bianco.
"Samoyedo," fece il Matto. "Ho sempre sognato di averne uno."
Le ragazze camminavano nel prato, con il cane che correva e gli abbaiava attorno. Loro non gli davano retta. Parlavano gesticolando e ridendo. Avevano dei blue jeans e dei maglioni colorati. Erano vestite quasi uguali.
Il Matto le guardava con la bocca e gli occhi spalancati, sembrava contento.
"A mia sorella mancherò," disse. "Almeno spero."
"Su, andiamo," insistetti. "E che ti taglino questa stronzata." "È la mia mano," disse.
"Si sta putrefacendo," gli gridai. "Morirai."
Mi guardò negli occhi.
"Non urlare," e tornò a guardare in direzione delle ragazze. "Ti hanno sentito."
Il cucciolo cominciò ad abbaiare nella nostra direzione. Le ragazze si alzarono lentamente, impaurite.
"Hai sputtanato tutto," disse e uscì.
Le ragazze, al vederlo con la pistola, corsero all'auto. Anche il cucciolo corse, senza smetter d'abbaiare.
Io corsi dietro al Matto. Le ragazze stavano salendo sul maggiolino. Lui si girò e mi puntò la pistola.
"Non t'avvicinare o t'ammazzo!" mi gridò.
S'avvicinò all'auto e prese di mira quella che guidava. Toccai la mia pistola, era al suo posto.
"Ma chi cazzo sei?" sentii che gridava la ragazza. "Ma chi cazzo credi di essere?"
Il cucciolo abbaiava come un ossesso. Il Matto le ammazza, pensai.
La ragazza gli doveva aver detto qualcosa, perché abbassò un poco la pistola. Mi avvicinai lentamente.
"Non me ne frega niente!" gridò il Matto. "Sono già morto. Sono morto da quattro giorni. Non me ne frega niente. Tu non sei nessuno per dirmi ciò che è bene e ciò che è male."
Il motore della macchina s'accese. Il Matto alzò nuovamente la pistola. Colsi l'occasione per circondarlo e avvicinarmi da dietro. Ce l'avevo a cinque metri. Che le ammazzi, pensai, poi mi pentii.
Il cucciolo smise d'abbaiare.
"Vedi che non è difficile?" disse il Matto. Stava urlando, ma sembrava che sussurrasse. "Hai visto? Dì alla tua amica di uscire, poi esci tu."
Era a tre metri. Sentii una voce stridula, apparteneva alla ragazza che era alla guida. Non capii quello che disse.
"Guarda," disse il Matto e mise la mano davanti al finestrino. Ancora una volta aveva abbassato la pistola. "Tu non hai mai visto niente di simile. Sei troppo carina. Tu profumi, ma io ho un profumo migliore," scoppiò a ridere. "Io ho un profumo migliore. Io profumo che è una meraviglia."
Sentii un colpo. Aveva rotto un finestrino con la pistola. Le ragazze gridarono e il cucciolo riprese ad abbaiare.
"Matto," gli dissi. Chinò il capo senza girarsi.
"Non me ne frega niente," disse.
Infilò la pistola nella cintura. Mi misi dietro di lui. Le ragazze erano sbiancate. Quella seduta al posto del passeggero assomigliava a qualcuna che non mi tornò in mente.
"Fate tacere il cane," le urlai.
La ragazza alla guida se lo mise sulle gambe e cominciò ad accarezzarlo cori le mani contratte. Il cucciolo tacque.
"Vi faccio un regalo di Natale," disse il Matto, e si tolse il fazzoletto dalla mano. "Guardate, è la mia mano."
Erano troppo terrorizzate per provare schifo.
“Matto.”
"Ti ho sentito," mi disse. “Non vedi che sto discorrendo con le signorine?" "Andatevene," dissi alle due.
"Col cazzo!" fece il Matto. "Che vedano, che si fottano," guardò quella al posto di guida. "Cosa vuoi?" le domandò. "Che cazzo vuoi?"
Fu a un pelo dal toccarla con la mano marcia.
"Guarisca!" gridò isterica. "Si curi, la prego."
Il Matto mise mano alla pistola. Estrassi la mia.
"Mollala o ti riempio di piombo," gli dissi.
Si girò a guardarmi. Stava piangendo. Aveva la stessa faccia di mio figlio quando gli rubarono il gatto. Mio figlio, lo avevo abbracciato. Col Matto non potevo, anche se avrei voluto.
"Perché?" mi chiese.
Continuai a tenerlo sotto tiro.
"Spostati Matto. Faccio sul serio."
"Forse sarebbe meglio così," disse, e si allontanò tra gli alberi. Trascinava i piedi e sembrava che la testa gli pesasse.
Il cucciolo s'era addormentato sulle gambe di quella alla guida. "Andatevene," dissi. "E non vi passi per la testa di raccontare qualcosa perché vi vengo a cercare."
Il suolo era pieno di pezzi di vetro. L'auto lasciò le impronte delle ruote sul prato. Il motore rombava troppo per essere un maggiolino.
"Ho già provato a spararmi, ora, due volte," disse il Matto. Era in piedi al centro del cimitero delle automobili. "Manda un odoraccio."
"C'è l'operativo. Andiamo o mi licenziano."
"Pensi che arriverò a Natale?" mi chiese.
"No."
Andò verso la sua macchina.
"Ormai..." disse.
Non sentivo più la puzza. Avevo smesso di sentirla da un pezzo. Gli aprii la porta.
"Ricordi se ho spento la tele?" mi chiese entrando.
"L'ho spenta io."
"Meno male. Consuma molta corrente."
Accesi la macchina. Il Matto non sapeva dove mettere la mano, aveva perso il fazzoletto.
"Che freddo di merda," disse.


(Tratto dalla rivista Crocevia n° 1 / 2, Marzo, 2004. Traduzione di Attilio Aleotti)


(Rafael Menjívar Ochoa (San Salvador, 1961), giornalista, sceneggiatore di fumetti, compositore, musicista e traduttore dall’inglese, dirige la Casa del Escritor di San Salvador. Più volte premiato, è noto per la serie di romanzi polizieschi Los años marcitos (Gli anni appassiti, 1990), Los héroes tienen seuño (Gli eroi hanno sonno, 1998), De vez en cuando la muerte (Di tanto in tanto la morte, 2002). HA pubblicato anche la raccolta di poesie Algunas de las muertes (1986) e i romanzi Historia del traidor de nunca jamás (Storia del traditore di mai più, 1985), Terceras personas (1996) e Trece (Tredici, 2003). Il racconto Cimitero d’automobili, scritto nel 1992, è uscito su varie antologie)

 

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