ITALIANO: LINGUA E CULTURA DI MINORANZA?

Intervista a Stefano Salis
a cura di Luisella Meozzi

 L'italiano è una lingua di minoranza, certo. Su questo non mi pare ci possano essere grandi dubbi, ne credo che ammetterlo comporti una diminuzione della sua importanza, ma bisogna essere onesti. Non ha confronti con altre lingue come numero di parlanti, non ha vantaggi geopolitici – nel senso che mi sembra impossibile che in futuro guadagni terreno nei confronti di queste lingue. E nemmeno in Italia, se proprio vogliamo essere precisi, gode di ottima salute.

Diretto. Così Stefano Salis, giornalista de II Sole 24 Ore, inizia questa intervista che ci conduce al cuore del nostro dibattito. Salis si occupa di letteratura, editoria, premi letterari: viaggia spesso per le fiere del libro in Europa. Leggendo le pagine che cura per il supplemento Domenica del quotidiano, abbiamo pensato che il suo parere potesse essere un ottimo punto di partenza per parlare della nostra lingua e della nostra cultura da diverse angolazioni.
Ma seguendo le tracce del dato linguistico si delinea un particolare modo di vedere la rilevanza che abbiamo, o abbiamo perso, come lingua e come cultura. E anche quali siano gli arricchimenti. enormi, che hanno accompagnato questa evoluzione, nello specifico della più recente narrativa con tutti i suoi sviluppi creativi e nella politica linguistica di una testata seguita e affermata come il Sole.
Ma torniamo al nostro quesito, perché si può dire che l'italiano è lingua di minoranza?

– La nostra è una lingua che si è formata lentamente, almeno nella coscienza dei parlanti. L'Italia – come è noto – ha avuto una grandissima letteratura, ma in una lingua parlata da una minoranza risibile della sua popolazione. L'italiano parlato è una lingua molto giovane, di questa cosa ne risente. Siamo stati – linguisticamente parlando – unificati dalla tv, ora saremo colonizzati, sempre più. dall'inglese. E il mondo contadino, dove prevaleva nettamente l'uso dei dialetti, è oramai scomparso. Ma non vorrei essere frainteso. Non sto cantando le lodi di un "aureo" italiano scomparso, ne mi interessa che venga difeso con campagne puriste che mi appassionano pochissimo. L'unico principio regolatore di una lingua credo sia l'uso. e più una lingua è usata – con storture, modificazioni, acquisizioni, tutto quello che vogliamo – più è viva e vitale. Quando sento dire che bisogna stare attenti, che bisogna difendere l'italiano, e altro, mi viene da sorridere. Difendere da che? Le lingue si evolvono, e a volte si estinguono: è successo al latino, figuriamoci se non può accadere all'italiano. Ciò non toglie che sarebbe un vero peccato, una tragedia.

–Non parliamo di estinzione, torniamo all'appiattimento: come combattere questa tendenza che si riflette ormai su tuta la nostra cultura, fino al cinema e alla musica? Quante e quali responsabilità ci sono?

– Si tratta di sapere usare i diversi registri che una lingua bella e completa, profonda e musicale come l'italiano, ha a disposizione. Ecco. Qui sì direi che l'appiattimento è notevole. Lo standard (vedete come è semplice usare una parola straniera. ma capirsi benissimo lo stesso...) proposto da tv e giornali – e non mi sembra che nelle scuole si stia attenti più di tanto ad un uso appropriato della lingua – degrada verso il basso. Sinceramente me ne posso rammaricare. ma non mi sembra il caso di strapparsi le vesti: l'italiano è vivo e vegeto e ha una comunità di parlanti per la prima volta – che lo usa assiduamente e con cognizione di causa. Quanto e se resisterà, non saprei dire. Penso che ci sopravviverà, comunque.

– Spostiamoci sul tema dell'arricchimento della lingua: sarà di minoranza, certo, ma ricchissima di dialetti e di apporti culturali regionali...

– Diversamente da altre nazioni (Francia, Inghilterra) la singolare formazione della nostra lingua ha avuto effetti decisivi anche sulla nostra letteratura. Abbiamo smesso di parlare i dialetti da pochi decenni. Abbiamo una grandissima tradizione nella letteratura italiana dei "dialettali": Porta, Belli, Maggi, Eduardo. Penso che il dialetto sia per chi ha la fortuna di disporne – una ricchezza, da sfruttare, da valorizzare. Questo non significa che propongo di ritornare a parlare il dialetto (a parte che quando lo posso fare lo faccio volentieri, e so quante sfumature aggiunga questo fatto a ciò che voglio dire, caso per caso). Significa che i dialetti, le forme regionali, le variante geografiche possono aggiungere e accrescere la bellezza e la ricchezza dell'italiano.

– Un arricchimento della lingua attraverso la letteratura passando per le forme dialettali. Ci spieghi qual è la tua visione?

– In poesia è una cosa ben nota: l'uso del dialetto proprio riveste significati di identità, di profondità. di miglior espressività. I poeti dialettali non si fanno problemi: usano la lingua che sentono più vicina a loro per esprimere ciò che hanno dentro. Detto per inciso: alcune delle prove più alte della letteratura italiana (dico italiana. non dialettale) provengono da questo ambito. Qui voglio solo ricordare un classico prossimo venturo: Tonino Guerra. Ma la cosa più interessante, a mio parere, che è accaduta in questi anni è che anche la narrativa – e persino la narrativa di genere – non si è fatta scrupoli ad usare coloriture o talora pesanti inserti dialettali, pur essendo l'intenzione dell'autore di scrivere "in italiano". Chiarisco: c'è una linea che va da Gadda a Meneghello e arriva fino a Camilleri, e ora oltre, per la quale l'uso del dialetto non solo è una fondamentale necessità stilistica, ma risponde a precise esigenze di capacità di penetrazione del reale.

– Che ruolo ha Camilleri in questa linea? E chi lo affianca?

– Camilleri ha un ruolo fondamentale nella narrativa italiana di questi anni (e credo che lo si capirà in pieno solo nei prossimi decenni). Ha rotto gli indugi imponendo la sua parlata (non importa quanto pura, so che ha dei contestatori in Sicilia), e "sdoganando" l'uso del dialetto per la narrativa, addirittura per il giallo. Poiché i lettori hanno dimostrato di gradire o di non essere troppo disturbati da questo impiego della lingua (altrimenti Camilleri resterebbe confinato nella categoria degli sperimentatori linguistici, come pure è accaduto a Gadda o Meneghello o al grande Stefano D'Arrigo), sulla sua scia è accaduto che molti altri narratori (penso a Marcello Fois, a Santo Piazzese. ma anche Ferrandino, Montesano, ecc) abbiano potuto pubblicare e avere successo pur scrivendo questo strano, affascinante miscuglio. Prima che Camilleri diventasse noto c'era stato l'esperimento – direi sottovalutato – di Francesco Guccini che, in Croniche epafaniche, aveva messo bene in evidenza cosa significasse, per lui, usare il dialetto: raccontare il mondo. Lo stesso ha fatto, in contemporanea con Camilleri, un altro grande scrittore di questi anni: il sardo Sergio Atzeni.

– Il caso di Atzeni mi sembra molto interessante. Hai scritto che la sua narrativa fa della manipolazione della storia e della lingua gli aspetti più significativi dell'agire letterario: che la sua opera ha realizzato in qualche modo il programma di Calvino : "La memoria (...) tiene insieme l'impronta del passato e il progetto del futuro (...) se permette di fare senza dimenticare quel che si voleva fare, divenire senza smettere di essere, essere senza smettere di divenire.”

– Atzeni ha inaugurato in Italia una specie di letteratura post–coloniale. Nelle bandelle di copertina la Sellerio lo definiva “scrittore etnico” mica per caso. Ha ripreso il sostrato di storie, racconti e atmosfere della Sardegna per reinventare una storia epica dei sardi e del loro cammino. Per farlo è passato prima dal semplice racconto in italiano (si pensi ad un romanzo come Apologo del giudice bandito), poi è stato quasi “costretto” (o meglio: ci è arrivato) ad usare il sardo: anche inventandosi le parole, quando era il caso. Guardate che questa operazione è la stessa che hanno fatto gli anglo–pakistani. gli indiani, i martinicani, i caraibici. Non ho paura di mettere in campo i grandi nomi della letteratura mondiale: Derek Walcott, Salman Rushdie, Edouard Glissant, Patrick Chamoiseau. Sergio Atzeni si muoveva nella loro scia. E insieme a lui Camilleri.

– Vuoi dire che anche lui si inserisce nel filone di Atzeni?

– Camilleri ha compiuto un'operazione di reinvenzione della storia della sua gente. I suoi romanzi storici hanno in comune questo: rileggere – anzi, riscrivere, la storia della Sicilia dopo l'unità. E non con l'ottica degli italiani che si sono imposti, ma con quella dei siciliani. Per fare questo bisogna usare la lingua degli "sconfitti": il siciliano. Ogni lingua è una visione del mondo: fateci caso, nei romanzi di Camilleri c'è sempre una spiegazione del mondo che parte da un dato linguistico. I siciliani vedono il mondo in maniera diversa perché lo vedono "in siciliano" e un piemontese calato dall'alto – proprio perché non ha quella lingua – faticherà molto a capire. Spesso non capirà nulla. Apro e chiudo una parentesi: é lo stesso meccanismo che consente a Ingravallo di "capire" la Roma del suo tempo (pur non risolvendo il giallo), è la stessa operazione di Meneghello a Malo.
Questa oggi mi sembra la linea più avvincente della nostra letteratura. E ci metto anche narratori come Stefano Renai o Gianni Celati che – sebbene in altre forme – analizzano la realtà tenendo molto ben presente la variante geografica. Direi che questi narratori, ben più che i Cannibali. hanno caratterizzato questi anni. Ma è solo la mia opinione.

– A questa nostra cultura di minoranza non si interessa proprio nessuno fuori dai confini italiani? Che visione hanno di noi all'estero?

– Mi è capitato spesso, per fortuna, di viaggiare per le fiere del libro in Europa e di constatare che tipo di attenzione ci sia verso la nostra cultura. Abbiamo un patrimonio artistico e culturale che non ha praticamente pari al mondo: i nostri classici, in tutte le discipline (arte, musica, letteratura), sono noti dappertutto. Quanto alla nostra letteratura attuale, alla nostra arte, alla nostra musica devo dire che mi sembra esagerato dire che non c'è un grande interesse all'estero: ma, di certo, non siamo la cultura dominante. Cerco di spiegarmi meglio. I nostri scrittori hanno anche un discreto mercato. vengono tradotti nei Paesi affini culturalmente all'Italia (penso soprattutto alla Francia). Non saranno dei best seller (suggeritemi una parola italiana migliore per esprimere il concetto...), ma pubblicano e vendono. Se però si vuole fare un paragone con la cultura anglosassone. non è proprio possibile. Se l'ottica che si pretende di avere quando si parla di cultura italiana all'estero è quella di un mercato egemonico non c'è proprio confronto: è evidente che la produzione in lingua inglese la fa da padrona rispetto al resto del mondo.

– Non pensi che la nostra curiosità, spesso incondizionata, verso le altre culture e le loro produzioni si possa definire positiva rispetto a un atteggiamento di chiusura e "rifiuto" – che spesso gli altri Paesi hanno nei nostri confronti?

– Non è esattamente questo il punto. Spesso ho l'impressione che in Italia si abbia una sorta di bulimia da traduzione. La selezione avviene solo marginalmente sulla qualità. Capita spesso di tradurre in italiano scrittori stranieri che valgono pochissimo e che vengono pubblicati da noi solo perché già editi in patria. Gli stranieri non subiscono questo fascino: i nostri scrittori fanno più fatica ad accedere ai mercati esteri. Esportiamo ancora troppo pochi libri, rispetto a quelli che traduciamo in italiano: forse è il caso di rifletterci. Ho il sospetto che questo atteggiamento non
sia altro che la manifestazione del senso di inferiorità che nutriamo, in fondo, nei confronti della cultura anglosassone. Siamo una cultura di minoranza. e lo sappiamo. Questo non vuoi dire che siamo meno profondi. Continuiamo a tradurre per paura di non perdere il passo, di mostrarci aggiornati, di non farci sfuggire nulla. Poi magari, individualmente, pensiamo di essere superiori, ma il mondo va in altre direzioni...

– La nostra narrativa degli ultimi quarantanni: carenza di qualità? Che tipo di tradizione hanno acquisito – e quale ignorano – gli scrittori italiani? I giovani, spesso, sembrano inconsapevoli del fatto che si inseriscono in una intertestualità, un universo palpitante dove non stanno miracolosamente partorendo qualcosa di nuovo, apparentemente schiacciati da una "tradizione americana" acquisita in traduzione e l'ignoranza della nostra...

– In questi giorni c'è in corso un dibattito sulle pagine dei giornali. Gli scrittori italiani — a partire da un articolo di Mauro Covacich sull'Espresso — si interrogano sul perché non sappiano parlare della realtà, del mondo di oggi e sul perché non sappiano scrivere un romanzo nazionale. Non credo che gli scrittori abbiano bisogno di scrivere un tale tipo di romanzo: non è certo questo, secondo me, il compito della letteratura. E non mi pare che gli scrittori italiani si sottraggano alla descrizione del reale. Anzi. Solo che non esiste "una descrizione del reale" stabile e definitiva; ne esistono molteplici e sfaccettate. La letteratura è fatta da questi infiniti riverberi e ha per protagonista non il reale, ma il linguaggio. Molti romanzi italiani mi sembrano, invece, fin troppo costruiti. Non pochi scrittori non fanno altro che compiacersi — nei loro libri — di quanto sappiano scrivere bene. Ma, contrariamente a quanto si pensa, scrivere bene non è difficile. A tutti riesce una bella frase, una bella pagina, un bel racconto. A qualcuno capita di scrivere dei bei romanzi. Aldo Busi ha la condanna di scrivere bene, come Antonio Moresco, persino di Baricco non si può dire che non conosca i meccanismi della narrazione alla perfezione. Ma una cosa è saper scrivere bene, altra è avere qualcosa da dire. Ecco perché facevo i nomi di Atzeni.
Camilleri, certo Benni (penso a Saltatempo). Perché al di là della forma hanno l'urgenza di raccontare e costruire: una mitologia, un'epica, un ricordo, una fascinazione. Serve? Non serve? Non lo so: io preferisco leggere storie semplici ma "oneste", che non pezzi di bravura in bello stile, ma sostanzialmente vuoti. Ma ognuno ha la sua idea di letteratura. E la mia non è né migliore né peggiore di altre. È questa. E ognuno ha le idee che ha e si merita: buone o cattive che siano. Vorrei aggiungere un’ultima cosa. Una maggiore consapevolezza della tradizione letteraria consentirebbe di guardare alle cose con un briciolo di umiltà c buon senso in più. Le case editrici sfornano esordienti di continuo. e tutti sono almeno "sensazionali". Il giudizio si è come rovesciato. Prima un autore all'esordio veniva guardato con un certo sospetto, al massimo veniva sospeso il giudizio prima di dargli la patente di scrittore. Ora un esordiente è già di per sé garanzia di qualità. È evidente che non può essere così. Né un buon esordio garantisce una buona carriera, né un paio di libri normali impediscono che uno scriva in seguito un capolavoro. Verga è arrivato ai Malavoglia dopo 6–7 romanzi.

– Tu sei un giornalista, scontato chiederti di spiegare il ruolo che il giornalismo ha nei confronti della lingua: arricchimento o appiattimento? lnfluenza i cambiamenti o ne è influenzato? Soprattutto, qual è la politica linguistica del Sole?

– L'attenzione del nostro supplemento a quanto accade alla lingua italiana è notevole. Abbiamo collaboratori molto qualificati che segnalano tempestivamente l'uscita di libri sull'argomento, seguiamo i dibattiti che avvengono. Purtroppo abbiamo perso una grande firma come Giuseppe Pontiggia. La sua sensibilità verso le questioni linguistiche era acutissima. Pochi altri, come lui, sapevano cogliere da spie minime, da tic linguistici, anche, i dissesti che avvenivano nel mondo della cultura, le modificazioni profonde che erano presenti e in atto, ma che ad altri sfuggivano.
A partire da una sua idea abbiamo lanciato una serie di giochi con i nostri lettori. lui aveva pensato all'ossimoro nascosto (un "matrimonio riuscito" era la sua scelta). Io ho continuato con le "Parole da buttare" (il cosiddetto SPAZZADIZIONARIO) e ora con i classici in dieci parole. Sono idee che sottopongo alla redazione: vengono discusse e migliorate, se passano il vaglio dei colleghi, diventano il gioco per i nostri lettori. Giocare con loro è importante. Primo perché ci permette di far capire quanto noi teniamo alla loro presenza nella costruzione del giornale, poi perché attraverso loro tastiamo il polso all'attenzione che c'è sui nostri temi. Il gioco delle parole da buttare è stato un vero trionfo. Si dovevano scegliere le espressioni più triste e i luoghi comuni più logori per destinarli al macero. L'uso giornalistico della lingua è stato naturalmente il più bersagliato: segno che i nostri lettori non ne possono proprio più. Noi cerchiamo di farne un uso meno frequente possibile, ma ci cadiamo ugualmente. Un po' perché gli spazi sono quelli che sono, un po' perché il titolo ad effetto fa sempre comodo.

– E un po' perché vi divertite anche voi?

– Stiamo molto attenti a fare titoli brillanti, facciamo spesso giochi di parole, calembours, perché il lettore sorrida insieme a noi. Siamo seri ma non seriosi: quando c'è da divertirsi vogliamo esserci. Tra i titoli più divertenti c'è stato. per esempio, un ARAMEO PERCHÉ SEI MORTO, per un articolo di archeologia e, ultimamente, un SADOMASO FACCI LA GRAZIA, per dire basta a certa letteratura pseudopornografica ma senza tanto sale. Ed è quello che cerchiamo di fare, tutte le domeniche, con la confezione del giornale. Non è facile avere un ventaglio ampio di argomenti come quello che abbiamo tutte le settimane (filosofia, letteratura, scienza, arte, cultura digitale, tempo libero, spettacoli, religioni) e trattarlo con rigore cercando di non essere pedanti. Nelle pagine di letteratura che curo personalmente, l'idea che cerco di far passare è che di libri ne escono tanti, che bisogna saper scegliere (perché di tempo ne abbiamo poco tutti), tenendo conto della qualità, dell'innovatività di un testo, ma anche della tradizione nella quale si inserisce. Se ci riusciamo, beh, questo non spetta a me dirlo...

 (Tratto dalla rivista Daemon, n° 9, febbraio 2004)

 

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