INTERVISTA A TIZIANO TERZANI

- Maggio 2002 –

D. Il controllo dell’informazione riveste un’importanza strategica per indirizzare il consenso del pubblico, per prevalere nei conflitti internazionali ma anche per mantenere il potere politico a casa propria. Gli scrittori e gli intellettuali che hanno spazio sui mezzi di comunicazione rappresentano per il dissenso un potente strumento per far sentire le proprie ragioni. Ricordiamo il ruolo giocato dai dissidenti che contribuì al crollo del regime nell’Unione Sovietica. Quali sono le opportunità e quali rischi si presentano a questi “campioni del dissenso”, come quelli che a Pari gi si sono dissociati dal governo italiano. Non più in URSS quindi, ma oggi, nel mondo occidentale, in Europa, in Italia?

Io non farei questa grande distinzione, non vogliamo darci troppa importanza; non credo che oggi la situazione italiana sia tale che, chi non è d’accordo con “quello là che fa le corna” (Terzani si riferisce al presidente del consiglio Silvio Berlusconi, che in una foto di gruppo a un convegno internazionale di ministri degli esteri si produsse nrll'inconfondibile gesto alle spalle del suo collega spagnolo. N.d.r.), sia un dissidente. Voglio dire, il bello della pluralità democratica è che ci sono tante opinioni. Evidentemente, in una situazione come quella italiana, in cui i grandi mezzi d’informazione sono, quelli televisivi, in mano a un solo gruppo di potere, e la stampa, in mano a pochi altri gruppi industriali, si crea una situazione abbastanza anomala in cui un’idea dominante finisce per essere “di regime”.
Non esageriamo però. Per esempio: io che dico, invece di «guerra», «pace», sono un dissidente?…Sono una voce, apparentemente di minoranza, una voce fuori dal coro dell’odio, della rabbia meschina, dell’orgoglio mal riposto. Non mi sento un dissidente.
Intellettuali –io odio anche questa parola, perché gli intellettuali sono quelli che “complicano il semplice", io invece ho sempre cercato di “semplificare il complicato”. Trovo che chi ha accesso ai mezzi di comunicazione e chi ha delle riflessioni da fare su quello che succede nel mondo ha una grande responsabilità.
Quando la mia innominabile concittadina ( Oriana Fallaci. N.d.r.) – a cui riconosco il sacrosanto diritto di avere una sua opinione e il suo sacrosanto diritto di affrontare questi grandi temi della vita che sono la vecchiaia e la morte, cosa che lei deve affrontare, come devo affrontarli io – fa una lezione di intolleranza che diventa un grido che viene preso come oro colato e diventa vangelo nelle scuole, dall’alto della stima che suscita e del suo prestigio di grande giornalista, mi preoccupo. Perché allora, lì, la tua opinione ha un’influenza. Cambi le idee, inciti la gente all’odio e questa è una grande responsabilità.
Per questo mi sono permesso di scrivere una lettera aperta, rispondendole, e di questo sono grato a Ferruccio de Bortoli, che dirige un giornale (il «Corriere della Sera». N.d.r.) che ovviamente non è sulle mie posizioni – tanto è vero che deve sempre mettere dei cappelli in cui dice: «il grande Terzani…», come dire «queste sono le sue idee, è grande, per cui facciamoglielo dire, però…» – e che pubblica con grande coraggio questa roba che non era nel coro.
Il problema che lei solleva è importante in questo senso: chi ha influenza e chi crea opinione deve fare i conti con le conseguenze di quello che dice. Nel bene e nel male. Per cui, anche quelli che oggi mi accusano di essere quello che incita… Va bene, hanno il loro diritto. Quello che mi pare sacrilego, disdicevole, è che così facendo non fanno che aumentare questa catena d’odio da cui dipende tutto il pasticcio nel quale ci troviamo. Io capisco che uno possa vedere le cose diversamente da me, ma perché non ci confrontiamo – voglio essere provocatorio – in maniera "non violenta"? Perché dire che «uno che non è d’accordo con queste cose arma la mano dell’assassino» vuol dire alimentare una catena d’odio che porta a nuovo odio. Lo dico mille volte: l’odio produce solo odio. Volete fare l’odio? Benissimo, fatelo pure. Io tenterò di star fuori.

D. Rispetto all’India visitata e conosciuta nel 1961 da Pasolini ( L'odore dell'India) e da Moravia (Un' idea dell'India), come si presenta oggi al visitatore il subcontinente indiano?

Innanzi tutto devo dire che mi ha sempre fatto ridere…Pasolini è un grande, lo ammiro moltissimo, ma non vorrei prendere per oro colato le cose che Pasolini ha scritto sull’India. Sa qual è l’odore dell’India? L’odore dell’India è l’odore della merda. E allora, siccome lui questo non l’ha descritto, vuol dire che è stato in un’altra India che non è quella in cui sono stato io. Lui aveva un’altra visione… Hanno fatto i turisti spirituali per due settimane…Questo è meravigliosamente italiano.
Me lo ricordo in Vietnam, in Cina…Uno arrivava per due settimane in Cina e scriveva un libro: Dove va la Cina; Cos’è il comunismo…Ma è vero, in Vietnam gli inglesi dicevano: «You are an expert for the first two weeks». Le prime due settimane sei un esperto, poi dopo non lo sei più. Tutti venivano per due settimane, scrivevano grandi libri, diventavano grandi esperti… Il problema era se ci stavi tre settimane, perché cominciavi a vedere tutto quello che non capivi.
Pasolini ha visto la sua India, meravigliosa anche, la poesia... Uno può andare in posto per un secondo e scrivere la più bella poesia del mondo su i rapporti dei corpi, che so io; ma quanto all’India e all’odore dell’India, Pasolini l’aveva “bucata” l’India. Perché l’odore dell’India è il puzzo di merda.

D. Qual è la posizione degli intellettuali indiani in relazione al pericolo atomico e al confronto con il Pakistan?

Beh, lei conosce la mia collega e amica Arundhati Roy che ha preso una posizione durissima contro la bomba. Anche lì ci sono posizioni divise, grazie a Dio. L’India si vanta d’essere la più grande democrazia del mondo ed è un sistema estremamente pluralista. Trovo che, almeno io che sono molto vicino all’India per ragioni proprio fisiologiche – e anche perché ci vivo – la mia posizione illustri bene quella di tanti indiani.
E, sempre per semplificare il complicato, in poche parole direi che l’India ha il diritto di avere la bomba atomica: se ce l’hanno gli altri, perché non la deve avere l’India? Ma il fatto che eserciti questo diritto è una grande tragedia per l’India stessa, perché, quando avrebbe potuto avere l’arma morale della superiorità, arma molto più potente, ha scelto invece la banalità di voler essere un paese come tutti gli altri, che fonda il potere sul numero delle bombe. Allora: da un lato il diritto, ma, dall’altro, l’esercizio di quel diritto significa una grande povertà.

D. Rispetto alle obiezioni che scaturiscono dalla sensibilità occidentale, di fronte a certe manifestazioni della cultura islamica e afgana, quali sono le soluzioni che Lei suggerisce? In che cosa si concretizza la soluzione pacifica? E come può sperare di imporsi sulle logiche economiche occidentali, che considerano l'Afganistan una zona strategica per il petrolio?

Nella civiltà occidentale, della quale io sono orgogliosissimo membro nonostante la mia apparenza così da “santone” – io sono “fiorentinissimo”, felice di esserlo, anche se mi devo trovare con delle concittadine con cui condivido proprio poco – dobbiamo smettere di pensare, ma lo dobbiamo smettere nel fondo, che la nostra civiltà sia superiore o che noi abbiamo il monopolio di alcunché, della civiltà, della felicità, del benessere, della dignità delle donne, di tutto. Non abbiamo questo monopolio. Ci sono altre civiltà che la pensano diversamente e che vedono noi come “civiltà del male”, così come noi pensiamo di loro.
Quanto ai problemi che ogni civiltà ha, devono essere visti all’interno di quella civiltà. Esempio: il burqa è un problema delle donne afgane. Le donne afgane sono meravigliose – non so se voi conoscete l’organizzazione RAWA (Revolutionary Association Women of Afghanistan) – si pongono i loro problemi e l’idea che noi, perché siamo i più forti, i più potenti, dobbiamo andare a liberare la gente altrui, è una cosa assurda, sacrilega.
La libertà ognuno se la deve conquistare per conto suo. Si può aiutare, dare una mano, ma la libertà bisogna conquistarsela da soli. E’ come scalare le montagne: se si vuol godere di arrivare in cima alla montagna, non è che ci si può mandare un altro, non è che qualcuno ci può portare in cima con un elicottero…Quella montagna bisogna conquistarsela da soli.
Se le donne afgane trovano che il burqa sia qualcosa che offende la loro dignità, scaleranno quella montagna, arriveranno in cima e butteranno via il burqa. Non ci devono essere i paracadutisti americani che glielo vanno a togliere.
Io non propongo una soluzione pacifica. Io dico che oggi la catena della violenza, dell’odio che produce l’odio, è tale che noi non rischiamo lo scontro delle civiltà, ma la fine di tutte le civiltà. In questa situazione, sia noi che i nostri “nemici”, abbiamo a disposizione delle armi di distruzione di massa come l’uomo non ha mai avuto prima. Il rischio che a un orrore si sommi un altro orrore sempre più grande finirà che la catena di violenza produrrà la fine del mondo in cui viviamo.
Guardiamo l’antrace, nato nei laboratori americani, usato da un americano per terrorizzare l’America, domani le bombe atomiche, chimiche, batteriologiche che già Bush promette di usare contro l’Iran, l’Iraq…
Secondo me, la "non violenza" è l’unica alternativa da considerare per salvare l’umanità e anche la più conveniente, perché trovo che oggi il costo umano della guerra sia spaventoso. Noi crediamo di avere vinto la battaglia di Kabul…, ma come umanità non abbiamo vinto niente. Se guardiamo gli americani, gli afgani…L’umanità ci ha guadagnato da tutta questa situazione in cui siamo? Casino in Medio Oriente, casino lungo la frontiera afgano-pakistana, orrore dappertutto... Bologna (l'assassinio di Marco Biagi, a opera delle BR. N.d.r.)…
Voglio dire, dal punto di vista un po’ più alto, è una situazione di tranquillità? Stiamo andando verso una soluzione? Secondo me, no. Stiamo andando verso un abisso di barbarie. Vogliamo continuare così? Ci aspettiamo stupidamente che domani andiamo a risolvere tutto? Non abbiamo risolto niente. Il mondo non era mai stato così insicuro, così pericoloso, come da dopo l’11 settembre. La guerra non è una soluzione: se vi pare una soluzione, spiegatemelo.
Tutte le rivoluzioni fatte finora sono rivoluzioni esterne (la rivoluzione cinese, francese, russa, vietnamita, cambogiana…) che hanno cercato di portare giustizia, cambiare il mondo, ecc.., non hanno fatto che spaventosi massacri. Il risultato finale: un gran casino e una grande miseria, sia spirituale, che materiale. Forse è il momento di pensare che la grande rivoluzione da fare non è quella fuori, ma quella dentro; che in verità le radici della guerra non sono fuori, ma dentro di noi, nelle passioni, nelle voluttà, nel nostro voler arraffare tutto, nel nostro pensare che noi possiamo controllare la natura, la conoscenza, uccidere animali, terra, mondo animale e poi rifarlo artificialmente. Noi siamo dei grandi assassini, però siamo già capaci di clonare la vita, questa è l’assurdità.
Allora dico: se le vere ragioni della guerra non sono fuori, ma dentro di noi, cominciamo a fare la rivoluzione dentro di noi, forse è quella meno violenta, che non fa massacri e forse, alla lunga, crea quelle condizioni in cui tutti ci troveremo meglio. Prendiamo coscienza di chi siamo ed incominciamo a riflettere: non siamo solo corpi, non siamo solo materia. Dobbiamo ricominciare, chi sa, a pregare, chi non sa, a fare altro. L’unica rivoluzione oggi veramente possibile è quella dentro di noi, ma ci vorrà tempo, molto tempo.
Diceva il mio amato Gandhi – che io non voglio certo importare in Europa – che per fare un esercito di non violenti non occorrono soltanto dei generali, ma anche dei coraggiosissimi soldati. Quando vado a parlare nelle scuole dico che per addestrare un paracadutista a essere un assassino, tagliare le gole, torturare, tagliare le gambe, ci vogliono sei mesi; ma addestrare uno alla non violenza ci vuole forse un’intera vita. Il fatto che sia così lungo ci impedisce di cominciare? Vogliamo continuare a sgozzarci? Tocca a noi decidere.

D. Con l’evoluzione del modo di fare le guerre come è cambiato il mestiere di reporter?

Le guerre non si vedono più, gli americani hanno imparato la lezione del Vietnam. In Vietnam hanno perso la guerra perché permettevano ai giornalisti come me di andare al fronte e di raccontarla. La guerra del Golfo è stata la prima guerra che gli americani sono riusciti a tenere inscatolata e poi – stupendo –hanno vinto meravigliosamente la guerra psicologica.
Nessuno ha visto questa guerra, nessuno ha capito che cosa sia successo, nessuno può essere convinto e sicuro dei fatti dell’11 settembre, perché le prove non ci sono, non sono state date, nessuno può andare a controllare, nessuno ha accesso a quello che è successo. E la guerra è stata un continuo impacchettamento, infatti io lo dico in vari modi: questa non solo una guerra di bombe più o meno intelligenti, di missili, di computer... E’ una guerra soprattutto di bugie, che sono cominciate ancor prima della guerra.
Il reporter di adesso dovrebbe essere più creativo e più inventivo del passato. Dovrebbe non stare col gruppo. Purtroppo, ormai c’è questa perversione del twentyfour hours news, per cui bisogna sempre produrre nuove cose. I giornali tutti i giorni devono pubblicare qualcosa di nuovo… Ai miei tempi era diverso: io, poi, sono stato fortunatissimo perché scrivevo per un settimanale una/due volte al mese, per cui avevo tempo per la riflessione. Questo non vuol dire, come ho visto in molti casi, che la gente non si prepari. Se uno deve andare in Afganistan, sarà bene che si legga una storia dell’Afganistan, che legga una storia dell’Islam, che capisca che cosa vuol dire burqa…
Vedo purtroppo che, molti dei giovani che incontro, sono bravissimi, hanno fatto queste scuole orribili di giornalismo – che secondo me andrebbero tutte chiuse – sanno operare con queste macchine, ma non hanno né la curiosità, né l’umiltà di prepararsi a certe grandi storie. Non si può scoprire l’Afganistan da paracadutisti…
Adesso questo mestiere è certamente più difficile e più difficile diventerà, perché l’informazione è ormai manipolata. La pubblicità, le pubbliche relazioni, sono diventate ormai l’anima di tutto, la pubblicità ha preso il posto della letteratura. Nessuno più gratta, tutti si accontentano della facciata. Siccome io, alla fine della mia vita, mi rendo conto che i fatti nascondono spesso la verità. Già l’accertamento dei fatti è difficile, se poi questo è anche uno schermo della verità, immagino la difficoltà di capire cosa c’è dietro.

D. Affinità e differenze tra la morte di Maria Grazia Cutuli e del fotoreporter Raffaele Ciriello.

Non vedo niente. Sono morti tanti giornalisti. E’ la solita storia: se vai al fronte, rischi che ti sparino. Gli operai muoiono perché maneggiano il mercurio, i giornalisti maneggiano le pallottole e ogni tanto gli arrivano addosso. E’ un mestiere pericoloso…
Ma anche fare il guidatore del tram è pericoloso. Voglio dire, la cosa strana è la glorificazione di queste morti e anzi, direi di più, nel caso della Cutuli la spettacolarizzazione della morte, che io trovo veramente fuori luogo. Quello che ho visto scritto di questa giovane donna – io non la conoscevo – era rivoltante, rivoltante… Discorsi sulla sua sessualità, ma dico, è assurdo. Se muore un operaio di Porto Marghera, si va a scoprire se la sua sessualità…? come si vestiva…? E’ morto, è morto un operaio e la sua famiglia piange. Punto e basta.
Viviamo in un mondo perverso, voi vivete in un mondo perverso e godete della vostra perversità: è questo che vi rende vittime e assassini allo stesso tempo. Io da trent’anni non mi avveleno della vostra roba. Voi vivete in un paese in cui vi è stato detto che è cominciata una guerra e ve la siete subito dimenticata. Questa è una grande guerra, una guerra che coinvolgerà l’umanità, le cui scelte saranno determinanti per le generazioni a venire. La guerra è appena cominciata in Afganistan, sarà una guerra che vi colpisce in tanti modi.
Eppure, i vostri splendidi giornali che comprate a mazzo la mattina, vi hanno turlupinato, prima, con le balle sulla guerra e, negli ultimi giorni che io sono qui in Italia, con nove/dieci pagine sul delitto di Cogne. Ma perché li comprate? Il delitto di Cogne è un problema per i poliziotti, per un prete, per uno psicologo… Ribellatevi! C’è una guerra in corso, l’umanità rischia l’estinzione e i giornali nove pagine sul delitto di Cogne. Poi un giorno, siccome ammazzano un disgraziato a Bologna, il delitto di Cogne non c’è più e allora nove pagine sull’assassinio di Biagi, nove pagine. E domani, quando un cane morderà una signora in Via Montenapoleone e gli staccherà la testa, nove pagine sulla signora di Via Montenapoleone, e gli psicologi dei cani... eeehhh!!! E’ giornalismo questo? E’ spettacolo.
Per questo, come avete visto, vado dappertutto a parlare di pace, del mio libro ( Lettere contro la guerra, Longanesi, 2002) ed evito tutto quello che ha a che fare con questa spettacolarizzazione della vita. Non vado a nessuno degli show televisivi, mi rifiuto di parlare con quei signori come quello là che ha mangiato tutte le uovo prima di arrivare a Sanremo (Giuliano Ferrara, direttore de «Il Foglio»), niente, niente. Facciano il loro mestiere, non ho mai fatto il loro mestiere, quelli non sono miei colleghi, per cui Lei mi offende se mi chiamerà reporter. Non ho niente a che fare con questa gente, il signor Ferrara, Costanzo, Moscone... Vespa – come si chiama – non sono miei colleghi, non ho mai fatto il loro mestiere.

D. Qual è la sua visione religiosa della realtà?

Sono nato in una famiglia metà cattolica e metà comunista. Ho servito messa fino a che avevo dodici anni. Sono diventato “mangiapreti”, non ho battezzato i miei figli, me ne rammarico. Ho scoperto in India la grande dimensione del divino. Credo che le religioni siano una cosa importante nella civiltà dell’uomo, perché sono come gli ascensori che portano all’ultimo piano del palazzo della vita. Ritengo che una religione valga l’altra, ognuno segua la sua.
Io non sono seguace di nessuno, nonostante il mio orologio buddista, la mia barba musulmana, il mio vestito buddista, non sono né buddista, né induista, né musulmano. Sento la presenza del divino, perché sto dinnanzi ad una montagna, dove dico che Dio abita, è di casa, anche se in Europa ha perso tutti gli indirizzi. Sono uno che crede che chi vuole prendere la via dello spirito la deve cercare nella sua cultura. Cito sempre il Dalai Lama che una volta mi disse: «Ma come sono strani questi occidentali che vengono qui e vogliono diventare buddisti, ma perché cambiano religione?» Io lo trovo giustissimo, ha ragione…Vadano nella chiesa accanto: dicono che la chiesa è morta, la facciano rivivere.
Qui c’è una tradizione: ogni stanza ha un crocefisso, ogni chiesa ha una pittura, la nostra cultura è quella. Vuoi uno spirito? Cerchi un santone? Ma perché andate da Saibaba che è uno che frega la gente facendogli il trucco della polverina? Vada a ricercarsi Sant’Antonio, San Francesco, che grandezza che abbiamo!
Io sono un esploratore e vado a esplorare. A Firenze che dovevo esplorare? Hanno già scoperto tutto trecento anni fa e hanno chiuso bottega. Non hanno curiosità, non hanno niente e allora sono scappato come un ladro. Ma non è che la mia vita deve essere indice che si va a cercare l’altro per scoprire se stessi. Scoprire se stessi, lei può chiudersi nel gabinetto tre ore e scopre se stesso. Non c’è bisogno di andare in India. Io ci sono andato per ragioni mie, con ragioni che hanno a che fare con il mio essere di professione un evaso. Io evado da tutto, tranne che dal mio matrimonio. Per cui credo, anzi, sempre di più insisto – lei mi avrà sentito parlare - che chi sa pregare, preghi, perché la dimensione del divino, che noi abbiamo eliminato eliminando, fra l’altro, la morte dalla nostra vita, è orripilante, orribile, perché toglie all’uomo questa bella dimensione dell’altro.
Quel poco che avevo da dire l’ho detto in quelle 160 paginette. E quello che ho detto in quelle 160 paginette è quello che “la mi nonna” avrebbe detto ogni giorno. Questa è acqua calda, ho scoperto l’acqua calda. Quello che è interessante è che l’acqua calda vende e la gente viene a sentirmi, perché tutti hanno dentro questo, lo sanno, ma non ha il coraggio di dirlo. Ci vuole uno con l’aria da pazzo, che non ha paura di essere preso per un grullo.

D. Attingendo dalla sua memoria letteraria quali scrittori di viaggio si sentirebbe di indicare per una rilettura?

Se lei viene a casa mia, in tutta la mia biblioteca ci sono scrittori di viaggio, perché io sono sempre vissuto in posti dove non c’erano biblioteche, per cui ho dovuto farmi una mia biblioteca, ho dovuto comprar libri ovunque. Io viaggio sempre da solo, io odio viaggiare con altri. Per questo sono uno nato fuori dal coro, sono sempre fuori dal coro. Io non vado mai con i gruppi, sto fuori, ma mica viaggio solo, uno non può sempre star solo: a parte che, se uno sa con chi sta solo, a volte può essere in grande compagnia.
Viaggio sempre con dei libri. Allora, in Afganistan per esempio, ho viaggiato con un libro stupendo di Peter Levi: The ligth garden of the angel king, un gesuita che nel 1968 viaggia in Afganistan un po’ con Bruce Chatwin e un po’ da solo. Un bellissimo libro, un archeologo gesuita che cerca le tracce di Carlo Magno, cerca la grecità che è rimasta in Afganistan. Mi scelgo sempre un compagno per viaggiare, sempre, sempre, sempre. Quando viaggiavo nell’Asia centrale per scrivere quel libro che si chiamava Buonanotte, signor Lenin (TEA, Scienza e politica, 2001) viaggiavo con i grandi viaggiatori inglesi del secolo scorso. Non penso in particolare ad uno… Avere un libro che ti accompagna è meraviglioso, è il miglior compagno di viaggio: sta zitto quando non vuoi che parli, parla quando vuoi sentir dire qualcosa, ti dà senza chiedere. Ê stupendo. Io trovo che i libri siano una grande e stupenda compagnia, ma questa selezione non la so fare. Se lei viene nella mia biblioteca li vede, i miei veri grandi amici sono lì.
Per concludere l’intervista - se mi volesse chiedere qual è il mio sogno - è di diventare immortale, in quella piccola, brevissima immortalità – l’ironia è qui - di un libro mio che rimarrà in una biblioteca e che fra cento anni qualcuno tirerà fuori e dirà: «ma chi era questo qui?», e viaggia per un giorno o una settimana con me, di nuovo, in uno dei posti in cui ho viaggiato. In quel momento vivrò un altro piccolo spazio di vita. Questo è il mio sogno.
Siete molto carini.

Autografando Un indovino mi disse: «Questo libro mi ha cambato la vita».

Milano, 19 maggio 2002.


(Intervista tratta dal sito Italia Libri)

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