Guantanamo, la legge dei vincitori

 

 

Goffredo Buccini



Inginocchiati durante un’ispezione, incatenati nelle loro tute arancioni. Con mascherine azzurre sulla bocca, cuffie sulle orecchie, occhiali schermati con nastro adesivo. Davanti alle gabbie, quelle loro gabbie da nemmeno due metri per tre che viste nell’insieme sembrano un pollaio gestito da un sadico — fatte di travi e lamiere, cemento e filo spinato, esposte alla pioggia e al vento dei Tropici. Le barbe rasate a zero: per igiene, dicono i comandanti militari del campo; per umiliarli nella loro religione, replicano i difensori dei diritti umani di mezzo mondo.

Quel mondo che aveva guardato in lacrime le foto e le immagini dell’11 settembre, delle Torri che crollavano, dell’infamia contro la civiltà, e che adesso scopre queste altre foto, le prime uscite da Camp X-Ray, Campo raggi x, la galera a cielo aperto che gli Stati Uniti hanno attrezzato nella base di Guantanamo, il loro storico avamposto nell’isola di Cuba. Sono 110, per ora, i prigionieri catturati nei cento giorni della guerra d’Afghanistan e trasportati qui dalla base aerea di Kandahar con un volo di 27 ore, bendati, imbavagliati, legati e imbottiti di sedativi sui cargo C-17 dell’aviazione a stelle e strisce. Sono talebani, e forse militanti di Al Qaeda, ma nessuno può dirlo con certezza perché non se ne conoscono i nomi e non esistono accuse formali.

Diventeranno almeno mille nei prossimi tre mesi. Il governo ha pronti 30 milioni di dollari per costruire a Guantanamo («Gitmo» per generazioni e generazioni di Marines) nuove carceri di massima sicurezza solo per loro: ma fino ad allora li terrà nelle gabbie. «Potremmo trattenerne alcuni a tempo indeterminato, sono individui pericolosi», ha annunciato il ministro della Difesa, Donald Rumsfeld. Senza processo, senza avvocati. Perché sono prigionieri, sì, ma per gli americani non hanno lo status di prigionieri di guerra, non vale per loro la Convenzione di Ginevra: «Sono combattenti fuorilegge, e noi non gestiamo un circolo ricreativo. Non provo la minima preoccupazione per il loro trattamento. Stanno comunque meglio di come stavano quando li abbiamo presi», ha aggiunto il ministro. Ma le foto di «Gitmo» adesso rischiano di allontanare l’America dalla nicchia di affetto e solidarietà che l’11 settembre le aveva garantito nel cuore di molti.

E’ difficile non vedere la voglia di vendetta in gabbie che ricordano l’«hotel Hanoi» allestito dai nordvietnamiti o le celle di punizione dei lager giapponesi nel «Ponte sul fiume Kway».
Persino l’alleato più fedele, la Gran Bretagna, manifesta segni di inquietudine nelle dichiarazioni dei suoi parlamentari, nei reportage dei suoi media. La Bbc si interroga su quelle foto che «sollevano proteste» e molti ritengono «uno scandalo»: foto scattate in parte all’atterraggio dei C-17 dopo il viaggio dall’Afghanistan, che già mostravano i prigionieri ridotti a oggetti, con bavagli, occhiali schermati e paraorecchie. «Quelli erano pronti a rosicchiare i cavi del C-17 per farlo precipitare», ha detto Richard Myers, il capo di Stato Maggiore. «Sono immagini che non rappresentano la vita di ogni giorno al campo. Le cuffie e gli occhiali li portavano durante il viaggio. E le mascherine servono a evitare che si diffonda la tubercolosi», assicura il comandante di X-Ray, generale di brigata Mike Lehnert. Ma il direttore dello staff medico di Amnesty International, Jim West, sostiene che «non esiste altra spiegazione di queste misure se non il tentativo di degradare la condizione umana».

«Sono sconvolto — dice — perché le cuffie e gli occhiali li portano ancora nel campo. Quanto alle mascherine da ospedale, è molto improbabile che la tubercolosi possa diffondersi in luoghi aperti».
Altri gruppi umanitari parlano di «segregazione sensoriale»: «In quelle condizioni si soffre di allucinazioni», dichiara in tv Helen Bamber, della Fondazione medica per la tutela delle vittime della tortura. Quattro inviati della Croce Rossa sono arrivati sabato e parleranno con i prigionieri. Ma «tortura» è una parola che ormai filtra insidiosa.

Gli americani negano, «non esiste nessun trattamento inumano e siamo aperti, entro i limiti del possibile, ai suggerimenti della Croce Rossa». Per il resto oppongono la ragion di Stato e quella di un’emergenza che certo non è finita: dall’11 settembre 1500 sospetti terroristi sono stati catturati in 50 Paesi, ma i servizi segreti sostengono che almeno diecimila affiliati di Al Qaeda siano ancora sparsi per il mondo, «la loro rete attorno a noi». I detenuti di «Gitmo» devono confessare e servire da monito per i loro compagni ancora liberi: questa è la scomoda verità.

Lo status di prigionieri di guerra (che, per legge, dovrebbe essere stabilito non da Rumsfeld ma da un tribunale) li metterebbe al riparo dagli interrogatori e garantirebbe loro un giudizio, davanti alla corte marziale, ben più equo di quello dei tribunali militari segreti che Bush sta cercando di allestire. «Il nostro sistema sarà comunque molto più giusto di quello dei talebani e di Osama», ha detto il presidente. «Ma se il metro della nostra civiltà giuridica sono i talebani, siamo rovinati», ha osservato qualche commentatore.
Nel campo la vita è scandita dalle preghiere (cinque volte al giorno, l’unica libertà concessa) e dalle perquisizioni. Tre pasti (barrette di cereali, riso, fagioli, frutta), docce e controlli medici con le manette addosso. Un materassino di gommapiuma per provare a dormire con la luce delle lampade alogene sulla faccia.

Attorno ai due acri recintati, sette torrette con mitragliatrici e lanciagranate. Gli elicotteri che pattugliano il cielo senza sosta.
Fuori dal campo, l’assurdo pezzetto d’America che è Guantanamo in terra cubana: un McDonald’s, la scuola col bus giallo per i bambini delle famiglie della base, le vetrine con gli ultimi rollerblade a 50 dollari, il cinema che ora dà «Domestic Disturbance». E, attorno allo scorcio d’America, la Cuba del vecchio Castro, che per adesso non ha fatto una piega, ha rinunciato a usare lo scandalo di X-Ray e ad attaccare gli «odiati yankee» con la sua propaganda, contando sulla possibile fine dell’embargo contro il suo regime.

E’ molte cose il campo di «Gitmo». E’ scontro di civiltà e sta forse per diventare la prima galera globale del nuovo mondo: i prossimi ad arrivare dovrebbero infatti essere sei algerini, che non c’entrano nulla con la guerra in Afghanistan e sono stati arrestati in Bosnia su indicazione dei servizi americani, perché sospettati di preparare un attentato all’ambasciata Usa di Sarajevo (uno di loro avrebbe telefonato a un membro di Al Qaeda). Un giudice bosniaco ne aveva ordinato la liberazione per mancanza di prove, ma i militari americani se li sono fatti consegnare e presto li porteranno qui.

La vicenda pone grosse questioni di diritto internazionale. Morton Haplerin, del Consiglio per le Relazioni estere, dice: «E’ evidente che gli Stati Uniti vedono Guantanamo come un posto dove raccogliere persone catturate in tutte le parti del mondo. Ma non è chiaro cosa pensino di fare con questa gente». Kenneth Roth, di Human Rights Watch, sostiene che questa politica potrebbe offrire il pretesto, ai Paesi meno democratici tra quelli alleati agli americani, «per reprimere qualsiasi dissenso interno». Se davvero basta una soffiata per finire in una gabbia dall’altra parte dell’oceano, la nuova storia di «Gitmo» è appena incominciata.




(Corriere della Sera, 22 Gennaio 2002)