QUEL PAZZO CHE CREDEVA DI ESSERE HUGO

 

 

Beniamino Placido

 

 

 

 

Giacché ci troviamo a vivere (ormai da qualche giorno) nell'anno di grazia 2002, dovremo anche rassegnarci ad attraversare il secondo centenario della nascita di Victor Hugo, che venne al mondo nel 1802, e si congedò (dal mondo) nel 1885.
Ci vorrà della pazienza, se le ricorrenze saranno altrettanto festose e solenni, quanto lo furono i funerali dello scrittore, che videro una straripante folla parigina muoversi per la capitale versando lacrime e sventolando bandiere in onore del grande scrittore, del grande poeta, del grande rivoluzionario (così la pensavano, a quel tempo), del grande patriota.
Che aveva promosso l'avvento del Romanticismo portando sul palcoscenico il suo Hernani; che aveva commosso mezzo mondo con le storie miserabili dei suoi poverissimi disgraziati «proletari»; che aveva reso familiari i perfidi Thenardier, poveri anche loro, ma cattivissimi. Che aveva elevato lo spirito di tutti portando il giovane Mario sulle barricate, e rinfrescato quanto rimaneva di ricordo nostalgico per Napoleone Bonaparte raccontando (sempre a modo suo, si intende) la Battaglia di Waterloo.
Che aveva disegnato almeno un'altra figura, potente nella sua generosità, quella di Jean Valjean l'ex ergastolano pentito e redento, oltre alla figura grottescoeroica di Quasimodo, il gobbo di Notre Dame de Paris, antesignano di tanti mostri ottocenteschi.
Allora perché mai André Gide, quando gli fu chiesto chi fosse (o fosse stato) il più grande scrittore francese di tutti i tempi, rispose: «Victor Hugo, hélas!»? Di dove viene fuori quell'«hélas!» che corrisponde, se il francese è sempre quello, al nostro «purtroppo»? Di che cosa ci si rammarica quando si fa ricorso a quello sconsolato avverbio?
Ci si rammarica, evidentemente del carattere eccessivo — eccessivamente retorico, eccessivamente ridondante — di Victor Hugo. E della sua prosa, e della sua poesia. Ci viene in soccorso in proposito un'altra definizione — altrettanto clamorosa, altrettanto irrispettosa, forse — della precedente: chi era dunque Victor Hugo? «Era un pazzo che pensava di essere Victor Hugo».
Ci tocca districarci adesso fra queste due irrispettose definizioni e cercare di capire che cosa le ha motivate, che cosa le ha rese definitive presso il lettore moderno che forse ancora avrebbe voglia di affrontare questi romanzoni dell'Ottocento, ma ha paura della loro uraganale vastità, della loro sterminata, impietosa lunghezza.
In proposito esiste un curioso libriccino (titolo Mad, «Pazzo») che uscì in America una ventina di anni fa e che prende in giro quei classici serissimi, lunghissimi dell'Ottocento: che ognuno vorrebbe aver letto, per poter essere considerato una persona colta, ma che nessuno ha più voglia di leggere perché pensa: e chi ne ha il tempo?
Il capitoletto dedicato a I Miserabili così descrive il romanzone che certamente abbiamo già letto — qualche volta, da qualche parte — , ma che altrettanto certamente non abbiamo molta voglia di rileggere (e chi ne ha più il tempo?): «Una storia dell'ingiustizia sociale della Francia del diciannovesimo secolo, dove si dimostra che l'inumanità dell'uomo verso l'uomo è così profonda da costringerlo a nuotare attraverso le 1222 strazianti pagine del romanzo originale...».
In tal modo abbiamo consegnato al lettore anche l'informazione indispensabile sulla lunghezza (spropositata, d'accordo) dei romanzi che si scrivevano ai tempi di Victor Hugo. Mai brevissimi, mai tascabili. Vorremmo leggerli o averli letti. Ma chi ce ne dà il tempo?
Eppure c'è qualcuno che ha provato a spiegarsi, ed a spiegarci il perché di queste spropositate dimensioni ottocentesche. È stata la nostra Elsa Morante, che dettò nel 1950 al settimanale Il Mondo le sue impressioni — di sorprendente acutezza, di sorprendente freschezza — sul romanzo dell'Ottocento. Che ha già dei personaggi esagerati, iperbolici, grotteschi. E faceva l'esempio del Cicikov de Le anime morte di Gogol'. Il quale «si soffiava il naso con eccezionale sonorità. Non si sa bene come facesse, ma fatto sta che il naso gli suonava come una tromba. Questo pregio, che sembrerebbe così modesto, venne tuttavia a rialzarlo grandemente nella stima del servo d'albergo, tanto che costui, ogni volta che sentiva quel suono, scrollava i capelli, si raddrizzava tutto per più deferenza, e sporgendo da quell'altezza la testa, domandava: Comanda qualche cosa?...».
Avesse dovuto occuparsi anche di Victor Hugo, la Morante avrebbe detto — e c'è da scommetterlo — : «Era indubbiamente un pazzo che pensava di essere Victor Hugo; e in effetti ci riusciva, molto spesso».

 

 

 

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(Tratto dal giornale La Reppublica, del 13 Gennaio 2002)