Quel che mi interessa sta nella profondità della superficie

Un'intervista con José Saramago

 

Scrittore riconoscibile ad apertura di pagina per la singolarità del suo stile, Saramago va componendo con straordinaria intelligenza narrativa le sue variazioni su una moderna apocalisse, inseguendo temi aderenti a urgenze sociali, che si configurano, ormai, come ricorrenze significative dei suoi intrecci. Dopo un esordio narrativo precoce, affidato alla Terra del peccato, che uscì quando Saramago aveva appena venticinque anni, una parentesi trentennale raccolse solo qualche collezione di versi e ancor più rari scritti politici, a intervallare la professione alla quale si era a tempo pieno dedicato: il giornalismo, che gli consentiva di trasferire in una scrittura veloce l'impegno politico cui non è mai venuto meno. Ma all'indomani della rivoluzione dei Garofani, una sorta di contro-golpe "democratico" fece naufragare le aspirazioni socialiste del primo governo succeduto alla dittatura e Saramago, in quanto comunista, perse il posto. Fu così che, a circa trent'anni di distanza da quella sua prima prova giovanile, successivamente rinnegata, lo scrittore portoghese si ritrovò di fronte alla tentazione di un secondo esordio: il libro che uscì nel 1977 a Lisbona portava come titolo Manuale di pittura e calligrafia. Narrato in prima persona da un artista convertito alla scrittura, descrive il passaggio dalla forma della pittura a quella della narrazione, non tanto come esito di una espressività finalmente liberata, ma come ennesima alienazione di ogni aspirazione inventiva. Già una amara ironia, mai più abbandonata, traversa questo Bildungsroman di Saramago, dove i protagonisti non hanno nome e le iniziali che li indicano, H e M, alludono a un homem e a una mulher emblematici della vaga identità dei singoli, configurando il primo barlume di quell'anonimato che il narratore portoghese avrebbe poi consegnato ad altri protagonisti della sua disillusione. Perché - come lui stesso ha detto - quel che ora ci distingue ha la grafia di un numero, come nelle carte di credito, garanti della nostra legittimità più di quanto non lo siano le storie familiari che hanno condotto a chiamarci come ci chiamiamo.
Del resto, questa rinuncia all'evocazione del nome è legata anch'essa a un background non privo di ironia: Saramago non è che un soprannome, regolarmente registrato all'anagrafe e tuttavia corrispondente a nient'altro se non all'appellativo confidenziale con cui la gente del paese era solita rivolgersi alla sua famiglia. E quando lo scrittore decise di ricostruire i soli quattro anni di vita del fratello, nato nel 1920 e morto per i postumi di una malattia, la lunga ed estenuante ricerca si risolse in un nulla di fatto: nessuna traccia che portasse notizie di lui. Persino l'Anagrafe della città natale esibiva la data di nascita ma aveva omesso di registrare quella della morte, pronta a certificare che un uomo ormai maturo si aggirava per il mondo, ignara che quel mondo l'aveva lasciato quasi ottanta anni prima. Una vicenda di follia burocratica che, rimpastata nella fantasia di Saramago, divenne la trama di Tutti i nomi: protagonista il Signor José, fedele impiegato dell'Anagrafe nonché maniacale collezionista di vite famose, nel bene e nel male, tutte rigorosamente schedate, forse allo scopo di movimentare la monotonia dei suoi giorni sempre uguali. Finché una scheda galeotta mette sotto gli occhi di José i dati anagrafici di una donna, sconvolgendo la sua vita e indirizzandola verso una ricerca capillare delle tracce lasciate da quella esistenza, ricongiungersi alla quale diventa una ossessione.

Il Nobel per la letteratura arrivò a José Saramago nel 1998, poco dopo l'uscita, in Italia, di Tutti i nomi; ma erano già molti i titoli che avevano contribuito all'assegnazione del premio: fra questi, Una terra chiamata Alentejo, la saga di quattro generazioni contadine protagoniste di una vita miserevole, condotta in promiscuità con le bestie, tra tentativi di lotte disperate contro la brutalità di un regime dittatoriale. Ancora sottomesso alla vena neorealista che alimentava, allora, gli scrittori della sua generazione, questo romanzo fu seguito due anni dopo dal Memoriale del convento, dove la narrazione insegue l'eroismo della povera gente, mentre si accende di sdegno contro la cieca ambizione delle classi privilegiate; e tutto ruota intorno alla costruzione del gigantesco palazzo-convento di Mafra, voluto da Giovanni V agli inizi del XVIII secolo. Ancora l'intervallo di un biennio, e con L'anno della morte di Ricardo Reis Saramago fa i conti con il grande Pessoa, evocato nel titolo attraverso uno dei suoi eteronimi. Il richiamo del passato cede all'urgenza della svolta politica che avvia il Portogallo a entrare nella Comunità Europea: la critica di Saramago si traduce, allora, nella narrazione della Zattera di pietra, dove la specificità storico-culturale della penisola iberica, una terra sospesa tra l'Africa e l'America, viene rivendicata come presupposto ideale a costituire un ponte verso il Sud del mondo. Ancora remota l'ambientazione di Storia dell'Assedio di Lisbona, dove lo sbaglio di un correttore di bozze genera una finzione sovvertitrice della realtà. E, finalmente, il grande pubblico memorizza il nome di Saramago grazie all'enorme scandalo sollevato dal Vangelo secondo Gesù, responsabile di veementi espressioni di sdegno sia in Portogallo che nel resto del mondo cattolico. "Ho l'impressione che la chiesa si occupi di amministrare i corpi molto più di quanto non si dedichi alle anime", fu il commento di Saramago, che partì per un esilio volontario verso l'isoletta di Lanzarote, dove tutt'ora vive. Ma nonostante l'ambiente suggerisse più miti panorami esistenziali, la cupezza dei presagi di Saramago andava perfezionando i suoi contorni, per materializzarsi negli incubi iscritti nell'ultima stagione dei suoi romanzi. Che venne inaugurata da Cecità, un libro sulla crisi della ragione ambientato in una sorta di lager manicomiale, per poi proseguire con Tutti i nomi, allegoria delle nostre identità senza certezze. E, finalmente, in un crescendo di perfezionismo stilistico, l'approdo alla Caverna, poi all'Uomo duplicato, e ancora al Saggio sulla lucidità, i libri intorno ai quali hanno ruotato le nostre tre lunghe conversazioni.

Qualche accenno all'intreccio sul quale si concentra la prima intervista con Saramago servirà a orientarsi nelle domande. Il titolo, La caverna, riprende il mito platonico allo scopo di rimandarci alla nostra condizione di prigionieri: qui la galera si identifica con una istituzione totalitaria mascherata da centro commerciale, che inghiotte via via tutto quanto lo circonda, paesaggi, uomini e cose, trasformandoli in funzioni di una autorità superiore facilmente identificabile nel processo di globalizzazione economica, che governa gli scambi della nostra reificanda condizione umana. Romanzo che rimanda alla crisi dell'individuo moderno nella società che lo circonda, e soprattutto alla minaccia che incombe sul lavoro, La caverna va letto tuttavia non fra le righe, ma per quel che vi si rende esplicito, ovvero il virtuosismo di una scrittura che insegue le poche gesta e i molti pensieri dei protagonisti, governata dalla autorità inappellabile di una intenzione cui nulla sfugge: è una variante dell'autore onnisciente imparentata con lo sguardo divino, che registra tutto, vede davanti, vede dietro, vede ai lati, parla fuori campo per richiamare il racconto alla sua coerenza. Poi si ritira dietro le quinte, ma neppure per un attimo perde il controllo dei personaggi che ha creato.




Roma, febbraio 2001

Tutti i suoi romanzi mettono in scena un narratore onnisciente. Ma mentre nel romanzo classico la voce narrante guarda i personaggi da una profondità temporale che le permette di conoscere il loro passato e la direzione che prenderà il loro futuro, il narratore a cui lei ricorre sembra essere dotato di uno sguardo che non solo circonda da tutti i lati i pensieri dei personaggi e rende espliciti gli aspetti contraddittori sfuggiti ai loro ragionamenti, ma non permette mai di dimenticare come tutta la narrazione sia sottomessa alla sua imprescindibile autorità.

Credo che questo discorso risulterebbe molto più chiaro se immaginassimo che fosse possibile eliminare la figura del narratore. E quando dico se fosse possibile è per dire che, in realtà, secondo me lo è. Chi ha inventato la figura del narratore? Si può pensare evidentemente che egli abbia le funzioni di cui lei parla, ovvero che abbia uno status determinato all'interno di un'opera di finzione. Ma se prendiamo una pièce teatrale ci troviamo immediatamente davanti a un paradosso: anch'essa è una finzione, ma il narratore non c'è. Ora, nella mia concezione del rapporto tra l'autore e il suo lavoro, questa figura di intermediario che coinciderebbe con il narratore non esiste. Intendo dire che colui che è effettivamente presente nell'osservazione del comportamento dei personaggi e nella analisi delle situazioni narrative è semplicemente l'autore. È chiaro che ci sono romanzi, e sono la maggior parte, costruiti in modo da fare percepire l'assenza dell'autore: assenza riempita dalla figura di un narratore dotato di atteggiamento neutrale, la cui unica funzione è appunto quella di raccontare. Al contrario, io voglio che i lettori abbiano coscienza del fatto che la voce e l'intenzione dell'autore sono presenti in tutto ciò che è scritto sulla pagina, e per questo le rendo tanto esplicite che in nessun momento esse possono venire confuse o scambiate con la voce narrante. Tutto questo mi porta a concludere che, dal mio punto di vista, il narratore non è altro se non un personaggio in più di una storia che non è la sua, utilizzato dall'autore secondo le sue convenienze, le quali sono a loro volta finalizzate all'efficacia dell'intreccio. Nei miei libri accade continuamente che l'autore si pronunci in quanto tale, rendendo manifesto il suo pensiero, evidentemente perché questo fa gioco alla storia che sta raccontando.

Quindi, la retorica secondo la quale l'autore non sa quel che i suoi personaggi pensano, né è responsabile di quel che fanno, perché una volta creati essi godrebbero di una autonomia grazie alla quale non è lecito confondere i loro pensieri con quelli dell'autore, per lei non ha senso.

Infatti, è un discorso sul quale non sono d'accordo. Supponiamo che l'autore sia dotato di un pensiero a una sola dimensione. In questo caso, inventare per ognuno dei personaggi pensieri che non sono i suoi sarebbe impossibile. Ne discende una ovvia constatazione: se pure i personaggi possiedono una loro autonomia, essa è relativa. Relativa alle intenzioni dell'autore, appunto. Credo che l'indipendenza dei personaggi stia piuttosto nel fatto che l'autore non può obbligarli a fare qualcosa che va contro la loro stessa logica; e laddove questo avvenga, vuol dire che la contraddittorietà imposta dall'autore ai suoi personaggi obbedisce a una organizzazione superiore, che guida gli sviluppi dell'intreccio. Il discorso che gli scrittori ripetono sempre quando li si interroga sui loro personaggi suona come una invocazione di impunità. È come se chiedessero di venire deresponsabilizzati, affermando che non sono loro ad agire, bensì appunto le loro creature. E ovvio che se un personaggio ne ammazza un altro, non e stato l'autore a ucciderlo, però è stato lui, e non il narratore, a decidere chi ammazza chi nel corso del romanzo.

Tuttavia è vero che i personaggi conquistano un margine di autonomia almeno rispetto alle iniziali dichiarazioni di intenti dell'autore; perciò si dice che essi si avviano su strade proprie, fino ad allora impensate. Dove sta, secondo lei, il limite di questo discorso?

Sta nel fatto che non sono i personaggi ad andarsene, da un certo punto in avanti, per la loro strada, ma è l'autore che scopre per loro nuovi cammini. In Cecità, quando il medico protagonista sta per entrare nell'autoambulanza che lo porterà a rinchiudersi in ospedale per passare la quarantena finalizzata a scongiurare l'epidemia di mal bianco, la moglie fa per accompagnarlo, ma il conducente le dice che lei non ha il permesso di salire, perché mentre suo marito è cieco, lei non lo è. Allora io le faccio rispondere: no, lei deve portare anche me perché sono appena diventata cieca anch'io. Se poco prima di questo passaggio mi avessero chiesto: e ora che ne farai di questa donna? La mia risposta sarebbe stata che, probabilmente, avrei aspettato il capitolo seguente e poi avrei fatto diventare cieca anche lei. Il romanzo si presenta come una struttura chiara, solida, eppure, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, io non avevo previsto cosa sarebbe successo a questa donna: sarebbe potuta diventare una figura meramente secondaria, una cieca tra gli altri. Ma proprio nel momento in cui il marito stava per salire sulla autoambulanza compresi che una tale soluzione non poteva darsi, e decisi di farla mentire. Questa è una tipica questione tra l'autore e il suo personaggio, e non tra il narratore e il personaggio.

Questo perché, come diceva prima, il narratore non è che un personaggio tra gli altri?

Sì, anche se, evidentemente, la mia è una definizione per assurdo. E chiaro che egli non è propriamente un personaggio, ma è altresì evidente che agisce all'interno di una storia che non gli appartiene, ovvero non entra a determinare l'intreccio.

Una delle caratteristiche che contraddistinguono la sua scrittura è la ricorrenza di uno sguardo che non si limita ad avvolgere i personaggi, ma penetra nelle singole parti del loro corpo, consegnando a ciascun organo una autonomia di pensiero. Valga come esempio la frase tratta da Tutti i nomi, dove si dice che gli occhi del signor José "sentirono per lui una grande pena ".

Non vedo come spiegare quel che lei ha notato se non ammettendo che, per rifarmi al suo esempio, gli occhi piangono in conseguenza di un processo emotivo che si riflette sul sistema nervoso e li porta a lacrimare. Noi non possiamo dare l'ordine di far piangere i nostri occhi, dunque in questo senso essi hanno un certo livello di autonomia, che consente loro di piangere solo quando c'è un motivo. Certo, non sto dicendo che il nostro corpo è anarchico, naturalmente il comando parte sempre dal cervello. Tuttavia ricorderà che nella Caverna io immagino che le dita del vasaio portino sulla punta dei piccoli cervelli, e dico esplicitamente che la mente ha una idea vaga di quel che vuole, non sa bene se sia una pittura o una scultura ciò che le mani dovranno ottenere. Detto altrimenti, suppongo che le mani facciano più di quel che noi stessi pensiamo, e sappiano più di quel che il cervello sa di loro; anche se mi rendo conto che, dal punto di vista scientifico, probabilmente nulla di tutto ciò è vero.

Fino a che punto arriva la relazione tra il suo romanzo La caverna e il mito platonico? In Platone la caverna funziona come allegoria della conoscenza umana, ma non sembra che la grotta scoperta all'interno del centro commerciale da lei descritto abbia lo stesso significato.

Nel mio libro, infatti, non c'è alcuna speculazione filosofica. La caverna platonica funziona, qui, come un elemento che ha messo in moto un processo mentale rivolto a cercare nella materialità delle condizioni di vita odierne una situazione simile a quella descritta da Platone per i prigionieri della sua caverna: persone legate con la faccia rivolta alla parete dietro alla quale arde un fuoco. Le ombre che questo fuoco proietta creano visioni scambiate per oggetti reali. A parte questa immagine, per quel che riguarda il mio libro, di Platone non mi interessa nient'altro. Non si deve leggere La caverna come il prolungamento di una speculazione filosofica, ma come una trasposizione materiale delle circostanze in cui si trovano i prigionieri della caverna platonica, duemilatrecento anni dopo, nella società moderna. Credo che per ragioni differenti, e in una situazione necessariamente altra, è come se fossimo anche noi chiusi in una enorme caverna, circondati da immagini la cui funzione primaria sarebbe quella di rappresentare la realtà, mentre invece la occultano. Il centro commerciale è solo una figura simbolica della società attuale, ovvero di un processo di rinserramento che per certi versi somiglia in modo perturbante alla situazione in cui si trovavano i prigionieri platonici. Così come nel passato i nostri antenati si rifugiavano nelle caverne per proteggersi dal mondo esterno, e più tardi nelle cattedrali, luoghi per eccellenza deputati alla formazione della mentalità, e poi ancora nelle università, ora tutti questi spazi sono stati sostituiti dai centri commerciali, che sembrano essere i luoghi nei quali ci sentiamo più sicuri. È evidente che c'è in questo una certa esagerazione, ma chissà che esagerare non sia un modo di fare divenire i fatti più visibili.

Si è detto che questo centro commerciale da lei immaginato ricorda alcune descrizioni di Orwell. Mi domando, piuttosto, se dopo tanti decenni di abuso del termine "kafkiano" non siamo qui di fronte alla figurazione di un luogo che autorizza, una volta tanto, il paragone con quel che Kafka aveva immaginato. Già l'archivio di Tutti i nomi e il manicomio-lager di Cecità avevano le caratteristiche della istituzione totale, con le relative connotazioni di ossessività e di angoscia. Kafka aveva prefigurato la condanna della condizione umana; ma, ora, nei romanzi inventati da lei, la realizzazione di questa condanna è ben più vicina, e la narrazione si incarica di esasperarne i contorni

. Condivido l'irritazione per l'abuso dell'attributo "kafkiano", e credo che la sua sia una osservazione corretta. Molti romanzi si sarebbero potuti definire kafkiani assai prima che Kafka nascesse. Da sempre la letteratura mette in scena mondi condizionati da forze esterne. Per quel che riguarda La caverna, questo romanzo risente di quel genere di osservazione del mondo mista a elementi di fantascienza che portò Huxley a scrivere Il mondo nuovo e Orwell a immaginare, partendo da dati reali, 1984. Tutto questo, ancorato a radici kafkiane. Dicono che qualcosa in me ricorda i presagi di Cassandra. Mi viene da rispondere che se dico che il tetto sta per cadere, meglio sarebbe verificarne le condizioni piuttosto che trattarmi da profeta di sventure.

Quando Cipriano e suo genero scendono nella caverna, si trovano davanti a figure che sembrerebbero rimandare a una imitazione in forma artistica della realtà. Dunque, se seguiamo Platone, esse sarebbero la copia di una copia, la cui origine nel mondo del reale sarebbero le figure dello stesso Cipriano, di sua figlia e di suo genero. Il vasaio si ritrae spaventato. Ma cos'è che effettivamente gli ricordano quelle figure?

Credo sia abbastanza chiaro, a patto di limitarci a considerare oggettivamente la situazione descritta da Platone, tralasciando tutta la discussione filosofica posteriore su quel che la caverna rappresenta. Le figure che il vasaio e suo genero trovano nella caverna sono figure umane mummificate: nient'altro che corpi di donne e di uomini. "Queste figure siamo noi", dicono. Bene, dentro quella caverna che è il centro commerciale, il vasaio e il genero stanno - in realtà - come figure morte. Con una differenza: i morti non possono più uscire di là, mentre loro, in quanto vivi, hanno ancora la facoltà di allontanarsi dal centro. Infatti se ne andranno. Nella traduzione italiana si dice che per entrare nella caverna si acquista subito "il biglietto", mentre in portoghese quel che si compra è "l'entrata". Dunque si perde il significato originario, perché viene a mancare la doppia valenza di ingresso in un luogo di attrazioni dal quale, però, si può anche uscire.

Si parla spesso della musicalità della sua prosa, di ritmo della narrazione. A me pare, piuttosto, che quel che rende la sua scrittura inconfondibile non sia una questione di ritmo ma di cadenza.

Sono assolutamente d'accordo, parlare di ritmo è riduttivo. Quello che c'è nella mia narrativa è piuttosto una cadenza che io chiamo misura, una unità metrica costituita da tempi raggruppati a due a due o a quattro a quattro. Come le frasi musicali hanno un loro tempo, nello stesso modo qui interviene una sorta di motu proprio che comporta una certa solennità. E necessita che tutta la frase sia in equilibrio. Talvolta, da un punto di vista logico, il senso di quel che voglio dire è già concluso, non sarebbe necessario aggiungere nulla; tuttavia metto ancora altre parole, perché la musicalità della frase deve trovare un suo compimento, non può rimanere una nota sospesa.

A partire dal suo romanzo Una terra chiamata Alentejo, lei ha deciso di inserire i dialoghi nella narrazione come un continuum, abolendo le virgolette e qualsiasi marcatura di stacco che non sia la semplice maiuscola: unico segno a indicare, appunto, l'alternarsi delle voci. Come le è venuta questa idea, e a cosa è funzionale?

È possibile che vi siano indizi di questo mio modo di scrivere antecedenti alla stesura di Una terra chiamata Alentejo, il primo dei miei libri la cui struttura è organizzata esplicitamente in forma di romanzo. Ma, ammesso che sia possibile avere delle certezze, se mi fossi trovato a narrare una storia urbana invece che una epopea contadina, non avrei sentito la necessità di inserire i dialoghi nella narrazione. Ho passato tre anni nell'Alentejo, una regione del Portogallo del Sud, ci arrivai nel 1976 e cominciai finalmente a scrivere nel 1979, dopo avere ascoltato tante storie di contadini: quando lo iniziai, Una terra chiamata Alentejo era un libro come qualunque altro, con i dialoghi posizionati in modo convenzionale; ma a un certo punto, superate le prime venti pagine, senza pensarci su cominciai a scrivere nel modo che non avrei più abbandonato. Quando dico che se si fosse trattato di un romanzo di vita urbana non sarebbe successo è perché quasi tutte le informazioni che raccolsi sulla vita dei contadini di Alentejo erano state tramandate oralmente, e quindi tutta la loro cultura era stata affidata, di generazione in generazione, a una comunicazione di tipo verbale: fu questo che determinò la frattura, obbligandomi a tornare sulle prime pagine per accordarle al resto della narrazione. Credo che compresi in questo momento di avere trovato la mia vera voce. E sebbene questo processo non si ripeta meccanicamente da un romanzo all'altro, direi che questo è diventato il mio modo di comunicare con il lettore.

 


Passarono meno di due anni e un nuovo libro di Saramago uscì con il titolo L'uomo duplicato, motivando un nostro secondo incontro. Via via che procede verso un climax imprevedibilmente violento, il congegno narrativo si avvita in una spirale mozzafiato, non prima che la enunciazione del tema si apra in una miriade di variazioni, ad accogliere la ulteriore messa a punto delle strategie compositive già impiegate nei romanzi precedenti. L'uomo duplicato svolge la sua trama, ancora una volta, sullo sfondo di un sogno maligno partorito dalle perversioni dell'idea di progresso: un sogno che si chiama clorazione. Ma sebbene sia evidente che le storie di Saramago si tengono sempre ancorate ai presagi di un futuro inquietante, il tasto sul quale qui insiste rimanda allo strumento molto più di quanto non evochi la partitura: per quanto urgenti, i contenuti allegorici e quelli deputati a formare l'ordito della trama restano infatti in secondo piano, costruendo lo scheletro entro cui corre l'innervatura di una vitalità stilistica, che di tutte le risorse di Saramago è di certo la più coinvolgente. 1 dialoghi inframmezzati al testo, cui ci avevano abituato i romanzi precedenti, si fanno così incalzanti da imprimere alla lettura una velocità accelerata. E l'attitudine autoriflessiva della scrittura non si accontenta di ripiegarsi sul proprio oggetto, ma funziona come una calamita che attrae a sé, oltre alle possibilità realizzate quelle lasciate cadere; e prima di abbandonarle a un diverso destino, dà loro uno statuto di legittimità per effetto del solo nominarle.

Sempre, i personaggi di Saramago sono abitati da voci interiori, che la scrittura raccoglie e rende manifeste, ma qui esse confluiscono in un personaggio fisicamente ingombrante: si chiama senso comune e a più riprese si infila tra le smagliature che la stanchezza apre nel pensiero congetturante del protagonista. 1 cui tormenti derivano dal fatto che si è imbattuto in un sosia, così perfetto in ogni dettaglio da configurarsi come una sua copia, dotato dello stesso timbro di voce, persino delle stesse cicatrici, segni di una sorte anch'essa identica, almeno per quel che riguarda i confini del corpo. È andata così: Tertuliano Máximo Afonso, professore di storia alle scuole medie, per distrarre la tirannia della depressione ha affittato la videocassetta di un film. Non è mai stato appassionato di cinema, guarda distrattamente la commedia e se ne va a dormire. Ma in capo a un'ora lo sveglia la certezza di una presenza che si aggira per la casa. Nessuno nei dintorni, però gli occhi tornano allo schermo, qualcosa deve essere rimasto imprigionato lì dentro: riavvia la videocassetta, e finalmente il suo sguardo coglie quel che già sa, e sa già di sapere. Un attore secondario, nel ruolo di impiegato alla reception di un albergo, lo fissa dallo schermo: è in tutto identico a lui. Contrariamente a Tertuliano porta un paio di baffi, è vero, ma cinque anni separano il presente dal tempo in cui venne girato il film, e allora... Tertuliano va a controllare le sue fotografie, si, anche lui aveva un paio di baffi, proprio così. La vena umoristica di Saramago si concede voce, il titolo del film che mette nelle mani del povero professore di storia è Chi cerca trova - rigorosamente senza corsivo nel continuum stilistico della narrazione. Così, la partita del senso comune, che vorrebbe lasciar cadere l'incidente, è persa fin dall'inizio. Lungi dal lasciarsi scivolare alle spalle l'ingombrante visione, Tertuliano la insegue. Troverà quel che cerca - ovvero l'attore a lui identico - e anche quel che non cercava, se è vero come è vero che le vie del destino non si lasciano incanalare in un codice genetico.




Roma, febbraio 2003

Una architettura così ben congegnata com'è quella dell'Uomo duplicato sembra averle richiesto pochissimo tempo, non sono passati nemmeno due anni dalla pubblicazione del romanzo precedente, La caverna...

Effettivamente è uno dei libri che ho scritto più rapidamente, ci ho messo solo cinque mesi, e sono stato il primo a stupirmene. Era il z novembre 2001, avevo appena finito di farmi la barba, stavo davanti allo specchio e mi venne in mente questa idea dell'uomo duplicato: così, improvvisamente. È possibile sia stato influenzato dai discorsi sulla clorazione che erano nell'aria, ma questo argomento ha funzionato solo da richiamo, non va considerato come il tema del libro. Come già è successo nei miei romanzi precedenti, l'idea si è presentata repentina, poi il puzzle che le ho costruito intorno, per quanto complesso, è venuto via via montandosi con naturalezza. Sapevo bene quale direzione seguire, anche se molte delle situazioni narrate non erano previste.

Il tema del doppio, del sosia, ha una lunga tradizione, tuttavia il suo romanzo, ancora una volta, sembra attingere agli incubi della realtà molto più di quanto non guardi a quelli letterari

. Il tema in effetti è antichissimo, risale al mito della nascita di Ercole: Alcmena pensa di avere accanto a sé nel letto il suo sposo Anfitrione, mentre a lui si è sostituito Giove che ha assunto le sue sembianze per sedurla. Ma al di là della frequenza con cui ricorro a elementi fantastici o allegorici, non c'è dubbio che io resti uno scrittore realista.

In chiusura del libro, il protagonista si avvia a incontrare un nuovo clone. All'ombra di questa prospettiva, viene da chiederci se anche qui, come già nei romanzi della sua trilogia precedente, lei alluda a un destino sinistro che incombe sulla condizione umana.

Il mio lavoro ha conosciuto un momento decisivo, inaugurale di una nuova fase, quando ho scritto Cecità. Allora mi chiesi se alcune preoccupazioni che da sempre avevo in mente non si sarebbero avvantaggiate di una narrazione allegorica. Poi andai avanti con Tutti i nomi e quando terminai anche La caverna pensai che si era andata formando involontariamente una trilogia, sebbene un po' forzata, perché il tasso di allegoria era molto diminuito. Ora direi che il posto della Caverna potrebbe essere preso dall'Uomo duplicato, perché si presta molto meglio a chiudere il trittico dei romanzi allegorici. Da una parte questo mio ultimo romanzo è una riflessione sull'altro: "chi è l'altro?" questa è una prima domanda. Ma la seconda è: "chi sono io?" e l'unica risposta seria che si può dare è: "non so".

Del resto, lei non sembra interessato a indagare la psicologia del profondo. Se la scrittura torna ad aggirare il proprio oggetto, se insiste nella disamina di ogni minimo dettaglio, è per indagare quel che si muove nella coscienza del personaggio, non certo nel suo inconscio. È così?

Il romanzo è come uno di quei sottomarini che possono scendere fino ai fondali del mare, ma può darsi che lo stato attuale delle capacità analitiche del romanziere non riesca a farlo arrivare più in fondo di tre-quattromila metri, poi si ferma.

Diciamo, piuttosto, che quel che le interessa si trova alla profondità della superficie. Infatti, è così.

Tuttavia la sua scrittura sembra votata a una attitudine autoriflessiva, persino pedante, e talvolta è proprio attraverso questo escamotage che passa l'ironia. È d'accordo?

All'inizio dei suoi Saggi, in una piccola nota Montaigne scrive: io sono la materia del mio libro. Ora, fatte salve le debite distanze, per quanto nei miei romanzi non ci sia nulla di autobiografico se non qualche minimo dettaglio, non sono io la materia del mio libro, però è certo che sono nei miei libri. È vero, la mia scrittura è precisamente autoriflessiva, e questo atteggiamento è molto più proprio di un saggista che di un narratore. Infatti, direi che almeno un terzo dell'Uomo duplicato contiene riflessioni dell'autore... non del narratore. Ricorda? Ne abbiamo parlato quando uscì La caverna.

Sì, allora lei disse che meglio sarebbe sbarazzarsi di questo inganno rappresentato dalla voce narrante. Perché il narratore non è che un personaggio tra gli altri, in una storia che non è la sua.

Esatto, infatti in questo romanzo, più che negli altri, talvolta il narratore perde di vista il protagonista delle vicende che si stanno svolgendo, e allora il dominio dell'autore si fa più evidente: tutto torna a ricomporsi, a sottomettersi al suo volere. L'unica vera presenza autoriale è quella di chi scrive, il resto sono marionette.

Uno tra gli elementi di novità più divertenti, in questo suo ultimo romanzo, è l'entrata in campo del senso comune, che però sembra non coincidere mai con il buon senso.

Già in Tutti i nomi, José parlava con il tetto, che funzionava come una sua voce interna. Qui il senso comune non è altro che una sorta di strumento di comunicazione generale: sta sempre lì pronto a dare consigli, alcuni buoni altri meno, ma tende a essere conservatore e può diventare reazionario. Ogni tanto arriva il momento in cui bisogna liberarsene perché si trasforma in un ostacolo. Più o meno tutto quel che c'è di buono al mondo è stato fatto contro il senso comune, poi esso diventa necessario per conservare.

Immagino lei condivida l'idea che Tertuliano sponsorizza tra i suoi colleghi, e cioè che bisognerebbe insegnare la storia cominciando dal presente e risalendo da qui al passato.

Assolutamente sì. So che nessuno introdurrà mai questa innovazione nell'insegnamento, ma sono convinto che se potessimo analizzare la storia a partire da quel che sta succedendo intorno a noi, questo modo di procedere ci metterebbe in grado di capire meglio sia il presente che il passato.

Quando muore Antonio Claro, ovvero il sosia di Tertuliano, la moglie di lui propone a Tertuliano di prendere il posto del marito. Nessuno infatti se ne accorgerebbe. Ma alle loro spalle si è appena consumata una tragedia. Sembra che lei, nel finale, torni al suo abituale pessimismo e indichi come l'animo umano faccia presto ad accomodarsi nell'orrore.

Bisogna tenere presente quale possa essere lo stato d'animo di un uomo che non solo si trova di fronte a un suo duplicato, ma a un certo punto si trova a scambiare con l'altro la propria identità. Infatti, poiché Antonio Claro si e impossessato di tutto quel che aveva Tertuliano, i suoi documenti, la sua macchina, le sue chiavi, i suoi vestiti, quando lui muore in realtà è Tertuliano a morire. Come si fa a spiegarsi agli altri? Come si fa a dimostrare questo scambio tra due sosia? La soluzione migliore per Tertuliano è vivere, d'ora in avanti, come se fosse l'altro. Questo libro fa entrare in gioco un destino che da un certo punto in poi spinge tutti i personaggi verso la stessa direzione. Sembra che tutti siano attratti verso la tragedia finale.

Per molto tempo lei ha consegnato i suoi personaggi all'anonimato, poi è cominciato a comparire qualche semplice nome proprio, e questo era un modo per sottolineare la loro identità di uomini qualunque. Qui, il protagonista è ancora un uomo senza speciali qualità, tuttavia lei lo carica di ben tre nomi, il primo dei quali, Tertuliano, "gli pesa come un macigno ". Che senso ha questa scelta?

La cosa buffa è che la scelta del nome non mi è costata nessuna fatica. Non sapevo come dovesse chiamarsi il protagonista quando cominciai a scrivere, poi - arrivato alla quarta riga - ebbi bisogno di dargli un nome, e il primo che mi venne in mente è Tertuliano. È curioso, perché così si chiama quel teologo che dopo essersi convertito al cristianesimo scrisse: tutto questo è assurdo ma proprio perciò ci credo. Ora, lo stesso vale anche per quel che succede al mio personaggio, e il lettore dovrà dire: sì, è assurdo, ma ci credo.




L'ultima tavola del polittico sulla condizione umana, che José Saramago inaugurò nel 1995 con Cecità, uscì lo scorso settembre per Einaudi con il titolo Saggio sulla lucidità: è al tempo stesso una chiusa speculare al romanzo in cui l'autore portoghese alludeva alla catastrofe della ragione, e il vertice del suo virtuosismo stilistico, per il quale ogni aggettivo non può che definire una approssimazione per difetto. Il teatro della narrazione è una città senza nome in cui si svolgono le elezioni municipali: poiché i voti validi non arrivano al venticinque per cento, e sono più del settanta per cento le schede bianche, tempo una settimana le consultazioni vengono ripetute, accampando la scusa di una calamità naturale che avrebbe condizionato i cittadini; ma nulla si era verificato, in realtà, se non una semplice pioggia. Allo spoglio delle schede, questa volta il numero di quelle bianche sale all'ottantatre per cento, gettando il governo nella costernazione. Cosa vorrà dire, quale sommossa si prepara, chi i presunti facinorosi. Un clima paranoide avvolge i responsabili dei diversi dicasteri: ipotesi, dietrologie, congetture sulle immancabili cospirazioni provenienti dall'estero, tutto il catalogo dei più sinistri luoghi comuni viene squadernato. Spie governative fermano i cittadini per la strada interrogandoli sul voto, ma il voto è segreto e le domande rimbalzano sulla labbra di chi le fa. Viene dichiarato lo stato d'eccezione, attivato un rivelatore di menzogne in grado di stanare coloro che si annidano in quel "termitaio di bugiardi", fatta scoppiare una bomba nella stazione del metrò: come di regola, i sospetti sono convogliati sugli elettori responsabili della valanga di schede bianche, peccato che l'ordigno sia stato posizionato dai sicari del governo, ne hanno solo tarato male la potenza, troppi morti, peccato. "Che cosa accadrà se non troveremo prove di colpevolezza - chiede il commissario". "Lo stesso che accadrebbe se non si trovassero prove dell'innocenza - risponde il ministro dell'interno -, ci sono casi in cui la sentenza è già scritta prima del crimine".

E così via, la stampa addomesticata collabora e reclama l'abolizione del diritto di voto, si progetta la costruzione di un muro che isoli il perimetro della città, il governo abbandona quella che era la capitale e ora si decreta non esserlo più; poi se ne va la polizia, segue l'esercito, mentre la società civile reagisce assicurando i servizi che i governanti hanno sospeso, dunque si trasforma in moltitudine e si riversa per le strade esibendo distintivi che dichiarano di avere votato scheda bianca: è un mare di bianche bandiere quello che ora si agita nelle piazze.

I dialoghi tra il ministro degli Interni e il commissario di polizia si fanno febbrili, una catena infinita di digressioni si succedono sulla pagina, la gerarchia tra svolte della trama e dilazioni è ribaltata. Saramago esibisce tutte le sue doti di investigatore applicato a una mente congetturante, ingarellata con le sue stesse ipotesi, argomentazioni, illazioni controfattuali, mentre l'intreccio si avvita claustrofobico su se stesso, maniacalmente preciso nell'elencazione dei dettagli, impegnando il lettore in una maratona mentale al limite dello spasmo; ma l'ironia è anch'essa in agguato, apre squarci nella narrazione e strappa sorrisi, dà respiro a chi legge e lezioni a chi scrive: " occupati come siamo stati con excursus indiscreti ... gli avvenimenti non ci hanno aspettato".

Molto è successo e molto dovrà succedere, ma quel che più conta è l'apparizione di un personaggio che i lettori di Saramago riconosceranno come la donna scampata, in Cecità, alla misteriosa epidemia di mal bianco, la donna che pur continuando a vederci, sola tra tutti, si era finta cieca per potere aiutare gli altri sventurati. L'autocitazione è lasciata cadere, come per caso, tra le righe prive di capoversi e i dialoghi come di consueto serrati nella narrazione senza virgolette, né trattini a segnalarli: è il presidente della Repubblica che parla, si lagna della condotta del governo, voi cianciate, dice, e noi "Intanto ci muoveremo a tentoni, alla cieca". Quasi fosse una formula magica, quella frase paralizza l'uditorio, un tabù è stato infranto, il raccordo con la malattia che aveva afflitto la città e di cui era vietato parlare è immediato, terribile, definitivo: un'altra forma di mal bianco si è diffusa, "votare scheda bianca è una manifestazione di cecità altrettanto distruttiva dell'altra". E a contagiare i cittadini disobbedienti non può essere stata che lei, la finta cieca, che per di più si era resa a suo tempo responsabile di un delitto; ma ora questo non conta, non è tempo di giustizia, è tempo di trovare un colpevole cui addebitare la sommossa, perciò la donna verrà interrogata, braccata, diffamata. Nella sua mente non ha attecchito il senso di colpa, né lo stato di necessità che imprigiona i pensieri dei governanti, pensieri in cui tutto torna; così, si muove libera in un contesto irretito dalle sue stesse trame, e sarà capace di far passare il commissario dalla sua parte, a quale prezzo lo saprà chi leggerà. Con mirabile disinvoltura Saramago tende al massimo della flessibilità le sue virtù mimetiche, alternativamente identificandosi con il cinismo del potere e con la buona fede dei governati: quella che per gli uni è cecità, per gli altri è provvidenziale, repentina lucidità. Le schede bianche ne sono il riflesso, per il resto "chissà se il mondo non sarebbe un po' più decente se sapessimo come unire un certo numero di parole che vagano lì sciolte".




Roma, settembre 2004

Questo suo ultimo romanzo ha un duplice senso: da una parte è una iperbole sulla degenerazione della politica, dall'altra sembra proporsi come una chiusa del ciclo inaugurato dal libro che nel titolo originale suonava Saggio sulla Cecità, e a cui lei esplicitamente si richiama. Si direbbe che, nella sua opera, questo approdo abbia un valore emblematico. È così?

Sarà il tempo, insieme ai lettori, a decidere se questo libro avrà un valore emblematico. Lo attendono destini diversi a seconda che risvegli o meno nella classe politica inquietudini tali da ignorarlo, da desiderare che venga messo a tacere. Se questo dovesse riuscire, è evidente che anche la sua risonanza ne verrà condizionata. Per ora, il successo che il romanzo sta raccogliendo in Portogallo, in Spagna e nell'America Latina fa prevedere una certa eco. C'è anche chi ha ipotizzato che lo abbia scritto pensando alla situazione politica italiana, ma questo è semplicemente falso. È un libro che riflette sull'incapacità di delegittimare con il voto l'aberrazione di una politica dipendente e sovrastata dai potentati economici. Non credo sia mai stata data sufficiente importanza alla differenza che passa tra l'astensione e la protesta degli elettori espressa tramite la scheda bianca. Eppure, è una differenza radicale. Non intendevo servirmi del romanzo per fare alcuna propaganda, del resto non scopro nulla. Sappiamo tutti di avere a disposizione questa possibilità di voto, che mentre esprime il nostro impegno civico e responsabile, perché implica che ci rechiamo alle urne, al tempo stesso segnala una protesta; ma lo si usa poco. Se mai si desse una ipotesi di rivoluzione democratica, per me questa corrisponderebbe all'uso della scheda bianca. Alle ultime elezioni europee si è arrivati, in alcuni paesi, anche al cinquanta per cento di astensioni; però queste non danno tanto fastidio quanto ne darebbero la metà delle schede bianche. Quando presentai il romanzo a Lisbona c'erano circa milleseicento persone in sala. Ci fu un lungo dibattito e a un certo punto l'ex presidente Mario Soares, che sedeva accanto a me, si girò con fare indignato e mi chiese: se si arrivasse a una votazione in cui, non dico l'ottanta per cento delle schede - come è scritto nel romanzo - ma anche solo il quindici per cento fosse in bianco, non crede che questo risultato rappresenterebbe il crollo della democrazia? Ah sì? ho detto io. Perché invece il quaranta per cento di astensioni non lo è? Quando si procede all'apertura delle urne, accanto ai risultati si pubblicizzano sempre anche il numero dei voti nulli e quello degli astenuti; ma in alcuni paesi - in Portogallo per esempio - non si dice quante siano le schede bianche. A me sembra una omissione gravissima, e i media non hanno alcuna curiosità di indagare su questo fenomeno; che se arrivasse a proporzioni anche solo del dieci, quindici per cento metterebbe non solo un sistema democratico, ma qualunque tipo di governo, nella impossibilità di gestire la situazione. Il giorno in cui i cittadini si stancassero di constatare che comunque vadano le elezioni nulla cambia, perché il sistema che li governa non dispone degli strumenti per controllare gli abusi delle lobbies economiche e non ha tra le sue preoccupazioni fondamentali il rispetto dei diritti umani, e se succedesse che uno, due milioni di elettori depositassero nelle urne una scheda bianca, non dico che sarebbe una rivoluzione ma quanto meno si prenderebbe coscienza della necessità di tornare a una democrazia reale. Perché se è vero che senza democrazia non si danno diritti umani è anche vero che senza il rispetto dei diritti umani non c'è democrazia.

Lei ritiene che in passato i diritti umani fossero rispettati di più?

No, che idea è mai questa. Stiamo parlando di qualcosa che pertiene al regno dell'utopia, un ideale che si è fatto strada di recente e non trova applicazioni soddisfacenti in nessun paese.

Bisogna arrivare a metà di questo suo ultimo romanzo prima di imbattersi nella citazione che stabilirà il raccordo con Cecità: l'aveva progettata sin dall'inizio o è una idea che le è venuta in corso d'opera?

Nulla di programmato, è stato un flash. A un certo punto mi sono accorto delle coincidenze che si erano andate stabilendo tra il fatto che anche qui, come in Cecità, il contesto è quello di un paese non identificato, dove agiscono personaggi senza nome, in una città che non si sa quale sia. Solo allora, dopo avere preso coscienza dei parallelismi tra i due libri, ho deciso che alcuni personaggi, e la città dove si svolgeva questo intreccio, potevano tornare a essere gli stessi. Così ho stabilito un nesso tra il mal bianco che aveva afflitto la popolazione di Cecità e le schede bianche che avevano sconvolto le elezioni in Saggio sulla lucidità.

Non è certo un caso se il personaggio chiave di questo suo ultimo romanzo è la donna che si era finta cieca in Cecità: in quel libro, inizialmente lei aveva progettato di farla contagiare dal mal bianco come tutti gli altri. Poi, quando si trovò a descrivere la scena in cui le si impedisce di salire sulla autoambulanza che sta portando via il marito, perché lei ci vede ancora e non ha il diritto di venire ricoverata, cambiò idea e decise di farla mentire: sono cieca anch'io - dice la donna. Sembra che il fatto stesso di averla fatta deviare dalla regola che aveva imposto agli altri personaggi l'abbia salvata, consegnandola alla dignità di comparire come protagonista anche in questo romanzo. Che ruolo le assegna, qui?

Diversamente da quanto accade in Cecità, dove ha un ruolo attivo nel guidare e poi salvare gli altri, qui la donna recita una parte passiva. Se lì era il motore dell'intreccio, tra queste pagine sta in una posizione di impotente attesa, è una vittima della diffamazione: in lei il governo della città trova un capro espiatorio, una soluzione comoda per risolvere i problemi in cui gli uomini che stanno al potere si sono cacciati.

Lei scrive che i fatti raccontati in Cecità si distanziano da quanto accade nel presente di questo ultimo romanzo quattro anni; ma Cecità uscì nel 1995, dunque molto prima. Come mai questo scarto di date?

In effetti nella realtà è così, ma nella finzione ho deciso che nove anni di distanza sarebbero stati troppi. Non potevo fare pesare sui personaggi ricordi così distanti nel tempo, e poi volevo che fosse plausibile ritrovarli nelle stesse condizioni in cui erano nel romanzo precedente.

Quando uscì La caverna, lei ebbe modo di sottolineare quanto tenga a che risulti evidente, in ogni passaggio della narrazione, come nulla deve sfuggire al controllo dell'autore. Anche qui, ogni tanto lei riflette sull'andamento dell'intreccio e fa sentire la sua voce per criticare, per esempio, la mancanza di determinate informazioni; o il fatto che mentre le digressioni prolificano gli avvenimenti non aspettano... e chissà cosa ci saremo persi nel frattempo. Stava tentando di identificarsi con i pensieri dei suoi lettori?

Direi piuttosto che quando la tensione si fa eccessiva, mi piace irrompere nella trama per ottenere un effetto di distanziamento. E poi, non c'è pagina in cui non compaia l'ironia. È come se stessi dicendo al lettore di non prendermi troppo sul serio perché, in fondo, siamo pur sempre all'interno di una finzione. Alla presentazione del libro a Milano, mi è stato chiesto se avessi letto alcune pagine di Calvino dove sembra funzioni lo stesso procedimento deduttivo che uso nei miei libri. No, non le ho lette; ma a posteriori questa domanda mi ha fatto riflettere sul fatto che, in effetti, anche qui l'intreccio procede come se da ogni dichiarazione ne discendesse inevitabilmente un'altra. Quindi, da una parte voglio sia ben chiaro che, in quanto autore, sono signore e padrone della storia che sto raccontando; d'altra parte, è anche vero che non mi riesce di sfuggire a una logica deduttiva.

Anche questo romanzo, come già altri suoi libri, nonostante l'intreccio sia complesso ed esibisca nessi stringenti tra tutte le sue parti, è stato scritto con una rapidità sorprendente: non più di sette mesi di lavoro. Aveva un piano prima di cominciare?

No, sapevo solo dove volevo arrivare, ma mentre lo scrivevo il romanzo cresceva come un albero, espandendosi in una serie di ramificazioni impreviste.

Tra le pagine di Saggio sulla lucidità lei semina, tra l'altro, questa affermazione: " le manifestazioni non sono mai servite a niente, altrimenti non le autorizzeremmo mai": chi parla è il ministro degli Interni. Non è vero che sia sempre stato così, per esempio non lo era ai tempi della guerra in Vietnam. Ma, di certo, ora i fatti parlano diversamente. Cosa è cambiato, secondo lei, nella capacità dell'opinione pubblica di influenzare le decisioni dei governi?

Credo che quel che fa la differenza è se a guidarci è la razionalità o l'emozione. Oggi siamo di fronte a una gravissima crisi di idee. Se una emozione può mobilitare centinaia di migliaia di persone, l'assenza di idee o la loro debolezza sarà sempre di ostacolo a tenerle unite. Dai tempi del Vietnam molte cose sono cambiate: non eravamo ancora in tempi di globalizzazione, allora il progetto imperialista nordamericano non era così evidente; basti pensare quanti sono diventati, nel tempo, i paesi in cui gli Stati Uniti hanno basi militari. Anche oggi, le manifestazioni contro la guerra sono mosse da un sentimento sincero, certo, ma non è la ragione a guidarle. Perché, in realtà, sappiamo benissimo come milioni di persone in piazza non sposteranno Bush dalle sue decisioni.

Forse è anche vero che non abbiamo strumenti adeguati per indagare le forme in cui si presenta, oggi, la guerra.

Prenda l'affermazione di Kofi Annan secondo cui la guerra in Iraq sarebbe illegale. Francamente, mi sembra una stupidaggine, quanto meno è un attentato alla logica. Forse che esistono anche guerre legali? E dal momento in cui fosse varata una legislazione che rende le guerre legali, questo vorrebbe dire che tutto quanto vi si svolge è anch'esso sotto l'egida della legalità? Per me, comune cittadino, questa idea è inaccettabile, mi sembra di vivere nel mezzo di una follia. Vorrei sapere, poi, a chi spetterebbe decidere sulla legalità o meno di una guerra: alle Nazioni Unite la cui incapacità operativa è sotto gli occhi di tutti? O al consiglio di sicurezza, dove il diritto di veto è limitato a cinque paesi? Quanto all'idea di una guerra preventiva, nemmeno questa è nuova: ben prima che Bush diventasse presidente degli Stati Uniti, Clinton mandò a bombardare una fabbrica di prodotti farmaceutici in Sudan, con il pretesto che, forse, avrebbe potuto produrre armi chimiche, e che queste in futuro avrebbero potuto essere impiegate contro i cittadini statunitensi.

Torniamo al suo romanzo: da dove è nata l'idea che sostiene questo Saggio sulla lucidità?

Quando venne pubblicato in Spagna L'uomo duplicato, andai a Barcellona per la presentazione, e come al solito parlammo anche della situazione politica. Dal pubblico, qualcuno mi chiese: cosa possiamo fare? E io risposi: si può sempre votare scheda bianca. La stessa domanda mi venne posta altre volte, e in due o tre occasioni risposi nello stesso modo, finché questa frase non mi si rigirò in testa come una sorta di presentimento. Fatto sta che, un giorno in cui ero a Madrid, mi svegliai alle tre del mattino completamente lucido e in pochi secondi mi furono chiare due cose: il soggetto del libro che avrei scritto e il suo titolo. Il soggetto sarebbe stato, appunto, un governo messo in crisi da una maggioranza di schede bianche e il titolo Saggio sulla lucidità. Da allora scrissi velocemente, spinto da una sorta di urgenza interiore: cominciai nel giugno 2003 e il 3o dicembre dello stesso anno avevo terminato il romanzo.

Possiamo considerare questo libro come un compimento del ciclo iniziato con Cecità?

Non credo proprio che sarà così: sto già scrivendo un nuovo romanzo, e mi sembra rientri anch'esso nello stesso quadro. So già quale sarà il titolo: Le intermittenze della morte. È un soggetto che mi mancava.



(Tratto da: Francesca Borrelli, Biografi del possibile, Bollati Boringhieri Editrice, 2005)

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