Nerone

Gustavo Barroso

Una notte chiara, fresca, morbida, bellissima. Molto alta nel cielo limpido, la luna librava solitaria versando generosamente la sua luce argentea sui vecchi tetti di Montmartre. Io scendevo lento e pensieroso via Fontane, verso il mio hotel. Avevo appena assistito all'ultimo spettacolo del cinema allestito nel famoso Moulin Rouge. E mi vennero in mente i giorni della mia gioventù trascorsi nella Parigi di altri tempi, uccisa dalla guerra, quando quel quartiere dava un tocco di allegria notturna alla grande capitale.
Camminavo a testa bassa, morsicando il sigaro, e battevo lentamente la punta del bastone sulle antiche pietre del marciapiede, percorso tante volte in altri tempi e ancora oggi. Un profondo silenzio. Delle luci dei bar e dei caffè filtravano dalle porte di vetro. Due poliziotti in bicicletta bisbigliavano in un angolo. Improvvisamente, un orologio vicino rintoccò le tre del mattino. Accelerai il passo per le strade deserte. Più avanti, una voce soave, vivace, mi fermò con queste parole nella mia lingua:
- Buonasera dottò!
Mi fermai e alzai lo sguardo. Di fronte a me vidi un volto nero come il carbone e luccicante come una scarpa da ballo. Tutto il volto sorrideva: gli occhi dalle iridi bianchissime, le grandi guance nere, le carnose labbra scure e i denti color avorio.
- Oh Nerone! Sei proprio tu?!, esclamai.
- Sono proprio io, dottò, vivo e vegeto, in carne e ossa, in corpo e anima.
E fece una sonora risata.
Circa dieci anni fa conobbi per caso Nicolau Meraviglia, suonatore di vari strumenti, soprattutto di sassofono e lundù, detto Nerone per il suo colore e la sua alta statura, in casa di un amico che festeggiava un anniversario in famiglia.
Ascoltai molti brani del bahiano, lo lodai per la bravura nel pizzicare le corde e parlai un po' con lui di canzoni e musiche popolari del nostro infelice Nord-Este. Nel congedarsi da me, alla fine della serata, mi disse:
- Quando lei dottò avrà bisogno di me, basta che mandi a chiamare al Cinema Odeon il nerone dell'orchestra.
Lo trovai qualche altra volta ad altre feste e lo vidi altre volte al Cinema. Poi, quando arrivarono i film sonori e le orchestre non servivano più, non lo vidi più.
Mi sono imbattuto in lui ora, con sorpresa, al chiaro di luna di settembre, in una strada di Parigi. Gli tesi la mano, che lui afferrò con entusiasmo dicendo:
- Madonna mia! Che bello vedere lei, dottò, in questa terra e ascoltare il nostro idioma! Sorrisi per l'"idioma" e gli chiesi:
- Ma che ci fai a Parigi, Nerone?
Lui spiegò:
- Sono già cinque anni che vivo qui suonando il sassofono nei cabaret e guadagnandomi da vivere onestamente come Dio vuole. Ho suonato prima al "Lapin Agile", poi al "Boeuf sur le toit" e ra lavoro al "Train Bleu". Oggi è la mia sera libera e sono venuto a frescheggiare a Montmartre, che è più tranquillo di Montparnasse dove lavoro e dove ora si è spostata quasi tutta la vita notturna. - Non senti nostalgia del Brasile, Nerone? Non vuoi tornarci?
- Nostalgia ne ho e tanta, ma la voglia di tornarci, per dire la verità, non ce l'ho proprio. Mi scuserà, ma siamo da soli e tra brasiliani ci si può aprire. Il nostro Paese purtroppo non va. È una terra dove non ci sono opportunità per la musica e dove non si considerano i neri. Qui no, è diverso. Gli artisti sono pagati bene, i musicisti sono trattati con affetto e provano affetto per i neri. Tornare in Brasile per cosa? Per diecimila réis al giorno e ben sudati che bastano a mala pena per mangiare riso, fagioli e banane? Per uscire con le cuoche e senza contare poi la concorrenza dei soldati dell'esercito, dei marinai e dei fruttivendoli portoghesi? Non ne vale la pena…
Tossì. Prese il portasigarette smaltato, battè la sigaretta sul coperchio, l'accese con l'accendino, pulì un po' di cenere dal colletto della giacca a doppio petto azzurro, fece due tiri e continuò:
- Qui è diverso… io guadagno quattromila franchi al mese nel cabaret , escluse le mance. Vivo a Sainte Placide e non in Penha, e così come i francesi amano Josephine Baker, le francesi amano i neri di classe che sanno vestirsi bene come me. Macchè! Nel nostro Paese non c'è proprio stimolo…
Gli vidi le ghette chiare, il vestito ben stirato, la cravatta di buona seta e solo allora notai che portava i guanti di camoscio. Mi ricordai per un momento alcune scene che da tutte le parti avevano attirato la mia attenzione: per la strada, nei caffè, nei cabaret, all'Esposizione Coloniale, nei ristoranti e nei dancings, belle donne, soprattutto bionde, avvinghiate a neri ritinti. E dissi:
- Hai ragione. Io nei tuoi panni non sarei mai tornato.
Nel frattempo, la porta del caffè che dava sul marciapiede sul quale eravamo fermi si aprì e lasciò passare una donna alta, slanciata, bionda, con il tailleur grigio chiaro, con un piccolo cappello a tre punte di velluto nero appoggiato sulla chioma ondulata che tagliava con la punta la fronte liscia e fine. Le ammirai rapidamente gli occhi verdi, la pelle di seta. E lei cinguettò come un uccellino:
- Viens, chéri, rentrons!
C'est trop tarde et je tombe de sommeil.
- Oui, chérie, rispose lui e le stese la mano, allargando le labbra in un grande sorriso amichevole.
- Arrivederci dottò! Lisette ha sonno… piacere di averla rivista. Passi qualche sera là al "Train Bleu".
- Buonanotte, Nerone!
La francese mi fece l'inchino con la testa, prese il nero a braccetto e i due salirono la strada deserta, molto stretti, sotto la luna splendente. Rimasi un attimo a guardarli. Poi seguii il mio cammino, pensando che Parigi è davvero il Paradiso.

1933      

 



(Tradotto dal Portoghese da Julio Monteiro Martins insieme ai suoi allievi del 2° anno di Lingue dell'Università di Pisa.
)

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