Il semi-stato

Wole Soyinka

La natura dello Stato totalitario è semplice da definire, semplice da individuare, e proprio per questo rappresenta per gli arcieri della libertà umana un bersaglio ben identificabile contro cui scagliare le proprie frecce. Non così facilmente definibile è invece la natura di quello che ho chiamato semi stato, quell'entità sfuggente che copre virtualmente l'intera gamma delle ideologie e delle religioni, che si batte per il potere ma che a differenza dello stato sovrano non è delimitata da confini fisici. A complicare ulteriormente il discorso è il fatto che il semi-stato si costituisca sulla base di una spinta di fondo - l'opposizione a un ingiusto status quo - che rende difficile distinguerlo dai vari movimenti progressisti di dissenso, con i quali stringe a volte alleanze fondate su obiettivi condivisi. In mezzo alle sue istanze sociali si annida però un disprezzo altrettanto radicato per virtù che altri amanti della libertà considerano traguardi. Per comprendere appieno l'essenza del potere, dobbiamo quindi andare oltre la semplice "dimostrazione.di forza", l'esibizione plateale di un potere il cui unico obiettivo è mostrare alla gente chi è che comanda. Non possiamo non prendere in considerazione, o meglio identificarla come partner paritario nella scalata al potere, quell'entità sfuggente che qui per comodità abbiamo definito semi stato.
Ritornerò a breve su quest'entità invisibile ma potente. Lo Stato legittimo, nelle sue varianti dittatoriali o belliciste, rappresenta il potere allo stato puro, e gli stati africani, intrappolati in una spirale infinita di dittature e guerre civili, sono fin troppo abituati a quest'unica interpretazione del potere. Così come molti sono altrettanto abituati allo shock delle milizie governative che fanno irruzione all'alba o in piena notte nelle case e negli uffici dei dissidenti politici, trascinando via le proprie vittime nel totale sprezzo delle loro più o meno esplicite rimostranze. Il pullulare, nella società, di agenti segreti semi invisibili, l'arruolamento di amici e parenti - come è chiaramente documentato, tra gli altri, nei casi dell'Etiopia del regime del Dergue, dell'ex Germania dell'Est, dell'Uganda di Idi Amin, tutti determinati a fare rapporto a ogni minimo segnale di malcontento o di indifferenza nei confronti dello Stato - è parte integrante di un palese sistema di dominio organizzato. Per comprendere fino infondo la neutralità del potere della paura, negli ultimi tempi, indifferente sia alla natura religiosa sia a quella ideologica, basta mettere a confronto le testimonianze delle vittime etiopi del regime ateo di Mariam Megistu con quelle emerse dal bastione teocratico dell'Iran durante l'orgia purificatoria dei suoi leader religiosi. I Taleban restano nella memoria come un esempio lacerante di disprezzo della dignità umana, come il terrore stalinista nell'ex Unione Sovietica.
Per quanto terribili ci possano apparire i trascorsi delle dittature del passato (sia di sinistra che di destra) difficilmente la paura prodotta da questi regimi è riuscita a penetrare in profondità, a differenza del semi-stato, che nella sua totale imprevedibilità sdegna anche le regole basilari della responsabilità, che purtroppo, bisogna ammetterlo, vengono calpestate anche all'interno degli stati legittimi. Sono questi gli elementi che stanno alla base dei semi-stati, istituzioni del terrore spesso meticolosamente strutturate ma contemporaneamente opache, disegnate quasi completamente sul modello dello stato di diritto, con tre fondamentali differenze: la mancanza di confini di cui abbiamo parlato, l'assenza di segretariati di governo con ministri riconoscibili e, a questa strettamente connessa, la mancanza di una responsabilità di governo. Dotato di un suo sistema gerarchico di élite e di proprie forze di controllo (di polizia e di repressione), il semi-stato mira probabilmente a un nuovo ordine mondiale, ma la realizzazione di questo disegno è circoscritta a una cerchia ristretta, che si diffonde come un virus per città e luoghi affollati, incurante dei confini territoriali. E a farne le spese è il mondo intero, che finisce per essere considerato cinicamente merce di consumo.
L'Unione Sovietica di Stalin non esiste più; l'Afghanistan dei Taleban nemmeno. È il semi-stato, oggi, a creare la paura più grande, una paura che rischia di tra-sformarsi in nevrosi nel momento in cui lo Stato di diritto, contraddicendo in qualche modo se stesso, si serve proprio del semi-stato per portare avanti i propri affari, finendo così per avere contemporaneamente la botte piena e la moglie ubriaca. Alleato con una forza del terrore che discende dai suoi poteri istituzionali e che trae giovamento da questa connivenza, si presenta al mondo bifronte come Giano, negando al proprio alleato segreto qualsiasi riconoscimento formale, ma al tempo stesso rafforzandolo. Questa strategia era diffusa negli anni della Guerra Fredda, quando uno dei due contendenti si creò una propria segreta macchina del terrore, che utilizzò come strumento del tutto autonomo di polizia di stato pur mostrandosi, volutamente, estraneo alla sua esistenza e alle sue operazioni. Un ombrello con la punta avvelenata può cominciare la sua missione in Unione Sovietica e portarla a termine contro un dissidente per le strade di Londra. Le squadre della morte al servizio di una dittatura di destra latino-americana raggiungono e fanno saltare in aria il rifugio o gli uffici di qualche intellettuale dissidente in Spagna o a Lisbona. Uno Stato disperde la sua squadra di kamikaze ben al di là dei propri confini. Gli "alfieri del mondo libero", gli Stati Uniti, prendono in considerazione l'idea di giustiziare un leader nemico ideologicamente pericoloso con un sigaro esplosivo.
Di per sé, tuttavia, il messaggio antagonista del semi-stato può anche affascinare. Solo raramente, come è accaduto in Algeria, compie l'errore di tradursi in azione prima del tempo. Lì, decine di anni di abbandono, di corruzione e di alienazione delle élite dominanti portarono la popolazione delusa a votare, nelle elezioni democratiche del 1992, un movimento radicale; in tutto ciò l'elettorato restò sostanzialmente indifferente di fronte al rischio che in nome dei principi teocratici venissero soppresse molte delle libertà laiche date per scontate.
Nell'immediato, un tozzo di pane e un letto in cui dormire erano questioni ben più urgenti del concetto di libertà del gusto. Saliremo al potere su una scala democratica - dichiarava il partito islamico, che riscuoteva evidentemente ampi consensi - dopodiché spingeremo via la scala, e non ci sarà più democrazia. Mi soffermo un istante sul contesto algerino; contiene molti elementi di interesse, e riveste ovviamente il tragico ruolo di essere una di quelle involontarie agenzie di dispersione di risorse umane del nostro inarrestabile clima di paura.
L'Algeria è soltanto un esempio di comodo ma per quanto mi riguarda, devo ammetterlo, si tratta anche di una scelta.
La mia generazione crebbe in un clima di lotta anticoloniale - quella algerina - particolarmente spietato, che in quanto a intensità fu superiore persino alla rivolta nazionalista guidata dal keniano Mau Mau. La si può considerare la più brutale delle guerre di liberazione africane, all'alba del decennio di indipendenza del continente - gli anni Sessanta del Novecento. L'Algeria giocò inoltre un ruolo fondamentale nella nascita di quelle formazioni radicali del nazionalismo africano (e persino dei neri d'America) degli anni Cinquanta e Sessanta che servirono da riferimento, sostegno e aiuto materiale per molti leader rivoluzionari africani, dalla Guinea al Ghana fino al Congo e al Sud Africa. Questo paese nordafricano appartiene a quell'ala radicale degli stati africani che, nella formazione dell'Organisation of African Unity, finì per coalizzarsi con l'ala più conservatrice. Trovandosi di fronte a tutto ciò, era probabilmente inevitabile che ai tempi la mia generazione si prendesse a cuore le sorti di quello Stato. In quanto Stato neo-indipendente, i suoi esperimenti di ricostruzione postcoloniale divennero un punto di riferimento per le trasformazioni e lo sviluppo di altri stati africani neo-indipendenti.
La storia di un popolo del genere che precipita in una condizione di regressione sociale, qualsiasi siano le cause, è veramente spaventosa e allarmante, tragica, una specie di fardello di Sisifo che agenti imprevedibili caricano soventesulle spalle dei movimenti sedicenti progressisti. Bisogna ricordarsi di non dare mai per scontata nessuna situazione politica di fatto , di non sottovalutare mai l'energia compressa propria del semi-stato, che con il suo ricorso meccanico alla legge della paura come strumento di lotta finisce per condannare all'esilio i cervelli migliori dello Stato, mentre altri vengono liquidati, paralizzando così l'istinto creativo di un popolo dinamico.
Nel 1992 l'Algeria rappresentava un punto di domanda che metteva in crisi i più convinti sostenitori della democrazia in qualsiasi parte del mondo, ma soprattutto i suoi vicini africani dall'altra parte del Sahara, impegnati in molti casi nella lotta per la liberazione dall'oppressione della dittatura militare. La domanda di fondo può essere riassunta così: se credi nella democrazia, non sei dunque obbligato ad accettare, senza discriminazioni, le conseguenze che derivano dalla scelta democratica, anche se questo significa la fine stessa del processo democratico? Questo fu il nodo alla base della scelta elettorale compiuta liberamente dalla popolazione algerina. Perché d'altra parte un popolo non dovrebbe, in effetti, affrancare Hegel da Marx? L'avrebbero soltanto ripagato con la sua stessa moneta, dato che il vanto di Marx era di aver mosso i suoi primi passi prendendo a modello il concetto di storia di Hegel, salvo poi stravolgerlo. All'idealismo di Hegel sostituì un principio materialistico e la lotta di classe. Entrambi concordano sul processo dialettico che porta al compimento della storia attraverso l'indebolimento dell'ordinamento dello Stato. Le contraddizioni sociali vengono risolte e la lotta politica eliminata. La classe dominante non si distingue più da quella dominata - in un caso per la benevola incarnazione di un potere morbido, nell'altro per lo sradicamento delle classi.
Ciò che fece il Partito islamico d'Algeria fu semplicemente di immettere nel corano la volontà, o lo spirito, della storia. Secondo Hegel - ironia della sorte - questo dovrebbe essere letto come un progresso democratico, dal momento che questo processo di annullamento della storia venne raggiunto attraverso una scelta popolare, e alla classe teocratica venne consegnato dall'elettorato stesso il titolo - sintetizzato da Fukuyama in La fine della Storia - di interpreti della volontà della storia.
Nessuno può contestare l'idea che la scelta è alla base del processo democratico, e dunque se un popolo ha compiuto una scelta che elimina la necessità di successive tornate di scelte, ecco... l'argomento pare al capolinea. La storia si è compiuta.
Il problema di questa argomentazione è ovviamente che nega la natura dinamica della società umana, e predica che la pura casualità possa sostituire in qualsiasi momento l'eterno e l'immutabile. Questa posizione spiana la strada al trionfo di un ordine sociale fondato sul concetto di Eletto - una presa in giro del principio della libera scelta, se mai è esistito! - ed elimina completamente l'impulso al cambiamento come fattore di sviluppo umano.
Sul versante politico consegna per sempre il potere nelle mani di una cricca di governanti, che comprende membri della classe militare, così come membri di sette massoniche, sindacati o congreghe scientifiche dove specifiche circostanze hanno messo tali personaggi nella posizione di risolvere una sconvolgente catastrofe o addirittura un dilemma. Ogni volta che alla storia viene concessa la possibilità di compiersi, alla domanda o all'esperimento si sostituisce la rivelazione, al dibattito il comando. Nel 1992, in Nigeria, queste per noi non erano astrattezze, e avevamo sperato che l'Algeria semplicemente svanisse o scegliesse un altro momento per porre un dilemma che forniva argomenti al nostro inespugnabile ordine dittatoriale.


 


(Tratto da La Repubblica del 16 Aprile 2005. Traduzione di Andrea Bajani e Maria Paola Pierini)

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