Migrazioni e trauma

- È legittima questa equazione? -



Andrea Lombardi

Perché parlare di migrazioni e trauma, oggetto di studi di un gruppo di ricercatori del Laboratorio di Studi sull'Intolleranza di varie università? Si deve riconoscere che il mondo attuale deve effettivamente essere considerato un prodotto delle migrazioni, la cui etimologia già indica nel verbo latino migrari una parentela con trasformare, tradurre, translare: dunque operare una sovrapposizione. Collaborazione e integrazione fra culture (alcune saltuarie guerre e qualche conflitto prolungato devono essere considerati solo un fenomeno paseggero e irrilevante!). La migrazione e il sentirsi "in transito", in movimento fra due o più sponde, è certamente sintomo della contemporaneità: ibridazione, stratificazione e interconnessione tra persone, cose e culture. Incontro necessario, obbligatorio con 'l'altro', specialmente in un paese come il Brasile, in cui ibridazione e convivenza sono paradigmatiche e fortissime. La migrazione può però stimolare anche una riflessione a ritroso, verso il passato. Basta dare un'occhiata al buio passato, che non sempre ama essere evocato, ma il cui ricordo è legato strutturalmente al concetto d'identità. Questo sguardo può ricordare elementi indesiderabili per noi o per la tradizione di cui facciamo parte. Una rottura, una ferita, una lacerazione: elementi non rimarginati. Cosciente o no, apparentemente volontaria o indotta, per motivi economici (apparentemente) o eminentemente politici, quando non per motivi eminentemente psicologici. Scardinamento di legami affettivi (parenti, amici), vincoli con il contesto (il panorama quotidiano, l'alimentazione, la lingua, la tradizione). Infine aspetti psicologici: una sensazione (illusoria e apparente) d'identità; certezza supposta, aspetti della nostra vita gregaria di tutti i giorni (il giornale, il gruppo, il partito, la passeggiata, "lo struscio", il cappuccino...).
Questa rottura introiettata, sedimentata, apparentemente dimenticata, o meglio: rimossa, può essere avvenuta specialmente nel corso e come effetto della grande emigrazione e aver generato vere e proprie forme patologiche, cioè non più indizi e problemi, anche gravi: sintomi ed elementi di una patologia, di una vera e propria malattia: perdita di memoria (cancellare cose viste, perché invedibili, disumane); incapacità di apprendere l'altra lingua: la lingua dell'altro, in quanto la lingua del mondo che appare responsabile per la tragedia; incapacità di dislocarsi senza tensioni; sordità culturale e, naturalmente, altri problemi legati all'analfabetismo pesantissimo dell'epoca che rendevano la ricezione più difficile; la depressione (una malattia conosciuta allora come malinconia, come stranezza, come pessimismo ostinato e bollata come vergognosa); suicidi, anche se più dificili da individuare a ritroso; degradazione subumana durante il viaggio, all'arrivo e, finalmente: pazzia, malattia mentale. Quest'ultimo ("malattia mentale") è il sottotitolo del più bel libro già apparso sul tema: A mezza parete di Diego Frigessi e Castelnuovo. L'ipotesi di un trauma, cioè un evento la cui violenza è tale che non può essere assorbita dall'apparato psichico (e origina sintomi, come tic nervosi, nevrosi, ripetizioni e altro) non è una certezza o un necessità assoluta (può essere avvenuta, ma non è effettivamente documentabile). È una semplice ipotesi. È quasi una metafora della tradizione storica di un paese, l'Italia, che appena decisa l'unificazione apre le porte a un'emigrazione in massa. Un'espulsione, un rigetto. L'ipotesi dell'emigrazione come trauma aiuta a spiegare i problemi d'identità di una tradizione storica (quella italiana), in bilico fra megalomania (il passato strabordante di cultura, l'arroganza che il fascismo ha cristallizzato) e la delusione e la vergogna dell'unificazione: dall'emigrazione alla violentissima repressione conosciuta come brigantaggio meridionale, alla tardia avventura coloniale. L'emigrazione come vergogna storica, poiché anche se originata da motivi economici (le carestie, il prezzo del grano), il dramma che si è consumato allude sempre a motivi più generali, teorici, psicologici e politici.
Ragionevoli motivi portano a pensare che questi residui, resti, brandelli di memoria, anche se rimossa, indicibile, vergognosa, affiorano qui e là. Il trauma, questa rottura o ferita di proporzioni tanto grandi che non è riesce ad essere elaborato dall'apparato psichico che genera una rimozione e sitomi nevrotici, quali la ripetizione, ecc. è forse accaduto (non solo in ipotesi) come fenomeno individuale, ma può essere pensato come metafora: trauma storico (espressione impropria, ma che significa). Prosopopea o personificazione di un nuova nazione (l'Italia) che, in procinto di proclamare o consumare la sua nuova identità (Risorgimento, vittoria dei Savoia, unificazione), decide o è costretta (per sua incapacità di assorbire la nuova mano d'opera: industrializzazione burocratica e non effettiva) a mandare via i propri 'figli'. La favola di Hans e Gretel dei fratelli Grimm può leggersi come parabola di una situazione in cui i genitori (Patria/ matria) decidono di mandare a morire i due piccoli figli nella foresta, poiché la situazione economica non permette loro di sopravvivere in quattro. Prospettiva di lettura destabilizzante (e non educativa come qualcuno ha sostenuto), che rende almeno in parte la grandiosità terribile delle conseguenze del trauma.


Andrea Lombardi è docente di letteratura italiana presso la USP (Università di San Paolo), nel Brasile.

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