Una leggenda imbarazzante

Giorgio Ruffolo

 

La leggenda di Roma, come tutte le leggende che servono a nobilitare la nascita di città famose, è stata il frutto di una lunga elaborazione. Il suo nucleo originario era semplice: un figlio di Giove, un eroe, un tale Romo, l'avrebbe fondata, dandole il suo nome. Era evidentemente una storia un po' troppo povera. E quindi si arricchí progressivamente di racconti che pretendevano, sia pure senza rinunciare all'origine divina, a radicarla in un mito storico illustre: quello dei greci e dei troiani. Della grande tragedia di Troia pochissimi erano gli eroi sopravvissuti. E di questi, due avevano molto viaggiato, dopo la fine della guerra, Ulisse ed Enea. Ecco i magnifici candidati a un approdo sulle coste laziali, per annodare le antiche alle nuove glorie: Ulisse sul promontorio di Circe, Enea un po' piú su. Ad ambedue fu attribuita una discendenza latina. Ne emerse vittorioso Enea, forse per la sua piú diretta ascendenza divina (da Venere). Cosí, quel Romo o Romolo gli fu prima attribuito come figlio; e poi, quando emerse una chiara incompatibilità cronologica, come pronipote, attraverso una progenie di re latini e albani. Cosí Virgilio, il rifinitore della leggenda, poté allacciarsi felicemente a Omero, nel secolo aureo di Augusto.
Ma la leggenda aurea aveva un risvolto molto meno edificante e piú psicanalitico, che il meno agiografico e piú scettico Plutarco raccontò senza complessi. Secondo quella versione, del tutto ignara del pio Enea, il re della città latina di Albalonga, Tarchezio, una notte è svegliato di soprassalto dai famigli perché un orrendo membro si libra immenso e pulsante nel tablino, giù da basso. Il re, che era un latino collaborazionista degli etruschi, consulta i loro indovini. La risposta è chiara: quello è il grande spirito del dio del fuoco latino, il grande Marte, che adirato per il comportamento antinazionale del re, vuole generargli un successore autentico, e ha scelto questo modo un po'anomalo. Il responso etrusco è astuto, come erano gli etruschi: il re non frapponga ostacoli, ma, anzi, compiaccia il grande intruso mandandogli una vergine. Il re è perplesso: forse gli etruschi lo stanno abbandonando per venire a patti con il dio irato? E per salvare il regno chiede alla giovane figlia di sacrificarsi per il bene della patria: così diventerà nonno del nascituro, il che potrà ammorbidire il piano di Marte. La giovane però non ne vuole sapere di quel coso solitario e arrogante, e convince una schiava a sostituirla. La prova riesce tanto bene che dopo nove mesi nascono non uno ma due maschietti. Il nonno è costernato, e anche gli indovini. Chi dei due è il predestinato? Da chi bisogna difendersi? Come si vede, Marte non è stato meno astuto degli indovini etruschi. Per non recare offesa al dio, ma neppure correre rischi, Tarchezio decide di lasciare la decisione al Tevere, facendo depositare i neonati in una cesta galleggiante sul fiume. Qui le versioni collimano ma per divergere subito dopo. Infatti, man mano che i due bimbi raccolti da una lupa (così si chiamavano allora le prostitute) crescono, diventa sempre piú evidente che Remo è il vero predestinato, è il campione latino, il vendicatore della razza, il liberatore dei latini dal dominio etrusco, il prescelto a fondare sulla riva sinistra del Tevere la città nuova, che dovrà chiudere agli etruschi la porta della pianura laziale. Romolo è il piú debole ma anche il piú astuto. Lascia che sia Remo a sbarazzarsi del re di Albalonga e si mette d'accordo segretamente con gli etruschi per far fuori subdolamente l'onesto Remo in una delle piú famose contese fraterne della storia. Ingannandolo sull'esito della gara concordata (chi avesse visto per primo gli avvoltoi nella Valle Murcia tra l'Aventino e il Palatino, dove piú tardi sorse il Circo Massimo) ne provoca l'ira, il fatale passaggio del solco che lo sleale vincitore sta tracciando e il successivo assassinio, perpetrato da un sicario etrusco con un colpo di zappa sulla testa.
Come si può capire, questa non era una versione lusinghiera per le origini della capitale del mondo. Tanto piú che Romolo, protetto dagli etruschi, fu praticamente espulso dalla comunità delle altre città latine e costretto a dare asilo, per popolare la nuova città, a ogni sorta di banditi. I romani si inventarono un nuovo dio, il Dio Asilo, cui fu dedicato un tempio eretto esattamente dove è ora la piazza michelangiolesca del Campidoglio, tra due boschetti, che sono ora il palazzo capitolino e quello senatorio. E rapirono le fanciulle sabine, perché nessuna ragazza era volontariamente disponibile a vivere in quella città esecrata.
Lo stesso Romolo, secondo la leggenda, fu vittima di quella sua città violenta e dissoluta. Insofferenti della sua prepotenza, gli anziani lo fecero a pezzi; e temendo la reazione della sua gente, si divisero tra loro i pezzi e li nascosero sotto le toghe, raccontando poi che il re era volato via, assunto in cielo, dove il dio Marte lo aspettava.
Leggende così fosche tradiscono condizioni di particolare turbolenza. E questa nasce forse dalla posizione nevralgica della nuova città, alle frontiere di due civiltà - l'etrusca e l'italica - e all'incrocio di due importanti vie commerciali, quella est-ovest del sale, tra il Tirreno e i monti della Sabina; e quella nord-sud, dalla Toscana etrusca alla Campania greca, sulla quale transitavano altre due preziose merci: il ferro e gli schiavi.



(Tratto dal saggio Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, Torino, 2004.)

 



Giorgio Ruffolo (Roma, 1926) è stato segretario generale della programmazione economica negli anni Sessanta e ministro dell'Ambiente dal 1987 al 1992; deputato e senatore al Parlamento italiano, è oggi deputato al Parlamento europeo. Dal 1994 è presidente del Centro Europa Ricerche. È stato tra i fondatori della rivista "Micromega". Ha pubblicato anche La grande impresa nella società moderna (1971) e Cuori e denari (1999).

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